Convocazione di entrambi i coniugi se in comunione dei beni

Il regime della comunione crea crea qualche difficoltà in condominio. Per l’articolo 159 del Codice civile, il regime patrimoniale della famiglia è costituito, in assenza di diversa convenzione, dalla comunione dei beni, che comprende gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio a esclusione di quelli relativi ai beni personali. Quindi, se l’immobile venga acquistato, durante il matrimonio, da coniugi in regime di comunione legale, lo stesso sarà di proprietà comune, e, pertanto, entrambi devono essere convocati alle assemblee condominiali, in forza del sesto comma dell’articolo 1136 del Codice civile, come modificato dalla Legge 220/2012, secondo cui «l’assemblea non può deliberare se non che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati».

Tale principio potrebbe essere un po’ mitigato, però, osservando che, sebbene l’articolo 67 delle disposizioni di attuazione al Codice civile non autorizzi a ritenere sufficiente la convocazione di uno solo dei comproprietari, tuttavia (in considerazione del fatto che, ai sensi dell’articolo 1136, 6° comma, l’invito a partecipare all’assemblea non richiede un atto scritto ma può essere effettuato con qualsiasi forma o modalità idonea a portarlo a conoscenza del destinatario), la prova della valida convocazione di uno dei proprietari “pro indiviso” si potrebbe ricavare anche dall’avviso dato ad uno degli altri comproprietari, qualora ricorrano circostanze presuntive tali da far ritenere che quest’ultimo abbia informato l’altro (o gli altri) della convocazione stessa, come, appunto, in caso di coniugi comproprietari di un appartamento, conviventi in pieno accordo e senza contrasto di interessi tra loro.

Tuttavia, poiché, a seguito della modifica disposta con la legge 220/2012, il 3° comma dell’articolo 66 delle Disposizioni di attuazione al Codice civile specifica le forme in cui deve avvenire la convocazione e cioè raccomandata, posta elettronica certificata, fax o consegna a mano, ormai la prudenza consiglia l’amministratore accorto di ritenere irrilevante la conoscenza di fatto della convocazione, per cui quest’ultima dovrà essere recapitata personalmente a ciascun comproprietario e, quindi, separatamente a ciascun coniuge.

Ovviamente, per questo si dovrà preventivamente ed accuratamente verificare sia il regime vigente tra i coniugi, sia che l’immobile posto nel condominio non sia un bene personale di uno solo di essi, in base all’articolo 179 del Codice civile, che, infatti, considera tali, escludendoli dalla comunione: a) i beni di cui il coniuge era proprietario o titolare di un diritto reale di godimento prima del matrimonio b) quelli acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione c) quelli di uso strettamente personale d) quelli che servono all’esercizio della professione f) quelli acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopra elencati, purchè ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto.

L’invio dell’avviso di convocazione va sempre provato

Non è sufficiente inviare l’avviso di convocazione dell’assemblea a mezzo posta per potersi dire assolto l’obbligo di cui all’articolo 66 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile, in quanto permane sempre l’onere di provare che l’atto sia giunto a destinazione o meglio, nella sfera di conoscibilità del destinatario.

Di recente la Corte di cassazione (ordinanza n. 13015/2015) ha precisato che all’avviso di convocazione spedito a mezzo posta e, pacificamente, non consegnato al destinatario, consegue l’onere del condominio «di provare non solo la spedizione, ma anche che l’avviso di giacenza (adempimento che consente di acquisire conoscenza dell’invio della comunicazione e la conoscibilità del suo contenuto) fosse stato immesso nella cassetta postale del destinatario» .

Condominio consumatore.

Il condominio è un consumatore? Sì, a certe condizioni. Al contratto concluso con il professionista dall’amministratore del condominio, ente di gestione sprovvisto di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applicano, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, le norme sulla tutela del consumatore, anche in assenza di una prevalenza, fra i condomini, di persone fisiche consumatori.

