L’uso della cosa comune non può mai tradursi in un’appropriazione del bene mediante uno spoglio in danno degli altri comproprietari (Cassazione civile, ordinanza n. 18929/2020)
L’uso della cosa comune non può mai tradursi in un’appropriazione del bene mediante uno spoglio in danno degli altri comproprietari.
L’incorporazione di parti condominiali nella proprietà individuale integra una turbativa del possesso, in danno del condominio e dei singoli condomini. A nulla rileva che le parti comuni siano a servizio di una porzione dello stabile di proprietà esclusiva.
Questo è quanto chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. II Civile, con l’ordinanza 19 febbraio – 11 settembre 2020, n. 18929 (testo in calce).
L’uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti ma soltanto se l’utilizzo, nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c., è compatibile con la destinazione del bene e non altera nè ostacola il godimento da parte degli altri comunisti.
Se la cosa comune è alterata o sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo non si tratta più di uso frazionato consentito ma di appropriazione di parte della cosa comune, per la quale occorre il consenso negoziale di tutti i partecipanti che – in caso di beni immobili – impone la forma scritta “ad substantiam”.
Questo, in sintesi, il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza in commento, pronunciata in tema di appropriazione del vano scale condominiale ad opera del proprietario dell’ultimo piano.