Contemperamento d’interessi in condominio: legittima l’installazione dell’ascensore che incide sulla larghezza delle scale

Corte di Cassazione – II sez. civ. -sentenza n. 19087 del 14-06-2022

All’esito della comparazione tra vantaggi e svantaggi che l’opera comporta per i condomini risulta legittima l’installazione dell’ascensore che pur incide sulla larghezza delle scale

La vicenda

Alcune condomine dei piani alti citavano in giudizio i proprietari degli altri quattro appartamenti posti ai piani primo e secondo dello stabile, chiedendo che fosse accertato il loro diritto di installare, a proprie spese, un ascensore all’interno dell’edificio realizzato nell’anno 1960, che ne era sprovvisto. In particolare, come da progetto di fattibilità, le attrici intendevano occupare con il vano ascensore la tromba delle scale e piccola parte degli scalini. I convenuti eccepivano che nell’edificio mancava uno spazio idoneo ad alloggiare l’ascensore all’interno del vano scala, poiché non vi era la tromba delle scale; di conseguenza precisavano che l’installazione dell’ascensore avrebbe gravemente compromesso l’uso delle scale e della cabina al condomino. In ogni caso sostenevano come la riduzione in questione (che si intendeva effettuare mediante taglio parziale dei gradini per consentire l’alloggiamento del vano ascensore) fosse vietata dalla legge. Il Tribunale dichiarava il diritto delle attrici all’installazione dell’ascensore, a loro cura e spese, all’interno dell’edificio. La Corte di Appello confermava la decisione di primo grado. A sostegno dell’adottata pronuncia i giudici rilevavano che la legge n. 13/1989 e il decreto attuativo n. 236/1989 non regolavano il caso esaminato, con la conseguenza che la realizzabilità dell’opera era stata esaminata sotto il profilo della comparazione tra i vantaggi e gli svantaggi che essa avrebbe potuto determinare; che doveva essere confermata la valutazione del giudice di prime cure in ordine alla conformità dell’installazione dell’ascensore alle condizioni prescritte dall’art. 1102 c.c.; che, considerate attentamente le abitudini attuali di vita, il sacrificio minore si sarebbe realizzato incidendo sulla larghezza delle scale, ridotta a cm. 77,00, al netto del corrimano, per tutte le rampe, e a cm. 74,00, sempre al netto del corrimano, per la sola prima rampa, peraltro con la possibilità che l’ingombro del corrimano potesse essere ridotto mediante accorgimenti particolari. I soccombenti ricorrevano in cassazione.

La questione

Tenendo conto dei vantaggi e degli svantaggi che l’opera comporta può essere considerata legittima l’installazione dell’ascensore che riduce la larghezza delle scale a cm. 77,00, al netto del corrimano, per tutte le rampe, e a cm. 74,00, sempre al netto del corrimano, per la sola prima rampa?

 

La soluzione

La Cassazione ha ritenuto legittimo il progetto relativo all’installazione dell’ascensore nelle scale. Secondo i giudici supremi, considerate attentamente le abitudini attuali di vita e le esigenze degli abitanti delle grandi città, nonché le attuali caratteristiche della popolazione italiana (composta in misura di gran lunga prevalente da persone non giovani), tale installazione è legittima anche se comporta la riduzione della larghezza delle scale che costituisce il sacrificio minore. Infatti- ad avviso della Cassazione – l’interesse all’installazione, nonostante il dissenso di alcuni condomini, dell’impianto di ascensore è funzionale al perseguimento di finalità non limitabili alla sola tutela delle persone versanti in condizioni di minorazione fisica, ma individuabili anche nell’esigenza di migliorare la fruibilità dei piani alti dell’edificio da parte dei rispettivi utenti, apportando una innovazione che, senza rendere talune parti comuni dello stabile del tutto o in misura rilevante inservibili all’uso o al godimento degli altri condomini, faciliti l’accesso delle persone a tali unità abitative, in particolare di quelle meno giovani. Come hanno notato i giudici supremi detto contemperamento è stato espressamente effettuato dai giudici di secondo grado, che, all’esito del bilanciamento tra utilità e svantaggi di due esigenze non conciliabili, hanno (con motivazione ineccepibile) dato preferenza all’installazione dell’ascensore.