Questo, in sostanza, è quanto dice il Tribunale di Ravenna (sentenza 711 del 27 settembre 2017) sull’applicabilità del Codice del consumo (Dlgs 206/2005) ai contratti che coinvolgono il condominio: in altri termini, il tema affrontato è se il condominio sia qualificabile o meno come consumatore.

L’orientamento che si è finora delineato, sia di merito che di legittimità, ha valorizzato in via pressoché esclusiva l’assunto secondo il quale, essendo il condominio ente di gestione privo di personalità giuridica, «l’amministratore agisce quale mandatario con rappresentanza dei vari condomini, i quali devono essere considerati consumatori in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale» (Cassazione, sentenze 10679/2015 e 452/2005).

Conforme a questo principio anche il Tribunale di Milano, per il quale gli effetti dell’attività contrattuale compiuta dall’amministratore vanno sempre riferiti ai singoli condomini, essendo irrilevante che il contratto sia stato concluso dall’amministratore (sezione XI, sentenza del 21 luglio 2016).

La pronuncia del giudice ravennate ha affrontato l’analisi della composizione del condominio, valutando se fra i condòmini vi fosse compresenza di professionisti e di persone fisiche che agissero al di fuori di attività professionali e se sussistesse prevalenza dell’una o dell’altra categoria.

Nel caso concreto lo stabile era occupato integralmente da persone fisiche, salvo due unità occupate da professionisti (per 76/1000) e non era emersa alcuna prova del carattere professionale dei condòmini. Il giudice ha ritenuto quindi confermata la qualifica di consumatore al condominio ma, spingendosi oltre, ha affermato che non sarebbe comunque richiesto un rapporto di prevalenza di persone fisiche quali condòmini, ai fini dell’applicabilità della normativa consumeristica. Ciò, in quanto l’amministratore del condominio, nel momento in cui stipula contratti di utenza o manutenzione per conto dei condomini, agirebbe comunque per scopi estranei all’attività professionale degli stessi.

Però va valutato nel concreto se i condòmini siano consumatori o professionisti. Se infatti i contratti stipulati dall’amministratore vanno sempre riferiti ai singoli condòmini e non al condominio, occorre volta per volta valutare non se il condominio ma se i singoli condòmini siano o meno consumatori, distinguendo per esempio un condominio meramente residenziale da uno composto da soli professionisti. Nell’ipotesi di compresenza tra professionisti e consumatori, potrà stabilirsi, in base al criterio di prevalenza, come per i contratti misti, quale sia la normativa in concreto applicabile.

Di recente, la Corte di Giustizia Ue ha precisato come la nozione di consumatore debba essere interpretata «in maniera restrittiva, facendo riferimento alla posizione di tale persona in un determinato contratto, in relazione alla natura ed alla finalità di quest’ultimo, e non invece alla situazione soggettiva di quella stessa persona, potendo un medesimo soggetto essere considerato un consumatore nell’ambito di determinate operazioni ed un operatore economico nell’ambito di altre».

Necessario il Codice fiscale del Condominio

Per poter fruire della detrazione dall’Irpef del 50% delle spese sostenute per la manutenzione o ristrutturazione delle parti comuni occorre che ci sia sempre il codice fiscale del condominio e che le fatture siano a questo intestate. Un principio, quello espresso dall’agenzia delle Entrate con la risoluzione 74/E del 27 agosto 2015 , che nella sostanza ribadisce quanto detto nella circolare 11/E/2014 .

Cosa succede, in concreto, molte volte? Nei condomìni minimi, dove non c’è né amministratore né conto o codice fiscale condominiali, i proprietari, quando effettuano i lavori sulle parti comuni si fanno intestare le fatture “pro quota” per poi detrarne il 50% dall’Irpef. Ignorando però che il diritto a questa detrazione spetta solo se il codice fiscale viene indicato nei bonifici di pagamento dei lavori e nella dichiarazione dei redditi dei singoli condòmini quando usano il bonus fiscale. Alcuni più astuti, per aggirare il problema, si fanno indicare sulle fatture che i lavori sono su parti private.

