Le varie tipologie di muri nel Condominio

I muri si distinguono principalmente in muri maestri, muri perimetrali e muri divisori

I muri maestri hanno la funzione di sostenere e racchiudere l’edificio, integrandone la struttura portante onde garantirne la sicurezza e la stabilità.

Nella specificazione dei muri maestri si possono riscontrare i c.d. “muri portanti”, ossia quei muri che, come l’intelaiatura di pilastri e architravi, costituiscono l’ossatura e/o il telaio dell’edificio, non distinguendo a seconda che siano collocati all’interno o all’esterno dello stesso. Vi rientrano altresì i c.d. “pannelli di rivestimento e di riempimento” in cemento armato, in muratura o in altro materiale, i quali pur non avendo funzione portante, <<costituiscono parte organica ed essenziale dell’intero immobile il quale, senza la delimitazione da essi operata, sarebbe uno “scheletro vuoto”, privo di qualsiasi utilità>> (Cass. 2773/1992; Cass. 776/1982; Cass. 1186/1971).

Vi è da rilevare che dottrina e giurisprudenza hanno sempre osservato che anche la facciata di un edificio <<rientra nella categoria dei muri maestri e al pari di questi costituisce una delle strutture essenziali ai fini dell’esistenza stessa dello stabile unitariamente considerato>> (Cass. 1945/1998). La riforma ha ora fatto propri i principi giurisprudenziali, indicando espressamente la facciata, i pilastri e le travi portanti di un edificio tra le parti comuni ex art. 1117, n. 1, c.c.

Secondo questa norma, i muri maestri sono oggetto di proprietà comune del condominio. In quanto tali, sono soggetti nella ripartizione delle spese necessarie per la loro manutenzione e il loro godimento comune ai criteri stabiliti dall’art. 1123, 1 comma, c.c. , sulla base dei millesimi di proprietà del singolo

Trattandosi di beni condominiali occorre rispettare la regola generale di cui all’art. 1102, 1 comma, c.c.: ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, traendone ogni possibile utilità purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne un uso paritetico secondo il loro diritto.

Nel rispetto di questa disposizione, di norma, non sono consentite, considerata la funzione portante dei muri maestri, opere che ne comportino un indebolimento perché ciò potrebbe pregiudicare o causare pericoli alla stabilità dell’intero edificio. La giurisprudenza ha ammesso quegli interventi, quali l’apertura di finestre o vedute su un cortile comune che, in ragione dei poteri spettanti ai sensi dell’art. 1102 c.c. sono fruibili da tutti i condomini, cui spetta anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti (Cass. 13874/2010). Allo stesso modo, sono leciti l’allargamento di una finestra a porta finestra (Cass. 12047/2007), la collocazione di una tubatura di scarico di un servizio (o per il passaggio del gas o sfiatatoi per evitare il ristagno di odori, ecc.), di pertinenza esclusiva di un condomino, in un muro maestro dell’edificio condominiale, per la funzione accessoria cui esso adempie, ferma restando ovviamente la possibilità in caso di infiltrazioni o danni derivanti alle proprietà o comproprietà degli altri condomini di chiedere il risarcimento, anche in forma specifica mediante sostituzioni o riparazioni (Cass. 1162/1999).

I muri possono costituire il perimetro dell’edificio condominiale: pur non avendo funzione di muri portanti, vanno intesi come muri maestri al fine della presunzione legale di comunione ex art. 1117 c.c., in quanto determinano la <<consistenza volumetrica dell’edificio unitariamente considerato proteggendolo dagli agenti atmosferici e termici, ne delimitano la superficie coperta e ne delineano la sagoma architettonica>>. (Cass. 4978/2007)

Nell’ambito dei muri comuni a tutto il condominio rientrano anche quelli collocati in posizione avanzata o arretrata, anche se non coincidente con il perimetro esterno degli altri piani, nonché le parti dei muri perimetrali che si trovano in corrispondenza delle porzioni di proprietà singola ed esclusiva (Cass. 4978/2007). Anche in presenza di edifici con più corpi di fabbrica, tra loro costituenti un’unica sagoma architettonica, i muri perimetrali in cemento armato (c.d. pannelli di rivestimento o riempimento) che delimitano un edificio rispetto all’altro costruito in aderenza, appartengono a tutti i comproprietari del suolo, poiché costruiti su suolo comune e costituenti, perciò, un elemento strutturale dell’immobile di cui beneficiano tutti i condomini (Cass. 23453/2004; Cass. 2773/1992).