 

Le riflessioni conclusive

La sentenza prosegue il nuovo orientamento formatosi dopo l’importante sentenza della Corte Costituzionale n. 167 del 10 maggio 1999, decisione che ha contribuito ad un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati ora quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall’intera collettività.

Di conseguenza si è cominciato ad affermare che il principio di solidarietà condominiale, che presuppone la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato, implica il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali si deve includere anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche (o comunque delle persone che hanno difficoltà ad affrontare le rampe), trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all’intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione (Cass., sez. II, 28/03/2017, n. 7938). Alla luce di quanto sopra è risultata legittima la riduzione delle scale alla larghezza di 80 centimetri pur comportando un lieve aumento delle difficoltà di transito o di trasporto con barella (Trib. Roma 27 maggio 2016); ma è apparsa non contestabile pure l’installazione dell’impianto in questione anche quando la larghezza della scala rimasta a disposizione per il transito è risultata pari a 0,72 m (Cass., sez. II, 05/08/2015, n. 16468)

L’amministratore ha diritto al compenso nelle more della revoca assembleare?

La disamina della pronuncia del tribunale palermitano, pone l’accento sul pagamento del compenso in favore dell’amministratore revocato

Con sentenza emessa in data 30 maggio 2022, n. 2344, il Tribunale di Palermo rigettava la domanda proposta da un condominio nei confronti di un amministratore di condominio, che chiedeva la restituzione della somma di euro 5.293,44 per il compenso incassato dal capo condominio per l’attività di contabilità straordinaria inerente i lavori di ristrutturazione dello stabile condominiale, dopo la sua revoca assembleare.

Si costituiva in giudizio il convenuto eccependo, in particolare, che l’attore non aveva contestato il diritto dello stesso a percepire il compenso determinato nella misura del 2% dei lavori straordinari, come rinviene dalla delibera assembleare del 12.4.2011

La causa veniva istruita soltanto in forma documentale, il giudicante si riservava per la decisione, con l’assegnazione dei termini previsti dall’art. 190 c.p.c.

La pretesa di parte attrice

Dalla disamina della pronuncia del Tribunale siciliano, emerge la necessità di porre l’accento sull’art. 1720 c.c., secondo cui nel contratto di mandato con rappresentanza che intercorre tra i condomini e l’amministratore, i mandanti sono tenuti a rimborsare al mandatario le anticipazioni effettuate con gli interessi legali dal giorno in cui sono state effettuate, nonché a pagargli il compenso per l’attività svolta nell’interesse degli stessi.
Precisato quanto innanzi, nel caso posto al vaglio del giudice adito, la pretesa del Condominio di restituzione delle somme trattenute dall’amministratore revocato a titolo di compenso per l’attività straordinaria prestata nel periodo antecedente alla revoca, è stata fondata esclusivamente sulla circostanza che i bonifici siano stati effettuati dal capo condomino in data successiva alla delibera di revoca del medesimo, sebbene antecedente alla consegna della documentazione condominiale al nuovo amministratore.

La sospensione dei servizi comuni ai condomini morosi

Cosa si intende per anticipazioni dell’amministratore

La tendenza di molti amministratori è quella di anticipare le somme necessarie alla gestione, in mancanza di fondi, con la speranza di recuperarle l’anno successivo ove, al contrario, sono costretti ad anticipare nuovamente, per cui accade che qualora l’amministratore venga sostituito si veda negare il rimborso, per cui è costretto ad agire in giudizio; ma le difficoltà sono notevoli.

Il regime delle anticipazioni non costituisce una fattispecie inquadrabile nell’arricchimento senza causa, ma è disciplinato all’art. 1720 c.c., il quale dispone che il mandante sia tenuto a rimborsare, con gli interessi, quanto il mandatario abbia anticipato in esecuzione del rapporto.

