Installazione del condizionatore sul lastrico solare

È lecita l’installazione del condizionatore sul lastrico solare se dal regolamento emerge l’obbligo per il condomino di installarlo sul suo balcone?

Il fatto che il regolamento condominiale obblighi il singolo condomino a installare l’impianto di climatizzazione sul proprio balcone non ne impedisce l’installazione sulle parti comuni dell’edificio, come, ad esempio, il lastrico solare.

Ciò è quanto ha stabilito la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 4099/2023.

Tizia, proprietaria di alcune unità immobiliari site nel condominio Alfa, citava in giudizio, innanzi al Giudice di Pace, l’ente di gestione per sentir dichiarare l’annullamento della delibera assunta dall’assemblea con riferimento al punto n. 3 dell’ordine del giorno che le imponeva l’immediata rimozione dei motori per il condizionamento dei suoi locali che aveva installato sul lastrico solare, nonché il ripristino dello stato dei luoghi.

L’attrice asseriva di essere legittimata all’installazione in questione, rientrando ciò nelle facoltà concesse al condomino dall’art. 1102 c.c. Resisteva il Condominio che eccepiva l’incompetenza per materia del Giudice di Pace adito e, nel merito, ne chiedeva il rigetto. Il Giudice di Pace dichiarava la propria incompetenza; la causa veniva riassunta da Tizia innanzi al Tribunale, che rigettava la domanda e condannava l’attrice al pagamento delle spese processuali.

Tizia proponeva appello asserendo la legittimità dell’installazione dei motori di condizionamento sul lastrico solare, essendo ciò perfettamente in linea con il disposto dell’art. 1102 c.c., secondo cui “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”. I giudici del gravame davano ragione a Tizia accogliendo l’appello. La Corte territoriale precisava quanto segue:

• l’art. 5 del regolamento condominiale prevede che sulle proprietà private dei condòmini è consentita l’installazione di motori per la climatizzazione esclusivamente all’interno dei balconi di proprietà a distanza di almeno cm 150 dal parapetto;

• non è contestato fra le parti che i locali di proprietà dell’appellante, ubicati al quarto piano dello stabile, siano privi di balconi, dotati esclusivamente di finestre insistenti sulla facciata;

• ai sensi dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante può servirsi della cosa comune a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto;

• il posizionamento di un impianto di condizionamento sul lastrico solare, in particolare, non esclude il pari godimento della cosa da parte degli altri condòmini e non costituisce alterazione della destinazione del bene (Cass. 10968/2014);

• l’utilizzo di una singola porzione di un bene in comproprietà fra i condòmini (ad esempio di una piccola porzione sul lastrico per installare l’impianto di condizionamento), non può considerarsi “sottrazione” di spazi comuni. Pertanto, secondo la Corte capitolina, l’intervento in questione, tenuto anche conto della esiguità dell’area occupata, doveva considerarsi legittimo e non poteva essere impedito.

Condominio, nessun regolamento può vietare di tenere animali

Per il nuovo articolo 1138 del Codice civile protezione classificata tra i più generali diritti inviolabili, accertati dall’articolo 2 della Costituzione

Parliamo di animali domestici in condominio e della loro gestione. I regolamenti condominiali possono contenere norme di godimento e di utilizzo delle proprietà esclusive idonee a porre limitazioni ai diritti dei relativi proprietari. Va chiarito che il nuovo articolo 1138 del Cc dispone che il regolamento non può vietare il possesso o la semplice detenzione di animali domestici in casa o comunque all’interno del condominio. Il divieto può essere contenuto solamente in un regolamento contrattuale perché questo, essendo accettato da tutti, può contenere limitazioni ai diritti d’ognuno sulle parti di proprietà comune ed esclusiva.

È stata così sottratto in radice all’autonomia privata delle parti la possibilità di diversamente disciplinare la presenza di animali in condominio, ammettendone magari alcuni ed escludendone invece altri.

Il nuovo disposto dell’articolo 1138 del Codice civile è il frutto dell’evoluzione della considerazione del rapporto che deve esistere tra le persone e gli animali, addirittura assurto, questo, a espressione dei più generali diritti inviolabili di cui all’articolo 2 della Costituzione. Il termine animali «da compagnia», usato nella precedente versione dell’articolo 1138 Codice civile, è stato sostituito con quello di animali “domestici” dai confini più incerti, estendendo in tal modo la definizione a un più ampio genus di animale di affezione. Non è semplice per gli animali stare in condominio, ma tutto dipende dal rispetto che i loro padroni hanno delle più elementari regole che governano il vivere nella collettività condominiale.

Resta la facoltà all’assemblea disciplinare l’uso degli spazi o dei servizi comuni da parte dei proprietari di animali, nonché il comportamento che essi devono tenere all’interno del complesso condominiale: ciò sul generale presupposto che il diritto di ciascun condomino di usare e di godere a suo piacimento dei beni comuni trova limite nel pari diritto di uso e di godimento degli altri. Il lasciare libero un animale o custodirlo senza le debite cautele, oppure affidarlo a persona inesperta, costruisce un reato penalmente sanzionato (articolo 672 del Codice penale).

Quanto alla possibilità, ad esempio, di far uso dell’ascensore con gli animali, l’inibire a un condomino di usare l’ascensore con il proprio cane può trovare legittime motivazioni solo di ordine igienico sanitario, da valutarsi a seconda della concreta fattispecie che si può presentare. Ugualmente per la limitazione al numero degli animali che il condomino può detenere nella propria unità immobiliare, superato il quale appare anche legittimo l’intervento del giudice, con il conseguente allontanamento degli animali in esubero e il loro affido ad enti specializzati (Cassazione 1823/2023).

Fermo il rispetto delle elementari norme di igiene, la rilevanza anche ai fini penali della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l’incidenza sulla tranquillità pubblica in quanto l’interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete. I rumori provocati dall’abbaiare di un cane devono avere una tale diffusione da costituire l’evento un disturbo idoneo ad essere sentito da un numero indeterminato di persone: se invece ad infastidirsi è un solo condomino non c’è né reato e né illecito civile. Non vanno sottovalutati i rischi in cui incorre il custode dell’animale, qualora questo diventi fonte di immissioni di rumori o di odori tali da cagionare, per la loro frequenza e intensità, malessere e insofferenza anche a persone di normale sopportazione. Anche il lasciare solo in casa il cane per l’intera giornata può configurare il reato di abbandono di animale (articolo 672 Codice penale).