Il caso affrontato dalle Entrate era stato sollevato proprio da un “interpello” fatto da alcuni contribuenti, tutti condòmini di un piccolo condominio, che volevano evitare di fare errori. Invece, come hanno risposto le Entrate, l’errore era stato fatto: avevano pagato regolarmente con bonifico, come prescritto, le fatture, che però erano a loro intestate per importi pro quota, e in più avevano indicato il loro codice fiscale e non quello del condominio. Date queste premesse, la detrazione non spetta. Il pagamento può anche essere fatto da uno o più condòmini ma fatture e codice fiscale devono essere del condominio.

L’agenzia, però, ha anche indicato un rimedio, valevole per chi ha commesso l’errore nel 2014: occorre anzitutto chiedere il codice fiscale del condominio all’Ufficio territoriale delle Entrate(con il modello AA5/6, sul sito dell’agenzia), poi pagare la sanzione perché il codice fiscale non era stato chiesto in tempo (103,29 euro con modello F24, codice tributo 8912). Infine, va inviata allo stesso ufficio una comunicazione in carta libera dove indicare per ciascun condomino: le generalità e il codice fiscale; i dati catastali delle rispettive unità immobiliari; i dati dei bonifici; la richiesta di considerare il condominio quale soggetto che ha effettuato gli interventi; le fatture emesse dalle ditte nei confronti dei singoli condòmini, da intendersi riferite al condominio. Ma non basta: la dichiarazione dei redditi (730 o Unico), in caso sia già stata presentata, va rifatta in integrazione.

Insomma, una seccatura che si sarebbe potuta evitare. E che insegna a chi abita nei condomìni minimi ad attrezzarsi richiedendo subito il codice fiscale.

Revoca dell’amministratore condominio e sulla mediazione obbligatoria

Chiarimenti della Cassazione, con l’ordinanza 18/01/2018 n° 1237

L’art. 5, comma 4, lett. f, del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è inequivoco nel disporre che il meccanismo della condizione di procedibilità non si applica nei procedimenti in camera di consiglio, essendo proprio il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio un procedimento camerale plurilaterale tipico.

Si spiega, tuttavia, come il procedimento di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio: 

1) riveste un carattere eccezionale ed urgente, oltre che sostitutivo della volontà assembleare;

2) è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore;

3) è perciò improntato a celerità, informalità ed ufficiosità;

4) non riveste, tuttavia, alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto).

Pertanto, il decreto con cui la Corte d’Appello in sede di reclamo su provvedimento di revoca dell’amministratore di condominio, dichiari improcedibile la domanda per il mancato esperimento del procedimento di mediazione  comunque non costituisce “sentenza”. Essendo sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà, in quanto non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi.

Pertanto, non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, nè il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico. Trattasi, dunque, di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato.

Detrazioni per ecobonus e lavori di ristrutturazione.

Devono essere rimborsati all’erario i bonus fiscali, detratti indebitamente, in dichiarazione dei redditi.

Con l’avvio delle dichiarazioni dei redditi, i contribuenti che hanno diritto alle detrazioni fiscali per l’edilizia (quali bonus ristrutturazioni, ecobonus, sismabonus) stanno controllando bonifici, certificazioni dell’amministratore, dati della precompilata ecc. Tali detrazioni, come è noto, spettano per le spese sostenute ed effettivamente rimaste a carico. Pertanto, se il singolo contribuente o il condominio hanno ricevuto contributi o sovvenzioni per l’esecuzione degli interventi (si pensi al rimborso o contributo erogato da un Comune in caso di calamità), la detrazione va calcolata sulla parte della spesa al netto del contributo o sovvenzione (Circ. n. 57 del 24.2.98; Circ. n. 121 del 11.5.98, nonché le recenti f.a.q. rese note dall’Agenzia delle Entrate con riguardo alla presentazione della comunicazione dell’amministratore di condominio con scadenza al 28 febbraio).

Peraltro, in altra circostanza – si veda il Sole24Ore del 17 aprile 2018 -, abbiamo espresso il parere per cui, se il rimborso deriva da assicurazione condominiale, i cui premi non sono deducibili per i condòmini, la spesa si considera effettivamente rimasta a carico e non subisce decurtazioni.