Al fine di poter vantare il diritto al rimborso, si pone a carico dell’amministrazione l’allegazione e la dimostrazione dettagliata delle somme anticipate, che si riassumono in tre principi:

L’amministratore non ha diritto a recuperare le anticipazioni qualora le spese anticipate non siano state approvate dall’assemblea.

Il semplice saldo passivo a rendiconto, tra entrate ed uscite, non presuppone l’anticipazione dell’amministratore in quanto lo stesso potrebbe avere reperito i fondi altrove.

L’amministratore deve dimostrare, da un lato, di avere anticipato in presenza di carenza di fondi sul conto corrente condominiale, quindi deve dimostrare di avere sopperito con propri pagamenti, esibendo i bonifici o, comunque, i titoli attraverso i quali i pagamenti sono avvenuti.

Sul punto, il Supremo Collegio (Cass. civ., sez. II, 9 maggio 2011, n. 10153) ha stabilito che il rendiconto, ancorché approvato dall’assemblea, non integra una ricognizione di debito da parte di quest’ultima, anche qualora venga evidenziato un saldo passivo, atteso che l’amministratore potrebbe avere ricavato aliunde, magari attraverso fondi giacenti, le somme necessarie; in altri termini, l’atto dell’assemblea, costituito dalla delibera di approvazione integra un mero atto interno in quanto questa non è chiamata a rendere una dichiarazione sulle richieste dell’amministratore, per cui il giudice del merito non può fondare il diritto dell’amministratore al ristoro soltanto sulla base del “passivo” approvato, ma la domanda deve descrivere, nel dettaglio, le circostanze fattuali che hanno portato all’insorgenza dell’obbligazione.

La prorogatio imperii: effetti e conseguenze

Secondo il ragionamento condivisibile del giudice di primo grado, tra la delibera di revoca del precedente amministratore e di nomina del nuovo e l’effettivo inizio dell’attività da parte di quest’ultimo, intercorre un periodo di tempo, indicato come “prorogatio imperii”, durante il quale l’ex amministratore deve effettuare le attività urgenti ed ordinarie nell’interesse del Condominio, tra le quali possono annoverarsi i pagamenti dei debiti scaduti (come la fattispecie in disamina).

Sicché chi è cessato dall’incarico di amministratore essendo stato revocato o avendo dato le dimissioni deve eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi al condominio, giacché molte responsabilità ricadono in questa fase ancora sull’amministratore cessato, secondo quanto previsto dall’art. 1129 c.c. (Cass. civ. 5 febbraio 1993 n. 1445).

Sembra che il capo condominio possa esercitare soltanto le operazioni ordinarie e il disbrigo degli affari correnti non procrastinabili poiché pregiudizievoli per il condominio, nell’attesa del passaggio di consegne al suo successore.

Perciò l’istituto della prorogatio imperii è applicabile in ogni caso in cui il condominio rimanga privato dell’opera dell’amministratore e, pertanto, non solo nei casi di scadenza del termine di cui all’art. 1129, comma 2, c.c. o di dimissioni, ma anche nei casi di revoca o annullamento per illegittimità della relativa delibera di nomina (Cass.civ. sez. VI, 13 giugno 2013, n. 14930).

Va, altresì, precisato che se il capo condomino, prosegue nella sua attività condominiale, ad es. redigendo più bilanci in unica soluzione e continuando ad operare sul conto corrente condominiale, il tutto senza mai dare conto all’assemblea della propria gestione, è indubbio, quindi, che ci troviamo di fronte un amministratore nel pieno esercizio dei suoi poteri per il quale valgono tutti gli obblighi di cui all’art. 1129, comma 12, n. 1 che consentirebbe al condomino di ricorrere all’autorità giudiziaria per la revoca forzosa ai sensi della medesima norma, comma 11 e da considerarsi non assolutamente in prorogatio imperii (Corte d’Appello Firenze 21 aprile 2021).