La videosorveglianza in condominio

Sommario:

  • La delibera assembleare;
  • Le telecamere;
  • Accesso alle informazioni;
  • La videosorveglianza in presenza del dipendente;
  • La fase della progettazione.

La delibera assembleare

Con la legge n. 220/2012 (riforma del condominio), è stato introdotto l’art. 1122 ter c.c., secondo cui “le deliberazioni concernenti l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 c.c.”, ossia la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.

Premesso che, secondo il GDPR artt. 5 e 6,  l’autorizzazione al trattamento dei dati o è concessa direttamente dalla legge ovvero vi è il consenso dell’interessato, la fonte normativa di cui all’art. 1122 ter c.c. stabilisce che per poter trattare i dati ( e per dati occorre intendere anche le immagini in quanto loro mezzo è possibile identificare inequivocabilmente una singola persona)) a mezzo l’installazione di un impianto di sorveglianza occorre una delibera assembleare assunta con la maggioranza di cui all’art. 1136 II comma c.c. Quest’ultima  (la delibera) funge quindi da fonte della legittimazione all’installazione concretizzando il consenso specificatamente richiesto.  In mancanza, il trattamento deve ritenersi illecito. (E’ quanto ha deciso il Garante con il provvedimento del 16 dicembre 2023 ritenendo illecita l’installazione di telecamere in un condominio in mancanza di autorizzazione assembleare e conseguentemente ha qualificato come titolare l’amministratore e come tale gli ha irrogato la sanzione di € 1.000,00).

I requisiti della delibera

L’analisi di quale sia la corretta procedura per l’installazione delle telecamere in un condominio non può non tenere contro oltre che del dato normativo del codice civile e del cd. GDPR (D.Lgs. n. 679/2016) anche dell’analisi dei casi fatta dalla giurisprudenza e delle elaborazioni e provvedimenti del Garante.

Ciò posto, la prima considerazione a farsi è quella relative alle esigenze ed ai diritti che in tale fattispecie debbono porsi in correlazione:

  • da un lato la tutela del patrimonio, dei beni e della proprietà condominiale, nonché la tutela dell’integrità fisica delle persone e,
  • dall’altro, al diritto della riservatezza, alla difesa della vita privata (vedi articolo 8 Convenzione europea diritti dell’uomo) ed alla protezione dei dati personali.

ll dibattito si è sempre sviluppato, pertanto lungo la direttiva delle condizioni di liceità dell’installazione di tali impianti, in relazione alle finalità di protezione della compagine condominiale, nel rispetto del diritto alla riservatezza.

A dirla con la Suprema Corte (Cass. Ord. n. 14969 del 11 maggio 2022) l’installazione di questi impianti “è ammissibile solo in relazione all’esigenza di preservare la sicurezza di persona e la tutela di beni da concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da illeciti già verificatisi.” …….”né deve avere una funzione meramente sostitutiva rispetto ad altre misure di norma utilizzate per preservare la sicurezza delle persone e dei beni con valutazione da eseguire in base agli elementi specifici di ciascuna situazione.

In virtù di detti presupposti la delibera in questione è da definirsi a contenuto vincolato. Nel senso che essa dovrà necessariamente prevedere:

  • L’autorizzazione all’installazione delle telecamere per il controllo dei soli spazi comuni;
  • Modalità e finalità del trattamento;

In pratica nella stessa delibera di autorizzazione occorrerà prendere posizione indicando preliminarmente le finalità del trattamento (che possono riassumersi nella tutela del patrimonio comune e anche della singola proprietà da atti vandalici e da furti oltre che della tutela dei condomini da atti lesivi della persona fisica e di rapina, ecc.), ma occorrerà anche dare atto concretamente di precedenti specifici che giustificano il ricorso alla detta installazione di telecamere.

  • Tempi di conservazione delle immagini;

Usualmente tra le 24 e le 48 ore salvo necessità specifiche da indicarsi e giammai in maniera superiore ai 7 giorni. Oltre i quali è necessaria l’autorizzazione del Garante.

  • Individuazione dei soggetti autorizzati alla loro visione.

La detta delibera dovrà altresì indicare il responsabile dei dati. Usualmente l’amministratore cui dovrà essere però conferito apposito incarico. In maniera da renderlo “responsabile”.

Anche nel caso di nomina di una ditta esterna specializzata nel trattamento dei dati come responsabile occorrerà che l’assemblea autorizzi espressamente l’amministratore a detta nomina del responsabile esterno ai sensi e conformemente a quanto disposto dall’art. 28 del GDPR dovrà essere indicato un soggetto che presenti garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del Regolamento e garantisca la tutela dei diritti degli interessati.

Le telecamere

Tutto ciò non sarà sufficiente, però, qualora il condominio (in viste di datore di lavoro) sia parte di un rapporto di lavoro subordinato con un dipendente (portiere, custode, giardiniere, etc.). In questi casi, infatti, occorrerà tener conto del particolare status di contraente debole, caratteristico del dipendente. A questo proposito, è opportuno, preliminarmente, precisare che, in presenza di un dipendente del condominio, prima di procedere alla deliberata installazione, prima di procedere alla deliberata installazione occorrerà presentare anche l’istanza per l’autorizzazione dell’installazione dell’impianto all’ispettorato del lavoro territorialmente competente, ai sensi dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (producendo una relazione ove saranno indicati i motivi di sicurezza che hanno indotto alla richiesta di installazione dell’impianto).

Tra l’altro, lo stesso Statuto dei lavoratori, prevede che “il mancato rispetto della norma in materia di videosorveglianza, è punito con ammenda da euro 154 a euro 1540, o l’arresto da 15 gg ad un anno”.

Sul punto, è intervenuta la Corte di Cassazione precisando, con sentenza n. 38882/2018, che non è sufficiente il consenso prestato dal lavoratore in condominio, essendo necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Sul punto si rinvia ad una più ampia disamina che di seguito si pubblica.