Le suddette circolari precisano che, qualora i contributi da terzi siano erogati in un periodo d’imposta successivo a quello in cui il contribuente fruisce della detrazione, si applica l’art. 17 (allora era l’art. 16), comma 1, lettera n-bis), del Tuir, che prevede l’assoggettamento a tassazione separata delle somme conseguite a titolo di rimborso di oneri per i quali si è fruito della detrazione in periodi d’imposta precedenti.

Pertanto il contribuente dovrà compilare il quadro RM sez. III (se presenta il Modello Redditi) ovvero il quadro D – Altri redditi – Redditi soggetti a tassazione separata (se presenta il Modello 730). Deve essere indicato, tra l’altro, l’anno di sostenimento della spesa (per verificare il numero delle rate, rispetto alle 5 o 10 rate annuali, in cui si è fruito della detrazione in misura superiore a quella spettante); deve inoltre essere riportato l’importo della somma rimborsata e non quello della detrazione goduta.

Le istruzioni al modello 730 riportano – salvo un piccolo refuso – il seguente esempio: se la spesa è stata sostenuta nel 2012 per 20.000,00 euro di cui 5.000,00 euro sono stati oggetto di rimborso nel 2017 e si è applicata la rateizzazione in dieci rate, la somma da indicare è data dal risultato della seguente operazione:

5.000 euro (somma rimborsata) diviso 10 (numero di rate annuali in cui è ripartita la detrazione) moltiplicato per 5 (numero di rate già detratte nel 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016) = 2.500 euro. Per le restanti cinque rate il contribuente indicherà, a partire dalla “presente” dichiarazione (per il 2017), la spesa inizialmente sostenuta ridotta degli oneri rimborsati (nell’esempio 20.000 – 5.000 = 15.000 euro) e calcolerà la rata su tale importo.

In altri termini deve essere assoggettato a tassazione separata (o ordinaria, su opzione: si veda oltre) il maggior importo sul quale è stata calcolata la detrazione (2.500 euro), fermo restando che dalla rata relativa al 2017, la quota di detrazione sarà calcolata come se si fosse effettuato il conteggio corretto sin dal primo anno.

In relazione alle somme da assoggettare a tassazione separata infine il contribuente deve effettuare il versamento di un acconto nella misura del 20 per cento (art. 1, D.L. 31 dicembre 1996, n. 669) in sede di autoliquidazione delle imposte (insieme ad Irpef, addizionali, cedolare ecc.); in caso di assistenza fiscale la somma è trattenuta dal sostituto d’imposta. L’ufficio procederà quindi alla liquidazione delle imposte dovute in base ai criteri di tassazione separata, indicati nell’art. 21 del Tuir.

Si ricorda infine, per completezza, che il contribuente – per i redditi e le somme non conseguiti nell’esercizio di impresa commerciale – può optare per la tassazione ordinaria, in luogo della tassazione separata, barrando l’apposita casella nei citati quadri RM o D della dichiarazione dei redditi.

Ai Comuni spetta la manutenzione dei marciapiedi

Sono molti i Comuni che hanno deliberato ordinanze con le quali attribuiscono ai condòmini l’onere di curare la manutenzione del tratto di marciapiede antistante lo stabile   liberandosi così dalle spese di gestione dei marciapiedi e dalla responsabilità in caso di incidenti dovuti alla mancata o inesatta manutenzione. Ma queste ordinanze non possono ribaltare sui condomìni le responsabilità dei danni causati a terzi da mancata manutenzione.

Il marciapiedi antistante al condominio, infatti, a differenza dei cortili e degli spazi interni, è suolo pubblico e quindi appartiene totalmente alla pubblica amministrazione. Il Decreto legislativo 285/92 (Codice della Strada) definisce chiaramente il concetto di strada pubblica e annovera i marciapiedi nel demanio. L’articolo 3, numero 33, infatti, specifica che si intende per marciapiede «parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni». Ed è quindi illegittimo che una semplice ordinanza comunale deroghi ad un decreto legislativo.