Onere della prova: mancanza di prova

Nell’azione di restituzione intentata dall’attore, lo stesso, processualmente, non ha contestato il diritto dell’ex amministratore al compenso maturato, ma solo la legittimità dell’incasso delle somme tramite due bonifici quando era già stato revocato.

Però, nell’ipotesi del recupero di somme anticipate all’amministratore nell’interesse del condominio il credito che si fonda nell’art. 1720 c.c., ovvero sul mandato con rappresenta, il Condominio non avendo contestato il diritto al pagamento del compenso non ha provato di averlo sostenuto e di aver adempiuto all’obbligo di pagamento (in tale senso Cass. civ. sez. II, 26 febbraio 2019, n. 5611).

Ne consegue l’infondatezza della domanda di restituzione di somme intentata nei confronti dell’amministratore di condominio uscente e la conseguente condanna al pagamento delle spese.

Appalto lavori in condominio: se manca la contabilità finale addio al decreto ingiuntivo

Solamente la contabilità finale rende il credito certo ed esigibile

Torniamo ancora ad esaminare il contratto di appalto per l’esecuzione di lavori in Condominio; stavolta, però, in relazione all’aspetto del pagamento del prezzo, che costituisce l’obbligazione principale del Condominio quale committente.

Vediamo quindi a quale approdo è giunto il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con la sentenza n. 2131 del 1° giugno 2022.

 

Appalto lavori in condominio e opposizione a decreto ingiuntivo: la pronuncia

Un Condominio si oppone al decreto ingiuntivo notificatogli dalla Alfa, appaltatrice, per € 80.000,00 circa, richiesti ed intimati quale residuo del prezzo del contratto di appalto per la realizzazione di lavori di manutenzione straordinaria dell’edificio e delle sue facciate, di rifacimento del manto impermeabilizzante dei terrazzi di copertura e dei canali pluviali, nonché per i lavori ai balconi e per altri interventi di manutenzione.

A giustificazione di tale importo, in sede monitoria, la Alfa depositava n. 3 fatture.
Il Condominio opponente sostiene, non contestando il rapporto di appalto con la Alfa, che avrebbe già provveduto al pagamento di quanto dovuto e che, inoltre, il diritto al pagamento si sarebbe prescritto. Inoltre, il Condominio solleva eccezione di inadempimento, affermando che Alfa non aveva redatto la contabilità finale dei lavori, nonostante ciò fosse suo onere come da contratto stipulato, così che il Condominio aveva sì sospeso il pagamento, ma ciò solamente in quanto la Alfa non aveva redatto la contabilità finale dei lavori.
In assenza di contabilità finale dei lavori, il credito azionato da Alfa non sarebbe infatti né certo né esigibile, come invece richiesto quale una delle condizioni fondamentali per concedere il decreto ingiuntivo dall’art. 633 c.p.c.

Rammentiamo a noi stessi ed al lettore che il diritto dell’appaltatore di richiedere il prezzo dell’appalto si prescrive in 10 anni dal momento in cui il credito diventa esigibile, quindi dall’accettazione dell’opera o dalla scadenza dell’ultima delle rate pattuite; nel caso sottoposto al Tribunale ed in esame, il contratto era stato stipulato nel 2000, il decreto ingiuntivo emesso nel 2017.

Alfa, costituitasi in opposizione, contesta la prescrizione, osservando che erano stati richiesti lavori extracapitolato che aveva comportato l’esecuzione, su richiesta del Condominio, di lavori aggiuntivi non contabilizzati.

Alfa sostiene di aver inoltrato ad uno dei Direttori dei Lavori la nota di quanto eseguito ed i conteggi del dovuto, senza ricevere contestazioni o censure.

Secondo Alfa, non essendo state contestate le fattura, vi sarebbe accettazione tacita dell’opera da parte del Condominio.

Osserva ancora Alfa che i lavori oggetto di appalto siano stati totalmente modificati in corso d’opera, essendo stati rilevati gravi problemi strutturali, con conseguenze duplici, da un lato, lo slittamento del termine dei lavori e dall’altro, l’aumento dei costi.