Ad ogni modo, una volta installato correttamente l’impianto di videosorveglianza, sarà necessario rispettare alcune regole fondamentali, anche alla luce della normativa Europea in materia di protezione dei dati.

La prima regola da seguire riguarda l’obbligo di segnalare la presenza dell’impianto. E’ necessario, infatti, segnalare la presenza di telecamere con appositi cartelli ed è necessario farlo subito prima dell’accesso all’area ripresa (quindi apporre il cartello sul cancello o portone di ingresso al fabbricato). Trattasi della cd. informativa di primo livello. Poi sul cartello si darà atto che la più estesa informativa (di secondo livello) contenente anche la specifica dei diritti dell’interessato può essere visionata presso lo studio dell’amministratore o richiesta direttamente in copia allo stesso.

Secondo le linee guida del Garante per la protezione dei dati personali, nonché del Comitato Europeo per la protezione dei dati in merito al trattamento dei dati personali effettuato tramite dispositivi video, questo adempimento equivale ad informare, ai sensi degli artt. 13 e 14 del GDPR ed in quanto tale il cartello esposto dovrà indicare una serie di elementi volti a fornire informazioni precise a chi accede all’edificio ed in particolare:

  • nominativo e dati di contatto del Responsabile del trattamento dei dati;
  • finalità del trattamento dei dati;
  • periodo di conservazione dei dati;
  • indicazione dei diritti degli interessati anche con rinvio ad un’informazione di secondo livello.

La seconda regola riguarda la corretta impostazione dell’impianto ed in particolare il suo angolo di campo. Infatti l’impianto dovrà inquadrare esclusivamente le aree comuni dell’edificio (accessi all’edificio, garage, giardini, pianerottoli, ecc.) e le aree pertinenti l’edificio stesso in cui è installato. In questo senso, laddove vi sia una ditta esterna che si è occupata dell’installazione, dovrà assicurare che sia rispettato questo adempimento per evitare la ripresa dei luoghi circostanti e di particolari che non sono rilevanti (strade pubbliche, edifici circostanti, esercizi commerciali, ecc.) in modo da evitare che il titolare del trattamento possa incorrere in sanzioni.

Discorso non diverso vale anche per la videosorveglianza privata, che (anche in assenza di specifico cartello-informativa) deve comunque avere un angolo visuale diretto a non oltrepassare la linea di confine con l’abitazione altrui (configurandosi altrimenti il reato di intrusione illecita nella vita privata altrui, sanzionabile ai sensi dell’art. 615 c.p.).

Sul punto, la Corte di Cassazione già nel 2006 precisò che l’impianto di videosorveglianza installato ad uso esclusivo del singolo condomino all’ interno della sua proprietà, ma con angolo visuale diretto alle aree condominiali antistanti all’ingresso della proprietà privata, non integrerà il reato di cui all’art. 615 c.p. essendo tali aree destinate all’utilizzo da parte di un numero indifferenziato di persone, dovendosi in ogni caso rispettare i limiti previsti in materia di impianti di videosorveglianza condominiali.

La terza regola riguarda, invece, i tempi di conservazione delle immagini: in questo caso, in assenza di riferimenti normativi, il Garante per la protezione dei dati personali ha precisato che le immagini non potranno essere conversate più a lungo di quanto necessario per le finalità per le quali sono acquisite (in funzione del principio di minimizzazione dei dati) ed ha indicato un termine limite di 24/48 ore. Chiaramente questo riferimento temporale vale per quegli impianti che effettuano registrazioni e che nella maggior parte dei casi presentano al loro interno una scatola nera per la cancellazione automatica delle stesse al termine indicato; diversamente, nel caso di impianti che effettuano solo monitoraggio in tempo reale, non sarà necessaria alcuna indicazione del relativo periodo temporale.

Qualora, nel caso di conclamate esigenze di sicurezza, il titolare del trattamento volesse prolungare i tempi di conservazione delle immagini, in alcun caso potrà farlo arbitrariamente, essendo in tal senso necessario inoltrare un’istanza al garante per la protezione dei dati agli indirizzi: mail: protocollo@garanteprotezionedeidatipersonali.it pec: protocollo@pec.garanteprotezionedeidatipersonali.it., indicando oltre ai motivi specifici e i rischi reali che giustifichino richiesta, anche una documentazione che possa descrivere il luogo in esame, allegando se necessario una piantina planimetrica e i relativi supporti fotografici. Ricevuta la richiesta, il Garante procederà ad una verifica preliminare ed entro un termine di 180 giorni, a seconda delle valutazioni effettuate, concederà o negherà il prolungamento dei tempi di conservazione delle immagini.

Accesso alle informazioni

Infine, una domanda: qualora il singolo condomino voglia accedere alle registrazioni, cosa dovrà fare?

E’ sicuramente diritto del condomino chiedere di visionare le registrazioni, ma in tal senso sarà necessario rispettare alcune condizioni.

  • sussistenza di una circostanza grave (furto, rapina, danneggiamento, etc.) che riguardi la proprietà privata o le parti comuni dell’edificio;
  • presentazione di specifica denuncia alle autorità competenti;
  • formulazione di richiesta scritta rivolta all’amministrazione (a mezzo raccomandata a/r o pec), allegando copia della relativa denuncia.

Nella richiesta, oltre alle generalità dell’interessato e ad una breve descrizione dell’accaduto, sarà necessario indicare almeno orientativamente il giorno e la fascia oraria in cui è avvenuto il fatto. Ciò in quanto, oltre ad agevolare le indagini per le autorità competenti, tale indicazione consentirà di rispettare in pieno il principio di minimizzazione dei dati, per cui si accederà soltanto al frame relativo al giorno e ora indicati, con oscuramento delle restanti immagini.