Anche qui per la ripartizione delle spese per la manutenzione, conservazione o ristrutturazione dei muri perimetrali così definiti, si segue il criterio stabilito dall’art. 1123, 1 comma, c.c.: il singolo partecipa alla spesa in ragione dei suoi millesimi di proprietà

Sulla base del principio di comproprietà dei muri perimetrali dell’edificio condominiale, il singolo condomino è legittimato ad apportarvi modificazioni che gli garantiscono una utilità aggiuntiva rispetto agli altri proprietari, a condizione che: non venga limitato il diritto all’uso del muro degli altri condomini; non ne venga alterata la normale destinazione; tali modificazioni non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio (Cass. 16097/2003; Cass. 4314/2002).

Di conseguenza la giurisprudenza considera legittima l’apertura di una porta finestra sul lastrico solare di copertura, in quanto non modifica la consistenza materiale del bene comune e/o la sua destinazione, rispondendo allo scopo di consentire un uso più agevole senza incidere sulla possibilità di utilizzazione degli altri condomini (Cass. 12047/2007), ovvero la realizzazione di aperture e vedute su chiostrine o cortili (Cass. 7402/1986). Costituiscono, invece, un uso illegittimo del muro perimetrale, l’apertura di un varco da parte di un condomino per consentire la comunicazione tra il proprio appartamento ed altra unità immobiliare attigua, di sua proprietà, ma ricompresa in altro edificio condominiale, perchè il collegamento determinerebbe inevitabilmente la creazione di una servitù a carico delle fondazioni, del suolo e delle strutture del fabbricato (Cass. 1708/1998); al pari non è consentito l’abbattimento di un muro perimetrale in cemento armato, perchè incidendo sulla sostanza essenziale della cosa, non rientra nell’ambito della disciplina di cui all’art. 1102 c.c. costituendo invece innovazione soggetta alle regole dettate dall’art. 1120 c.c. (Cass. n. 3741/1982).

Vi sono infine i muri divisori, muri che hanno la funzione di separare le diverse unità o i locali interni di una singola unità immobiliare. Essi non possono essere equiparati ai muri maestri né alle parti dell’edificio necessarie all’uso comune ai sensi dell’art. 1117 c.c. (Cass. 03/1975). Sono in regime di comproprietà tra i proprietari confinanti o di proprietà esclusiva del condomino proprietario dell’appartamento cui fungono da divisori ma avendo la funzione di separare le parti comuni da quelle esclusive all’interno dell’edificio condominiale sono in regime di comproprietà tra il condominio e il relativo proprietario. Si presumono, altresì, comuni, i muri di separazione tra edifici, o che servono da divisione tra corti, giardini e orti, in applicazione della disciplina prevista dall’art. 880 c.c.

Spese per i box

Non è tenuto a pagare le spese di adeguamento dei garages il condòmino che non possiede box, né ha una servitù di passaggio nella rampa d’accesso. La Corte di cassazione, con la sentenza 17268, respinge il ricorso del condominio che reclamava il pagamento della rata relativa ai lavori di ristrutturazione. All’altezza dei piani in cui erano situati i posti macchina c’erano anche degli spazi comuni: le sale di ritrovo e il locale destinato alle riunioni dell’assemblea. Inoltre, il regolamento interno prevedeva che anche i non proprietari del posto auto potessero accedere all’autorimessa. Il tutto faceva scattare, secondo il condominio, un dovere di partecipare, in proporzione ai millesimi, alla manutenzione degli spazi. Per la Cassazione però così non è: mancava la prova che il condominio usufruisse della servitù. Inoltre, precisano i giudici, devono essere considerate nulle le delibere relative alla ripartizione delle spese adottate modificando i criteri stabiliti dalla legge, o in via convenzionale da tutti i condomini