In sede di memorie istruttorie, Alfa avanza domanda di condanna del Condominio per indebito arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c. in relazione alla sola fattura contestata dal Condominio stesso.

Il Tribunale di S.ta Maria Capua Vetere accoglie l’opposizione del Condominio.

L’inadempimento dell’appaltatore e la contabilità finale

Il Giudice campano costruisce il proprio ragionamento partendo dall’asserito inadempimento di Alfa, quale appaltatrice.

Innanzitutto, l’obbligo di rendicontazione finale era stato imposto ad Alfa dall’Art. 6 del contratto siglato con il Condominio, che prevedeva che la stessa dovesse provvedere «in collaborazione con il Direttore dei Lavori».

In secondo luogo, il Giudice ne valuta la gravità, ritenendo che non si trattasse di un obbligo minore o secondario, a fronte del tenore del contratto, dell’importo appaltato (circa 80.000,00 €) e del fatto che si trattasse di elemento che incideva direttamente sulla principale prestazione del committente, cioè il pagamento del prezzo.

Prezzo che, peraltro, risulta diverso da quello iniziale a fronte della documentazione in atti.
Rileva infatti il Giudice che il Condominio, stipulato un contratto che prevedeva una spesa di € 80.000,00 circa, aveva pagato sino a quel momento circa € 150.000,00, quindi quasi il doppio.

Ebbene, pur essendo possibile che il prezzo, teoricamente, potesse ‘lievitare’, come conseguenza delle variazioni ordinate dal committente, tuttavia a maggiore ragione la contabilità dei lavori eseguiti avrebbe dovuto essere ancora più esaustiva e puntuale.

Sottolinea ancora il Tribunale che il computo metrico depositato in sede istruttoria dalla Alfa non vale a surrogare la contabilità richiesta, atteso che lo stesso non risulta controfirmato dal Direttore dei Lavori in collaborazione con il quale la Alfa doveva muoversi come da contratto.

Peraltro, il computo metrico rende ancora più incerta la situazione, perché riporta stime ancora diverse rispetto al contratto ed al decreto ingiuntivo, indicando, come totale dovuto, ora una somma vicina agli € 180.000,00 ca, ora invece un’altra somma di €. 200.000,00 ca.

Recentemente, il Tribunale di Roma, richiamando la giurisprudenza della Corte di legittimità, si è così espresso circa il diritto dell’appaltatore al pagamento del prezzo: «Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, “in tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all’art. 1667 cod. civ., ma non derogano al principio generale che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, il quale comporta che l’appaltatore, il quale agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto, abbia l’onere – allorché il committente sollevi l’eccezione di inadempimento di cui al terzo comma di detta disposizione – di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte” (Cass., n. 936 del 20/01/2010; conformi, Cass., n. 3472 del 13/02/2008; Cass., Ord. n. 98 del 04/01/2019)». (Trib. Roma, sent. 17 febbraio 2022, n. 2630).

L’arricchimento senza causa

L’art. 2041 c.c. tutela colui che abbia arricchito un’altra persona in assenza di giusta causa.

Chi ha pagato o dato una cosa determinata ad un altro, così arricchendolo e in assenza di una giusta causa, può chiedere l’indennizzo a colui cui abbia versato o consegnato: costui è a sua volta obbligato, a fronte della richiesta e del ricorrere delle condizioni di legge, a tenere indenne il primo della relativa diminuzione patrimoniale o a restituire in natura la cosa consegnata, se sussiste al tempo della domanda.

L’art. 2042 c.c. precisa tuttavia che l’azione di arricchimento è sussidiaria, cioè è proponibile quando il danneggiato non abbia a sua disposizione altre azioni per ottenere ristoro del pregiudizio subito.