La videosorveglianza in presenza del dipendente

Art. 4 dello Statuto dei lavoratori Legge n. 300 del 1970 – Titolo I – Della libertà e dignità del lavoratore

  1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.
  2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
  3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Obblighi normativi e esclusioni

L’obbligo normativo sorge nel momento in cui il datore di lavoro intende installare un impianto audiovisivo o delle telecamere ed abbia dei dipendenti. Il comma secondo del novellato articolo quattro della legge numero 300 del 1970 esclude, invece, l’applicabilità del comma uno: quindi della necessità di autorizzazione ministeriale o accordo sindacale agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

Vi è poi la circolare numero 2 del 7 novembre 2016 dell’Istituto nazionale del lavoro la quale ha precisato che possono considerarsi strumenti di lavoro gli apparecchi, i dispositivi e gli apparati di congegni che costituiscono un mezzo indispensabile al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa in contratto e che per tale finalità siano stati posti in uso o messi a sua disposizione.

Analogamente, il Garante della privacy con verifica preliminare del 16 Marzo 2017 documento web 8163433, in linea con l’ispettorato, ha confermato che gli strumenti di lavoro sono tutti quei dispositivi utilizzati in via primaria ed essenziale per l’esecuzione dell’attività lavorativa ovvero direttamente preordinate all’esecuzione della prestazione lavorativa.

Per ciò che riguarda il concetto di personale dipendente si deve ritenere che la norma fa riferimento ad attività lavorativa subordinata e che pertanto non troverà applicazione in tutti gli altri casi.

La procedura

L’istanza per il rilascio dell’autorizzazione può essere presentata compilando il modulo predisposto dall’ispettorato del lavoro che è reperibile sul suo sito Internet alla voce “modulistica”.

Va presentata in marca da bollo da euro 16 con allegato un’ulteriore marca da bollo da euro 16 per il provvedimento di autorizzazione. Il modello debitamente compilato e firmato può essere inoltrato all’ufficio anche tramite pec. In questo caso il bollo sarà assolto per via telematica. A tal fine nel sito istituzionale è predisposto il modulo della dichiarazione sostitutiva della marca da bollo. Il datore di lavoro provvede ad inserire nella domanda i numeri identificativi delle marche da bollo utilizzate nonché ad annullare le stesse conservando gli originali.

L’istanza deve necessariamente contenere:

  • i dati identificativi della ditta e del rappresentante legale con l’indicazione di quanti dipendenti vi sono nonchè la descrizione puntuale dell’attività aziendale;
  • specifica indicazione delle esigenze che motivano la richiesta con la descrizione delle finalità che si intendono perseguire;
  • ampiezza aziendale e indicazione della presenza o meno delle rappresentanze sindacali aziendali o delle rappresentanze sindacali unitarie nell’unità locale.

La dichiarazione è sottoscritta dal legale rappresentante che si impegna:

  1. ad installare l’impianto in modo da non ledere la privacy del dipendente e dunque a non posizionare le telecamere in luoghi riservati bagni o spogliatoi né riprendere il posto di lavoro (in condominio si pensi alla guardiola del portiere);
  2. a che le immagini siano custodite in modo da assicurarne la riservatezza al fine di escludere l’acquisizione delle stesse da parte di soggetti non autorizzati o che vengano diffuse all’esterno;
  3. è inoltre essenziale che venga data adeguata informazione ai dipendenti e venga data adeguata pubblicità nei locali aziendali anche ai soggetti terzi di trovarsi in area sottoposta a videosorveglianza.

All’istanza così compilata va allegata:

  • una relazione illustrativa delle esigenze di carattere organizzativo, produttivo, di sicurezza o di tutela del patrimonio poste a fondamento dell’istanza;
  • Una relazione tecnica relativa alla specificazione delle modalità di funzionamento dell’impianto allegando schede tecniche dell’impianto monitor telecamere e del DVR,  non è più richiesta invece la planimetria dell’azienda con l’esatto collocamento delle telecamere nè è più necessario indicarne il numero.

Qualora la distanza presentata non sia completa l’ufficio procede a richiedere formalmente la documentazione al datore di lavoro dando un termine per l’integrazione. Decorso inutilmente il termine, la richiesta sarà rigettata. L’ufficio segue una consolidata prassi operativa che può prevedere anche un sopralluogo per verificare lo stato dei luoghi al fine di valutare la sussistenza delle ragioni tecniche produttive che possano giustificare l’installazione dell’impianto e verificare che le telecamere non riprendano postazioni fisse di lavoro.

Le sanzioni e il ravvedimento

Nel caso di violazione dell’articolo quattro dello statuto dei lavoratori l’ufficio ordina la cessazione della condotta criminosa ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo numero 758 del 1994 e contemporaneamente dà notizia di reato alla Procura della Repubblica a carico del legale rappresentante dell’azienda.

All’interno del verbale di prescrizione il funzionario deve indicare un termine congruo entro il quale l’impianto va disinstallato. Il datore di lavoro è ammesso al pagamento di una sanzione minima qualora entro il termine concesso per la disinstallazione ottenga la prevista autorizzazione dall’ufficio competente o raggiunga l’accordo sindacale. In tale ipotesi vengono meno i presupposti dell’illecito per cui l’ispettore lo ammette al pagamento in sede amministrativa di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa (euro 387,00)  entro 30 giorni ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo n. 758 del 1994.  Il pagamento della sanzione amministrativa comporta l’estinzione del reato e di conseguenza la comunicazione alla Procura della Repubblica che il soggetto ha ottemperato alla prescrizione con conseguente richiesta di archiviazione del procedimento penale.

La fase della progettazione

Con l’espressione inglese Data Protection by default and by design si fa riferimento alla necessità di configurare il trattamento prevedendo fin dall’inizio le garanzie indispensabili al fine di soddisfare i requisiti del regolamento e tutelare i diritti degli interessati tenendo conto del contesto complessivo in cui il trattamento si colloca e dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati.

Tutto questo deve avvenire prima di procedere al trattamento dei dati veri e propri secondo quanto afferma l’articolo 25 del Regolamento.  Si richiede pertanto un’analisi preventiva e un impegno applicativo da parte dei titolari che devono sostanziarsi in una serie di attività specifiche e dimostrabili. In altri termini secondo l’articolo il Titolare del trattamento deve mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate sia al momento della progettazione sia nella fase di trattamento vera e propria della rilevazione o registrazione delle immagini. Ciò affinché il trattamento dei dati sia conforme ai principi basi della disciplina in tema di protezione dei dati. Ciò significa che caso per caso il titolare anche con l’aiuto di un esperto dovrà valutare la necessità o meno di predisporre la cd. Valutazione d’impatto DPIA.