In particolare, il Comune mantiene la proprietà del marciapiedi anche per la porzione antistante allo stabile condominiale e tale diritto di proprietà comprende l’onere di effettuare le opere di manutenzione dovute e necessarie. Non esiste quindi alcun obbligo in capo al condominio e al suo amministratore di effettuare riparazioni o manutenzioni per rendere sicuro o agibile il marciapiedi. Si può affermare quindi che l’estensione del condominio arriva fino alle proprie mura esterne (tranne che esiste un’area «di sedime» dell’edificio), e che il marciapiede antistante non ne faccia parte.

Questa affermazione risulta cruciale, oltre che per le spese di manutenzione già accennate, al fine di determinare chi debba rispondere dei danni cagionati dal marciapiede.

Sul punto risulta chiara una sentenza emessa dalla Quarta Sezione Civile del Tribunale di Torino, che in data 5 dicembre 2012 dirimeva ogni dubbio su queste problematiche.

È infatti responsabile per i danni cagionati dalla cosa in custodia colui che ha del bene la custodia, intesa come potere di gestione. E, come chiarisce il Codice della Strada, «gli enti proprietari delle strade (…) provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi».

CONDOMINIO E NUOVA NORMATIVA PRIVACY

Entro il 25 maggio 2018 bisognerà attenersi a quanto disposto dal nuovo Regolamento Generale Europeo sulla Protezione dei Dati Personali (GDPR), anche con riferimento al trattamento dei dati nel Condominio, per non incorrere in pesanti sanzioni.

Le nuove norme riguardano tutte quelle realtà che in qualsiasi modo trattano dati personali delle persone fisiche, quindi anche il condominio. Vi è la necessità di individuare quali sono le novità per l’amministratore come responsabile del trattamento.

All’interno del condominio i dati personali sono ad esempio nome, cognome, indirizzo, codice fiscale, ma anche il numero dell’interno dell’abitazione o la bolletta dell’acqua se riconducibili ad un condomino. Tale precisazione era stata già effettuata dal Garante della Privacy successivamente all’entrata in vigore della legge 220/2012 e rimane valida anche per la nuova normativa.

Per saperne di più su: trattamento dei dati – Informativa – Consenso – Responsabilità e sanzioni, richiedere la Guida multimediale predisposta da Arai per gli Associati, cliccare sul seguente collegamento: Apri la Guida Multimediale

Per il rimborso della spesa anticipata, il condomino deve dimostrare l’urgenza

Per riavere quanto anticipato, il condomino che ha effettuato una spesa per un intervento eseguito su parti comuni, deve dimostrare l’urgenza, ossia la necessità di eseguire l’esborso senza ritardo e, pertanto, senza poter avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condòmini.

Lo ricorda il Tribunale di Savona, con sentenza n. 310 del 14 marzo 2018 . Apre la causa, la decisione di una S.r.l. di opporsi al decreto con cui il condominio le aveva ingiunto di pagare circa 20 mila euro ed avanzare, nel contempo, domanda riconvenzionale tesa ad ottenere il rimborso, anche con parziale compensazione, di quanto interamente sopportato per saldare numerose fatture emesse da due imprese di pulizia per prestazioni svolte a favore di tutti i condòmini. Richieste entrambe bocciate. Intanto, scrive il giudice, dalla documentazione prodotta era emerso che la Società non aveva chiesto rimborsi. Non solo. La delibera con cui erano state spartite le spese non era stata mai impugnata, diventando, così, definitiva. Ad ogni modo, nella vicenda, prosegue il Tribunale, seppure la delibera fosse stata impugnata, non vertendo sulla modifica dei criteri di spesa ma sull’eventuale violazione di criteri già stabiliti, la stessa sarebbe stata, al più, solo annullabile. Queste, le motivazioni del rigetto dell’opposizione.