Osserva il Tribunale di S.ta Maria Capua Vetere: «Ora, però, ci si domanda se detta sussidiarietà vada vista in astratto o in concreto. Ci si chiede, in altri termini, se tale azione sia invocabile solo se nell’ordinamento non sussistono altri rimedi di per sé idonei a tutelare il proprio diritto oppure anche nel caso in cui astrattamente detti strumenti esistano ma, calandoli nel caso concreto, per talune ragioni (quale è, ad esempio e per quanto interessa, la mancanza di certezza del credito o l’impossibilità di riconoscerlo per accoglimento dell’eccezione di inadempimento) essi non possono portare alcun giovamento».

La risposta che si dà il Tribunale è nel senso della sussidiarietà in astratto:

così anche la Cassazione (sent. n. 20747/2007, citata nella sentenza in commento), perché si sottolinea che la ratio della sussidiarietà risiede nella protezione dell’ordinamento rispetto ad iniziative ‘parassitarie’ ed infondate, che avrebbero portato ad una fuorviante prassi di abuso del diritto di indennizzo.

Come spiega il Tribunale, «si sono volute evitare ipotesi specifiche: che il venditore potesse cumulare, all’eventuale credito per il prezzo pattuito, un’ulteriore pretesa per il maggior valore della cosa venduta; che il lavoratore potesse chiedere, in aggiunta al salario, il plusvalore; che potesse applicarsi la disciplina dell’ingiustificato arricchimento al cosiddetto arricchimento mediato o indiretto; che attraverso il viatico di tale strumento si potessero aggirare le regole di prescrizione e decadenza».

Nel caso in esame, non siamo peraltro nemmeno dinnanzi ad un’ipotesi in cui manchi la giusta causa, perché, a ben vedere, il rapporto sottostante esiste (il contratto di appalto in virtù del quale il Condominio deve un corrispettivo ad Alfa), è provato ed incontestato; ciò che manca è che, in concreto, il credito derivante dal contratto non può essere riconosciuto perché non risulta certo ed esigibile.

Inoltre, l’indennizzo per arricchimento senza causa non può mai includere il lucro cessante, ma solamente il depauperamento, mentre la richiesta di Alfa, nel caso specifico, andava proprio nel senso di richiedere il lucro cessante.

Peraltro Alfa avrebbe dovuto provare, volendo sostenere la debenza dell’indennizzo menzionato, l’an, cioè che l’esecuzione delle opere avesse comportato un mancato guadagno ed anche una perdita economica, che non risulta in re ipsa per il solo fatto del mancato guadagno.

Cioè, Alfa non poteva sostenere che fosse presente la «diminuzione patrimoniale» di cui all’art. 2041 c.c. per il solo fatto di non essersi vista pagata la fattura in contestazione da parte del Condominio.

Prescrizione decennale per gli anticipi sostenuti dall’amministratore

La giurisprudenza registra indirizzi contrastanti riguardo al termine prescrizionale entro cui richiedere gli anticipi sostenuti dall’amministratore del condominio nel corso degli esercizi.

Ci sono tre orientamenti: il primo sostiene che tali crediti ricadano nella prescrizione ordinaria decennale disciplinata dall’articolo 2946 Codice civile, il secondo ribadisce l’applicazione della prescrizione quinquennale sancita dall’articolo 2948 Codice civile ritenendo che le spese anticipate siano soggette a pagamento periodico, il terzo afferma l’applicabilità del termine di cui all’articolo 2956, numero 2 del Codice civile laddove stabilisce che si prescrive in tre anni il diritto dei professionisti per il rimborso delle spese. L’interessante pronuncia del Tribunale di Torino (pubblicata il 26 maggio 2022, numero 2253) sposa la prima tesi.

L’amministratrice di un condominio aveva convenuto quest’ultimo dinnanzi al tribunale torinese per sentirlo condannare al rimborso delle anticipazioni sostenute nel corso di due esercizi gestionali. Per i giudici andava respinta l’eccezione di prescrizione del credito sollevata dal condominio.

Il fondamento del credito
Il credito dell’amministratore si fonda, per costante giurisprudenza, sull’articolo 1720 Codice civile, ovvero sul contratto di mandato con rappresentanza. Secondo tale disposto, «il mandante è tenuto a rimborsare al mandatario le anticipazioni con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte». L’obbligazione restitutoria sorge nel preciso istante in cui avviene l’anticipazione.