Infatti, l’articolo 5 paragrafo uno lettera F del regolamento impone il principio di integrità e riservatezza ai sensi del quale i dati personali sono trattati in maniera da garantire loro un’adeguata sicurezza a mezzo la protezione mediante misure tecniche organizzative adeguate onde evitare:

  1. trattamenti non autorizzati o illeciti;
  2. la perdita o la distruzione;
  3. il danno accidentale.

Nel valutare l’adeguato livello di sicurezza si tiene conto in special modo dei rischi presentati dal trattamento che derivano in particolare dalla distruzione, dalla perdita, dalla modifica, dalla divulgazione non autorizzata, dall’accesso in modo accidentale o illegale a dati personali trasmessi conservati o comunque trattati.

Rispetto al citato quadro giuridico è necessario porre in essere accorgimenti necessari a consentire la continuità su base permanente e il ripristino della disponibilità dei dati personali eventualmente sottratti.

Le tecniche in grado di assicurare l’ identificabilità degli interessati ai quali i dati personali trattati si riferiscono per limitare il rischio della loro consultazione da parte di soggetti non autorizzati come la pseudonomizzazione o la cifratura dei dati,  procedure idonee ad attestare,  verificare e valutare regolarmente l’efficacia delle misure tecniche organizzative al fine di garantire la sicurezza del trattamento.

SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO

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Regolamento Condominiale
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La salubrità delle acque condominiali (D. Lgs. 18/2023)

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La parola ai PARTNER

Vizi costruttivi: responsabilità e ruolo dell’Amministratore di condominio

Per gravi difetti costruttivi degli immobili l’appaltatore deve rispondere e l’amministratore di condominio può agire senza delega dell’assemblea. Vediamo esempi e giurisprudenza

L’art. 1669 c.c. regola una fattispecie di responsabilità aggravata dell’appaltatore, stabilendo, in relazione agli immobili o comunque alle cose destinate per la loro natura a lunga durata, che, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta.

Vediamo cosa prevede la normativa e la giurisprudenza sul ruolo dell’amministratore di condominio nella denuncia dei vizi costruttivi .

1) Il concetto di grave vizio costruttivo

È importante precisare che vengono incluse nel concetto di grave difetto:

  • sia le deficienze costruttive vere e proprie, quelle cioè che si risolvono nella realizzazione dell’opera con materiali inidonei e non a regola d’arte,
  •  sia le carenze riconducibili ad erronee previsioni progettuali.

Di conseguenza rientrano nell’ambito di applicazione della predetta norma, ad esempio:

  • il distacco progressivo degli elementi della facciata esterna dello stabile e conseguente pericolo di crollo,
  •  la difettosa impermeabilizzazione del manto di copertura che provoca infiltrazioni di acqua e di umidità negli appartamenti sottostanti, anche con riferimento al ristagno d’acqua, la caduta dell’intonaco per infiltrazioni di umidità,
  • la comparsa di lunghe fessurazioni del pavimento, conseguenti alla rottura di molte piastrelle, per evidente cedimento del sottofondo

Secondo la giurisprudenza l’articolo 1669 c.c. è applicabile anche quando le carenze costruttive dell’opera non investano parti strutturali, ma incidano su elementi secondari ed accessori, purché tali da compromettere la sua funzionalità e l’abitabilità ed eliminabili solo con lavori di manutenzione, ancorché ordinaria, e cioè mediante opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture.

Di conseguenza il difetto di costruzione che, ai sensi dell’art. 1669 c.c., legittima il committente – condominio alla relativa azione, può consistere in una qualsiasi alterazione, conseguente ad un’insoddisfacente realizzazione dell’opera, che, pur non riguardando parti essenziali della stessa, ma elementi accessori o secondari che ne consentono l’impiego duraturo cui è destinata (quale, ad esempio, l’intonaco), incida negativamente ed in modo considerevole sul godimento dell’immobile medesimo.

2) Articolo 1669 c.c. e manutenzione straordinaria del caseggiato

Il termine “costruzione“ menzionato dall’articolo 1669 c.c. non si riferisce esclusivamente ad un nuovo fabbricato, intendendo esso come presupposto e limite della responsabilità aggravata dell’appaltatore.

Il termine “costruzione” si riferisce, infatti, all’attività costruttiva, che non implica l’edificazione per la prima volta e dalle fondamenta, ma riguarda “l’assemblaggio tra loro di parti convenientemente disposte”.

Sulla scorta di quanto detto, le Sezioni Unite hanno pertanto affermato che l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo (Cass. civ., Sez. Un., 27/03/2017, n. 7756).

3) La legittimazione ad agire dell’amministratore

All’azione di responsabilità per gravi difetti nei confronti del costruttore o appaltatore è abilitato, oltre ai condomini, l’amministratore del condominio, a norma degli artt.1130, n.4, e 1131, comma 1, c.c., non è  pertanto, necessaria una delibera autorizzativa della collettività condominiale.

Così non vi è dubbio che l’amministratore possa contestare i vizi relativi alle parti comuni dell’edificio condominiale (facciata, difettoso isolamento termico); tuttavia può contestare anche i vizi relativi a frontalini e intradossi dei balconi in quanto tali elementi si devono considerare beni comuni quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e svolgono una funzione estetica inerente al decoro dell’edificio.

Del resto la Suprema Corte ha progressivamente ampliato l’interpretazione dell’art. 1130 c.c., n. 4, fino ad affermare la legittimazione dell’amministratore del condominio a promuovere l’azione di cui all’art. 1669 cod. civ., a tutela indifferenziata dell’edificio nella sua unitarietà, in un contesto nel quale i pregiudizi derivino da vizi afferenti le parti comuni dell’immobile, ancorché interessanti di riflesso anche quelle costituenti proprietà esclusive di condomini, come ad esempio i balconi (Cass. civ., sez. II, 12/01/2015, n. 217).