Quanto, invece, alla fondatezza della domanda riconvenzionale, la prova del fatto che le somme chieste fossero effettivamente dovute alla società opponente appariva lacunosa già a partire dalle fatture prodotte, imprecise per data e per numero progressivo, assolutamente generiche nell’oggetto e, peraltro, intestate alla S.r.l. e non al condominio. Dal contratto di servizi, poi, non era possibile risalire esattamente al luogo preciso in cui si sarebbero dovuti prestare i lavori. E non era neanche chiaro se le fatture allegate agli atti si riferissero a spese direttamente sostenute per esigenze condominiali o se, di contro, fossero legate a coperture assicurative o altri esborsi non ben individuati. La domanda della S.r.l., infine, oltre a non essere adeguatamente provata nel quantum, difettava persino dei presupposti dell’obbligo di restituzione vantato. Non poteva accogliersi, difatti, la tesi per cui – letto l’articolo 1110 del Codice civile – ben avrebbe potuto affrontare personalmente le spese, vista la trascuratezza degli altri partecipanti. La norma, ricorda il Tribunale, è inapplicabile in presenza di un condominio, imponendosi in tal caso la disciplina speciale dettata dall’articolo 1134 del Codice civile, i cui presupposti sono maggiormente stringenti. Come più volte affermato (tra le altre: Cassazione 4330/2012), in materia condominiale non opera la disposizione inerente la comunione in generale – per cui il rimborso delle spese per la conservazione è subordinato solamente alla trascuratezza degli altri comproprietari – perché «mentre nella comunione i beni comuni costituiscono l’utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione».

Occorre parametrarsi, allora, ad indici molto rigorosi in base ai quali potrà dirsi urgente, ad esempio, la spesa da eseguirsi senza ritardo (Cassazione 4364/2001) o quella la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, secondo il criterio del buon padre di famiglia (Cassazione 5256/1980). Il diritto al rimborso delle somme anticipate scatta, in sintesi, provando l’urgenza della spesa sostenuta, letta come necessità di provvedere senza ritardo e senza poter avvisare tempestivamente l’amministratore o gli altri condòmini (Cassazione 4364/2001). Ipotesi, ovviamente, non rinvenibile nella fattispecie, stante la natura periodica – e, dunque, tutt’altro che occasionale o urgente – delle spese di cui l’opponente chiedeva il rimborso. Spese, va detto, mai portate formalmente a conoscenza dell’assemblea la quale, di conseguenza, non aveva mai adottato e non avrebbe potuto farlo, alcuna delibera di contenuto ricognitivo di eventuali situazioni debitorie facenti capo al condominio. Di qui, la conferma del decreto ingiuntivo e del provvedimento interinale provvisoriamente esecutivo.

Valida la delibera di nomina dell’Aministratore anche se manca l’indicazione del compenso

Il Tribunale di Palermo Sezione Seconda Civile ha stabilito con la Sentenza 9 Febbraio 2018 r.g. 7809/2016, che è valida la nomina dell’amministratore del condominio degli edifici, che ha omesso di precisare i riferimenti anagrafici e fiscali e quelli inerenti il compenso economico. Secondo il giudice , in particolare, il verbale assembleare contenente la delibera di conferimento dell’incarico non deve indicare necessariamente i dati di cui all’articolo 1129 del Codice civile. In altri termini, la delibera è valida anche senza la precisazione delle competenze professionali dell’amministratore, in quanto la specifica sull’entità del compenso può intervenire successivamente, cioè al momento dell’accettazione dell’incarico da parte del professionista.

Il contenzioso era partito da un condòmino, assente all’assemblea che aveva nominato l’amministratore senza però specificare, in sede di verbale, i rispettivi dati anagrafici e professionali e il compenso, in violazione dell’articolo 1129 del Codice civile.

Ma per il Tribunale i requisiti previsti dalla norma non sono stabiliti a pena di nullità della delibera ma piuttosto dell’atto di accettazione della nomina e del suo rinnovo, «che può anche essere successiva, appunto, alla delibera stessa». Tale disposizioni – dice la sentenza – si riferisce alla fattispecie della «Nomina, revoca ed obblighi dell’amministratore» e, pertanto, le sue diverse previsioni esulano da quelle invece inerenti la validità delle delibere assembleari.