La cessazione dell’amministratore dall’ufficio gestorio non determina alcun mutamento della situazione: la domanda diretta a ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale può essere proposta nei confronti del condominio o, eventualmente, contro i singoli condòmini inadempienti e la prescrizione è l’ordinaria decennale.

Esclusa la prescrizione breve
Il giudicante ha escluso l’applicabilità della prescrizione breve quinquennale sancita dall’articolo 2948, numero 4, Codice civile («in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi»). Infatti, ha precisato che il credito derivante dagli anticipi non è soggetto a pagamento periodico e non inerisce al contratto d’opera intellettuale.

Perciò è esclusa la prescrizione presuntiva disciplinata dall’articolo 2956, numero 2 del Codice civile («professionisti… per il rimborso delle spese»).

Terrazza abusiva da demolire? Non può opporsi il condomino che ne trae beneficio

Quando l’abuso giova a terzi più che al proprietario che lo ha commesso. È davvero singolare la storia su cui si è pronunciato il 3 maggio scorso il Tar toscano, sezione fiorentina, nella sentenza 606/2022.

I fatti di causa

A rivolgersi al tribunale amministrativo i condòmini di uno stabile che contestavano il diniego comunale alla loro richiesta di sanatoria di un abuso, commesso da terzi. Si trattava della società proprietaria dell’appartamento a piano terra occupato da un istituto bancario. Sulla chiostra interna, posta al livello del primo piano, utilizzata come locale macchine per il riscaldamento/raffreddamento degli uffici della banca, insisteva originariamente una copertura in lamiera, destinata a proteggere gli impianti dalla sporcizia e dalle intemperie. Nel 2001, in accordo con gli altri condòmini, ma senza acquisire alcun titolo abilitativo, la società proprietaria dell’immobile aveva effettuato lavori di consolidamento della copertura, rendendola praticabile, per poterla pulire e manutenere, mediante accesso dall’appartamento posto al piano secondo, acquisito poi da una famiglia.

Per quest’ultima quel solaio era diventato un terrazzo calpestabile a tutti gli effetti. Perciò si era opposta all’azione intentata da un altro proprietario che dall’abuso aveva invece subito un danno, perdendo aria e luce all’appartamento. E la società proprietaria? Favorevole all’abbattimento dell’abuso si era autodenunciata al Comune che aveva intimato la demolizione dell’opera. Tutto lineare? Niente affatto.

L’abuso e la proprietà dello stesso

La condomina proprietaria dell’appartamento che dava sul solaio abusivo e altri condomini avevano chiesto la sanatoria dell’abuso, dicendosi del tutto contrari alla demolizione. Sostenevano che il solaio fosse di proprietà condominiale poggiando sulle pareti interne perimetrali della chiostra, di proprietà condominiale. Censure infondate per il Tar fiorentino. Innanzitutto – scrivono – sfugge alla giurisdizione del giudice amministrativo l’accertamento della proprietà del solaio di cui il Comune ha ordinato la rimozione.

Il potere di verifica del titolo legittimante non impone all’amministrazione di svolgere complessi e laboriosi accertamenti, diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile considerato. Il Tribunale certifica solo la legittimità del provvedimento di diniego impugnato. Poiché nel caso in questione quel provvedimento è stato richiesto dallo stesso autore dell’abuso, la decisione comunale è più che legittima.

Appropriazione indebita, l’amministratore condannato va in carcere se non risarcisce il danno

L’articolo 47 del Dpr 354/1975 consente di espiare la pena detentiva inflitta, come misura alternativa al carcere, con l’affidamento in prova ai servizi sociali per un periodo uguale a quello da scontare. La misura consente al condannato di soggiornare nella sua abitazione, di solito dalle 21.00 fino alle 06,00, con alcune prescrizioni, e di svolgere l’attività lavorativa, sempre che la pena inflitta non superi i quattro anni e il reato non sia di particolare gravità. La concessione della misura non è automatica, ma viene concessa dal Tribunale di sorveglianza a seguito della richiesta del condannato e sulla base di un’approfondita istruttoria.