La legittimazione dell’amministratore di condominio a proporre l’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche senza preventiva autorizzazione dell’assemblea condominiale si estende pure alla proponibilità del procedimento di accertamento tecnico preventivo finalizzato ad acquisire tempestivamente elementi di fatto sullo stato dei luoghi o sulla condizione e qualità di cose, da utilizzare successivamente nel giudizio di merito introdotto con la domanda ex art. 1669 citato, posto che tale accertamento è strumentale all’esercizio stesso dell’azione di responsabilità anzidetta.

Il condominio è tenuto a risarcire chi cade nel cortile a causa di una pavimentazione viscida e scivolosa

Errato parlare di imprudenza della parte lesa perché l’attore, seppur al corrente del rischio di cadere, non poteva scongiurarlo in alcun modo

Il figlio di un condomino, nel percorrere nel tardo pomeriggio con estrema cautela il cortile condominiale per fare rientro a casa, scivolava e a seguito della caduta riportava gravi lesioni personali. Per tale motivo citava in giudizio il condominio chiedendo che venisse accertata la responsabilità dello stesso in ordine all’infortunio patito con contestuale richiesta di risarcimento danni.

Un pericolo segnalato più volte

Il condominio in questione è composto da più scale, alle quali si accede esclusivamente da un cortile condominiale all’aperto pavimentato con un mattonato che, in occasione delle precipitazioni atmosferiche, diventava estremamente viscido e scivoloso costituendo, quindi, un serio pericolo. La problematica era stata segnalata più volte all’amministratore, sia per le vie brevi che in occasione delle assemblee, ma senza avere un seguito. Solo successivamente all’incidente, l’assemblea condominiale ha deliberato i lavori di manutenzione da eseguire nel cortile condominiale riguardanti la rimozione della vecchia pavimentazione. Il fatto che la scivolosità dipendesse dalla pioggia non giova al condominio, perché il problema di questo tipo di scivolosità era già noto, come chiaramente dimostrato dai verbali di assemblea. Né può giovare il fatto che, come eccepito dal condominio, la pavimentazione non idonea fosse stata scelta dai condòmini, tra cui il padre dell’infortunato.

Non si tratta di imprudenza del condomino

Resta da valutare, anche a fronte della specifica eccezione difensiva dello stabile, l’eventuale rilevanza – a sfavore del lesionato e in favore dell’ente di gestione – della conoscenza dei luoghi da parte dell’infortunato, essendo egli residente, almeno all’epoca, nel complesso immobiliare ove è caduto. L’attore, dunque, nonostante il pericolo di cadere fosse per lui prevedibile, in quanto residente nel condominio, non aveva concreta possibilità di evitare e scongiurare il rischio della caduta. Si aveva, quindi, una situazione di prevedibilità ma altresì di effettiva imprevedibilità/inevitabilità dell’evento, che esclude la ravvisabilità di un difetto di cautela e, dunque, di incidenza causale giuridicamente rilevante in capo all’attore, che si è limitato ad utilizzare il tratto di cortile condominiale secondo la sua destinazione d’uso di area per il transito pedonale.

Il condominio, durante il procedimento, chiedeva che venisse ascoltato il lesionato per capire se il tratto di pavimentazione in cui sarebbe avvenuto il sinistro fosse munito di muro laterale idoneo a proteggere l’utente e a consentirgli, se necessario, di appoggiarsi per sostenersi. La risposta dell’attore non ha confermato l’assunto, avendo egli precisato, sostanzialmente, che il muro è privo di corrimano e che il tratto di pavimentazione in cui è avvenuta la caduta è immediatamente oltre un angolo formato dal muro in questione (quindi, fuori dal possibile utilizzo del muro come appoggio). Il condominio, del resto, nella sua comparsa di costituzione ha attribuito al danneggiato una condotta imprudente e distratta, ma senza specificarla e senza offrirne alcuna prova, compromettendo la propria difesa. Pertanto, il Tribunale di Roma con sentenza 16591/2022 ha ritenuto responsabile il condominio condannandolo a pagare le lesioni subite dalla parte lesa.

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La deroga ai criteri legali di ripartizione delle spese condominiali
DOTT. ONOFRIO CASTIGLIONE
Le detrazioni fiscali nel condominio dopo l’era dei SUPERBONUS
COFFEE BREAK
AVV. RODOLFO CUSANO
Videosorveglianza nel condominio (nuova normativa privacy)
La parola ai PARTNER
Modera: Avv. Nicola Salzano (Presidente ARAI)
Prenotazione obbligatoria 091 344 385 – segreteria@arai.it
Condominio: Chi paga i danni causati da un auto incendiata?

Nell’eventualità di danni a un condominio per un’auto incendiata, chi paga le spese di risarcimento?

Dipende da alcuni fattori, vediamo quali

Che fare in caso di danni al condominio causati da un’auto incendiata? Chi è tenuto a pagare le spese? Una situazione di non facile lettura perché entrano in ballo la copertura RC auto, le responsabilità del proprietario della vettura e la nozione di circolazione all’interno di aree pubbliche o private, per cui è meglio fare un po’ di chiarezza.

INCENDIO AUTO DI NATURA DOLOSA O SPONTANEA

Partendo innanzitutto dall’analizzare le cause dell’incendio dell’auto. Se le fiamme sono di natura dolosa, le responsabilità ricadono sull’autore del gesto e tocca a lui risarcire i danni, ammesso che venga individuato. In caso contrario il condominio è tutelato dall’assicurazione contro gli incendi, sperando che ne abbia una (come dovrebbe essere da prassi). Se invece le fiamme si sono propagate spontaneamente per un corto circuito o motivi simili, entra in ballo il proprietario dell’auto come del resto dispone l’art. 2054 c.c., secondo cui “il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”.

INCENDIO AUTO E DANNI AL CONDOMINIO: SOSTA SU LUOGO PUBBLICO O PRIVATO

Tuttavia occorre fare subito una distinzione tra auto in sosta in un’area pubblica, come potrebbe essere un marciapiede attiguo al condominio, e auto in sosta in un’area privata, ad esempio il cortile condominiale. Nel primo caso, poiché sono considerati in circolazione anche i veicoli in sosta su strade di uso pubblico o su aree a queste equiparate, i danni sono coperti dalla RCA del proprietario dell’auto (salvo, come abbiamo visto, che l’incendio sia scaturito per fatto doloso di un terzo o per caso fortuito, che non sono eventi derivanti dalla circolazione stradale). Di conseguenza nell’altro caso, ossia quando quando l’incendio spontaneo si verifica all’interno di un cortile condominiale privato danneggiando la facciata dell’edificio, si dovrebbe escludere l’operatività della copertura RC auto, mancando il presupposto della circolazione in area pubblica, riconducendo quindi la responsabilità interamente a carico del proprietario dell’auto.

LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA SUL CONCETTO DI CIRCOLAZIONE STRADALE

Abbiamo opportunamente usato il condizionale perché di recente il concetto di circolazione e la sua estensibilità alle aree private è stato messo in discussione da un paio di decisioni riguardanti la normativa comunitaria in materia di RC auto. In particolare in una delle due, e all’epoca ne abbiamo parlato anche noi di SicurAUTO.it, l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia UE, riferendosi a una causa avente come oggetto l’incendio di una vettura in sosta all’interno di un garage privato che aveva cagionato danni all’abitazione di cui l’autorimessa faceva parte, ha precisato che in base alla disciplina europea il concetto di circolazione comprende qualsiasi uso del veicolo in linea con la funzione abituale dello stesso, a prescindere dal luogo in cui si trova. E quindi devono considerarsi coperte dall’assicurazione obbligatoria RC auto anche quelle situazioni in cui un veicolo staziona in un’area privata adibita a parcheggio.

AUTO INCENDIATA: CHI PAGA I DANNI AL CONDOMINIO?

Alla luce di ciò, nell’ipotesi di danni al condominio causati da un’auto incendiata, chi paga è l’assicurazione RCA del veicolo. E che sia parcheggiata su suolo pubblico o privato non fa differenza. Con esclusione, ovviamente, degli incendi avvenuti per fatto doloso di un terzo o per caso fortuito.

Il marciapiede esterno del condominio: aspetti critici

Una decisione della Corte d’Appello di Milano

Secondo una pronuncia della Corte d’Appello di Milano – che ha confermato la sentenza di primo grado – un condominio è tenuto al risarcimento dei danni patiti da un passante caduto su una lastra di ghiaccio presente sul marciapiede antistante l’ingresso condominiale. I giudici milanesi, però, non hanno affermato che i condomini sono custodi del marciapiede ma si sono limitati a considerare che, secondo il regolamento di Polizia Urbana i condomini erano tenuti a provvedere alla pulizia dei marciapiedi. Del resto – come sottolineano i giudici milanesi – nel mansionario della Portineria del condominio si precisava che giornalmente il portiere avrebbe dovuto provvedere alla pulizia del marciapiede, mentre durante le nevicate avrebbe dovuto sgomberare la neve dallo stesso, spargendo il sale, come da regolamento comunale (App. Milano 10 gennaio 2020 n. 73). In altre parole, la Corte d’Appello sembra basarsi sulle disposizioni del regolamento comunale che (discutibilmente) hanno imposto obblighi ai condomini su uno spazio pubblico.

Una tesi contraria

Secondo il Tribunale di Torino, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 14 C.d.S., della pulizia del marciapiede, quale pertinenza della strada, deve occuparsi l’ente pubblico proprietario di quest’ultima. Conseguentemente, dei danni derivati da una caduta provocata dalla presenza di ghiaccio sul marciapiede antistante un edificio condominiale, non può esserne chiamato a risponderne ex art. 2051 c.c. il condominio frontista, in assenza di prova a carico dello stesso circa la qualità di custode o la sussistenza di obblighi di natura manutentiva o di gestione svincolati dalla titolarità del bene (Trib. Torino 5 dicembre 2012). Nel caso di specie, un passante era scivolato a causa della neve accumulatasi sul marciapiede. Successivamente si rivolgeva al Tribunale per richiedere al caseggiato antistante un risarcimento; secondo l’attore il marciapiede era di proprietà dei condomini e, quindi, gli stessi erano obbligati a spargere del sale sul camminamento davanti al palazzo.

Il condominio, però, contestava la propria legittimazione a stare in giudizio, rilevando come il marciapiede, in quanto parte della strada, appartenesse al demanio comunale. Di conseguenza, per i condomini, a prescindere da eventuali ordinanze comunali di senso contrario, era lo stesso Comune a doversi occupare della manutenzione della carreggiata, compreso lo spargimento di sale in periodo invernale. Queste considerazioni sono state pienamente condivise dal giudice torinese. In ogni caso – più recentemente – si è ribadito che gli obblighi di manutenzione dell’ente pubblico proprietario di una strada aperta al pubblico transito, al fine di evitare l’esistenza di pericoli occulti, si estendono ai marciapiedi laterali, i quali fanno parte della struttura della strada, essendo destinati al transito dei pedoni; di conseguenza si è precisato che del danno cagionato da buche sussistenti sul marciapiede non risponde il condominio dell’antistante stabile, il quale non è pertanto passivamente legittimato nel giudizio promosso ai fini del relativo risarcimento (Trib. Catania 3 marzo 2020, n.850).

Una recentissima sentenza della Cassazione

Merita di essere ricordato che secondo una recente sentenza della Cassazione penale, in linea generale, i condomini non hanno, in mancanza di una convenzione con il Comune, l’obbligo di manutenzione del suolo pubblico. Due condomini, però, sono stati condannati per il reato di lesioni colpose commesse ai danni di una passante che, transitando sul marciapiede pubblico, era caduta inciampando su un rialzo realizzato dagli stessi. Il problema era che i condomini avevano eseguito dei lavori di manutenzione dei loro box, siti al piano sottostante; in particolare avevano aggiunto, al piano stradale, cemento dello stesso colore della pavimentazione che determinava un pericoloso dislivello di 3 cm. Secondo i giudici supremi era quindi irrilevante che l’assemblea del condominio (che non era tenuto alla manutenzione del suolo pubblico) avesse deliberato di realizzare i lavori di ristrutturazione del marciapiede e l’amministratore avesse ottenuto l’autorizzazione ad eseguire opere di ripristino del suolo pubblico, opere, però, mai eseguite (Cass. civ., sez. II, 12/08/2021, n. 32905).