Il caso trattato

Un amministratore condominiale era stato condannato, in via definitiva, per il reato di appropriazione indebita aggravata e continuata perché, dal 2008 al 2011, si era impossessato di euro ottantamila, sottraendoli illecitamente ai condòmini. Il condannato chiedeva al Tribunale di sorveglianza l’affidamento in prova ai servizi sociali e tale richiesta veniva rigettata in quanto, sulla base delle risultanze istruttorie acquisite ( procedimenti pendenti, informazioni di polizia giudiziaria , relazione Uepe , nota dell’Ispettorato del lavoro), risultavano problematicità relative alla disponibilità abitativa, alla relazione con la moglie, al mancato risarcimento del danno alle persone offese , se non attraverso offerte palesemente inadeguate, alla mancanza di una presa di coscienza delle sue responsabilità e di una rivisitazione critica delle sue condotte criminose, all’assenza di un’attività lavorativa.

Tale elementi non consentivano al Tribunale di sorveglianza di formulare, nei confronti del condannato, una ragionevole prognosi di mancata reiterazione dei reati. Il condannato ricorreva avverso la sentenza, lamentandone l’ingiustizia, in quanto il Tribunale aveva aderito acriticamente alla relazione Uepe, non aveva valutato la disponibilità del ricorrente a risarcire il danno attraverso importi proporzionati alla sua disponibilità economica e non avesse considerato che la mancata attività lavorativa derivava dalla sua età e che il giudizio prognostico negativo fosse infondato.

La decisione della Cassazione

La Suprema corte nella sentenza 20473/2022 dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente a pagare euro 3.000 alla Cassa delle ammende poiché:
– per formulare il giudizio prognostico favorevole il Tribunale deve valutare anche la condotta del condannato tenutasi successivamente al reato che è essenziale per accertare l’esistenza di un effettivo recupero sociale e della prevenzione del pericolo di recidiva (Cassazione 31420/2015);
– ai fini del diniego della concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali il Tribunale può legittimamente valutare l’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima, non ostando a tale considerazione la mancata previsione del risarcimento del danno, quale condizione per la concessione del beneficio (Cassazione 39266/2017).

La Cassazione affermava che il Tribunale di sorveglianza aveva legittimamente negato il beneficio al condannato poiché, nell’ esercizio della sua discrezionalità e in modo non illogico, aveva attribuito valore preponderante alla mancanza di una revisione critica del passato deviante del condannato. Il ricorrente aveva dichiarato di avere fatto sempre del bene, nei colloqui intrattenuti con il personale Uepe, e non aveva adottato condotte riparatrici a favore delle vittime del reato, a fronte della rilevante entità delle somme (pari ad euro ottantamila) oggetto dell’indebita appropriazione indebita commessa in qualità di amministratore condominiale.

Conclusioni

Il ricorrente infatti non risarciva il danno, offriva a ciascuna delle parti offese 1.500 euro, somma notevolmente inferiore a quella sottratta, soltanto a seguito di plurime ed inutili richieste dilatorie di rinvio delle udienze del giudizio di cognizione. Le parti offese rifiutavano detta offerta ritenendola, giustamente, non congrua. Per la Cassazione, a fronte delle fondate argomentazioni del Tribunale di sorveglianza, il ricorso consisteva in una rilettura parcellizzata della motivazione e dei fatti già esaminati in primo grado e non consentita nel giudizio di legittimità.

L’amministratore condominiale era stato condannato per il reato di appropriazione indebita aggravata alla pena di anni 2 e mesi 4 di reclusione e poiché la stessa è superiore al limite edittale di anni due di reclusione , previsto dall’articolo 163 Codice penale per ottenere la sospensione della pena , e in quanto l’istanza di affidamento è stata respinta, il procuratore deve emettere , nei suoi confronti, l’ordine di esecuzione per la carcerazione, ai sensi dell’articolo 656 Codice procedura penale.