Sopraelevazioni in condominio

I vani ricavati sul terrazzo vanno abbattuti se violano condizioni statiche e aspetto architettonico

La realizzazione di una tettoia sul terrazzo, poi trasformata in soggiorno e cucina, è illegittima se non rispetta i limiti dell’art. 1127 c.c. (Tribunale Velletri n. 512/2024)

I vani ricavati sul terrazzo condominiale, se violano le norme statiche e architettoniche, vanno abbattuti. Necessaria la prova che il progetto rispetti la normativa antisismica: questo è quanto stabilito dalla sentenza 4 marzo 2024, n. 512 del Tribunale di Velletri.

Il caso

Un condomino, residente all’ultimo piano di un edificio, aveva inizialmente costruito una tettoia “ad elle” sul proprio terrazzo, trasformandola successivamente in due distinti vani: un soggiorno con annessa cucina e un ripostiglio.

Tali modifiche avevano portato, secondo la valutazione effettuata dal consulente tecnico d’ufficio incaricato di valutare la situazione, ad un incremento del peso sostenuto dal fabbricato, quantificato in circa 100 chili per metro quadrato.

Alla luce di tale intervento, veniva chiesta la demolizione e/o rimozione delle opere realizzate con il contestuale ripristino dei luoghi in quanto in contrasto con il regolamento condominiale e l’art. 1127 del Codice civile.

L’art. 1127 del Codice civile e i limiti sottesi

L’art 1127 del Codice civile dispone che il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano non è assoluto ma incontra alcune limitazioni. Il primo limite è che la facoltà di sopraelevazione può essere esclusa per effetto di un titolo contrario.

Il secondo limite è subordinato alla circostanza dell’idoneità statica del fabbricato a sopportare la nuova costruzione.

Infine, l’ultimo limite prescritto si concretizza nel pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio e della notevole diminuzione dell’aria e/o della luce derivanti dalla sopraelevazione.

Il caso di specie, analizzato dal Tribunale di Velletri con sentenza n. 512, del 04-03-2024, si sofferma espressamente su due limiti:

  • la condizione statica dell’edificio in cui viene realizzata la sopraelevazione;
  • turbamento delle linee architettoniche.

Le condizioni statiche dell’edificio

Le condizioni statiche dell’edificio rappresentano un ostacolo al sorgere ed all’esistenza stessa del diritto di soprelevazione.

Il limite delle condizioni statiche si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione.

L’accertamento di tale pericolo costituisce poi oggetto di un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Corte di Cassazione sentenza del  30 novembre 2012, n. 21491)

La stessa Cassazione precisa che la norma non fa riferimento ad un accertamento delle condizioni statiche, né ad opere di consolidamento, vietando pertanto la sopraelevazione quando la statica risulti inadeguata a sostenerla (Corte di Cassazione sentenza del 29.1.2020, n. 2000).

In un’ottica ancor più restrittiva rientra la sopraelevazione realizzata in violazione delle specifiche disposizioni dettate dalle leggi antisismiche: tale divieto va interpretato nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia inidonea a fronteggiare il rischio sismico (Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 12.2.1987, n. 1541Corte di Cassazione sentenza del 15.11.2016, n. 23256).

In tali casi i condomini possono opporsi alle nuove opere, incompatibili con le condizioni statiche dell’edificio, a prescindere da ogni rafforzamento o consolidamento che il sopraelevante fosse disposto ad eseguire, così rafforzando la natura di limite assoluto alla stessa esistenza del diritto riconosciuto al proprietario dell’ultimo piano (Corte di Appello Napoli, 9.3.2006).

Nel caso di specie, il Tribunale di Velletri, dando per scontato che l’intervento debba essere qualificato come sopraelevazione, evidenzia come la realizzazione dei due vani abbia incrementato il peso sul fabbricato per circa 100 chili al metro quadrato (secondo quanto riportato dalla perizia).

Il Tribunale, nel valutare la condotta della parte convenuta, sottolinea l’importanza della dimostrazione della sicurezza antisismica dell’opera eseguita e dell’edificio nel suo complesso. Tale dimostrazione avviene tipicamente attraverso la presentazione di una progettazione antisismica specifica che includa un’analisi dettagliata della struttura complessiva e delle fondamenta del fabbricato.

In questo caso, però, tale prova non è stata fornita dalla parte convenuta (come evidenziato anche dalle osservazioni del Consulente Tecnico d’Ufficio).

Il Tribunale, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, pone l’accento sulla necessità di una rigorosa aderenza alle normative di sicurezza, specialmente in contesti condominiali.

L’intervento di sopraelevazione, nel caso di specie, è stato realizzato senza una corretta progettazione antisismica e senza le dovute verifiche tecniche pregiudica la sicurezza strutturale dell’edificio, violando la normativa antisismica.

L’aspetto architettonico del fabbricato

La questione dell’impatto estetico e architettonico è il secondo limite richiamato dall’art. 1127 cod. civ. ed è stato oggetto di specifica attenzione da parte della giurisprudenza.

La sentenza del Tribunale di Velletri offre un’importante interpretazione in merito alla distinzione e al contempo alla relazione esistente tra la nozione di “aspetto architettonico” e quella di “decoro architettonico“, così come delineate all’articolo 1120 del Codice Civile italiano.

Il Tribunale chiarifica che, benché le due nozioni siano distinte, esse non possono essere considerate in modo completamente separato l’una dall’altra quando si tratta di interventi edificatori, in particolare le sopraelevazioni.

In realtà già la Corte di Cassazione con sentenza del 24 aprile 2013, n. 10048, aveva delineato la distinzione tra le nozioni di “decoro” e “aspetto architettonico“, sottolineando come il limite estetico sia rappresentato non dal mancato abbellimento, ma piuttosto dall’alterazione o dal pregiudizio arrecato al decoro e all’aspetto architettonico dell’edificio, precisando che l’analisi dell’impatto architettonico di una sopraelevazione debba concentrarsi sulle caratteristiche estetiche visivamente percepibili dell’edificio, considerato nella sua autonomia stilistica (Corte di Cassazione sentenza del 23 luglio 2020, n. 15675).