Anticipazioni dell’Amministratore

l Tribunale Torino, con sentenza del 29 Gennaio 2016 detta i seguenti principi: «Il credito per le somme anticipate nell’interesse del Condominio dall’amministratore trae origine da un rapporto di “mandato” che intercorre con i condomini (Cass. civile , sez. II, 04 ottobre 2005, n. 19348 in Giust. civ. Mass. 2005, 10; Cass. civile , sez. II, 16 agosto 2000, n. 10815 in Giust. civ. Mass. 2000, 1796). Precisamente, l’amministratore di condominio – nel quale non è ravvisabile un ente fornito di autonomia patrimoniale, bensì la gestione collegiale di interessi individuali, con sottrazione o compressione dell’autonomia individuale – configura un “ufficio di diritto privato” oggettivamente orientato alla tutela del complesso dei suindicati interessi e realizzante una cooperazione, in ragione di autonomia, con i condomini, singolarmente considerati, che è assimilabile, pur con tratti distintivi in ordine alle modalità di costituzione ed al contenuto ‘sociale’ della gestione, al “mandato con rappresentanza”, con la conseguente applicabilità, nei rapporti tra amministratore ed ognuno dei condomini, dell’art. 1720 comma 1 c.c., secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico: norma che, peraltro, esprime un principio comune nella disciplina dei rapporti di cooperazione, indipendentemente dalla loro peculiarità (cfr. in tal senso: Cass. 1286/1997; Cass. 8530/1996; Cass. 1720/1981). In particolare, si deve osservare che, nascendo l’obbligazione restitutoria a carico dei singoli condomini nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione legittima e per diretto effetto di essa, la situazione non muta in conseguenza della cessazione dell’anticipante dall’incarico di amministratore, con la conseguenza che la domanda dell’amministratore cessato dall’incarico diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale può essere proposta, oltre che nei confronti del condominio, anche nei confronti del singolo condomino inadempiente all’obbligo di pagare la propria quota (cfr. in tal senso la citata Cass. civile , sez. II, 12 febbraio 1997, n. 1286 in Giust. civ. Mass. 1997, 227 ed in Vita not. 1997, 190)».

Secondo questa decisione, l’ex amministratore può recuperare le somme anticipate anche nei confronti del singolo condomino perché detto credito deriva da un rapporto di “mandato” intercorrente con i singoli condomini (cfr. Cass. 19348/2005; Cass.10815/2000). Un principio rafforzato dalla recentissima sentenza della Corte d’appello di Napoli (si veda il Quotidiano del Sole 24 Ore – Condominio di ieri ).

Il condominio non è un ente fornito di autonomia patrimoniale, bensì ha la gestione collegiale di interessi individuali, dei singoli condomini, con sottrazione o compressione dell’autonomia che ogni individuo avre4bbe se non fosse nel contesto condominiale. Il rapporto condominio-amministratore si pone quindi come “ufficio di diritto privato” oggettivamente orientato alla tutela del complesso di detti interessi, realizzando una sorta di cooperazione con i condomini, singolarmente considerati. Questo rapporto è assimilabile -pur con elementi di diversificazione in merito alle modalità di costituzione ed al contenuto ‘sociale’ della gestione- al “mandato con rappresentanza”.

Ad esso si applica l’art. 1720 comma 1 c.c., secondo cui il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico. Si tratta di una disposizione normativa che manifesta un principio comune nella disciplina dei rapporti di cooperazione, indipendentemente dalla loro specifica peculiarità

Poiché l’obbligazione restitutoria nascente in capo ai singoli condomini nel preciso istante in cui avviene l’anticipazione legittima e per diretto effetto di essa, la situazione non cambia a causa della cessazione dell’anticipante dall’incarico di amministratore: la domanda dell’amministratore cessato dall’incarico diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale può essere proposta, oltre che nei confronti del condominio, anche nei confronti del singolo condomino inadempiente all’obbligo di pagare la propria quota.

Ciò è in quanto l’obbligazione di rimborsare all’amministratore, mandatario, le anticipazioni effettuate nell’esecuzione dell’incarico deve considerarsi sorta nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione e per effetto di essa e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo amministratore, che amplia la legittimazione processuale passiva senza eliminare quelle originali, sostanziali e processuali (cfr. in tal senso: Cass. 8530/1996).

La domanda dell’amministratore cessato dall’incarico diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale può essere proposta nei confronti del condominio anche rappresentato dal nuovo amministratore (dovendosi considerare attinente alle cose, ai servizi ed agli impianti comuni anche ogni azione nascente dall’espletamento del mandato, che, appunto, riflette la gestione e la conservazione di quelle cose, servizi o impianti)

Secondo l’orientamento seguito dalla più recente giurisprudenza della Cassazione (in tal senso: Cass. S.U.13533/2001 n. 13533; Cass.341/ 2002), <<il creditore, sia che agisca per l’adempimento, sia che agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno, è tenuto a provare solo l’esistenza del titolo , ossia della fonte negoziale o legale del suo diritto (e, se previsto, del termine di scadenza), mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: è il debitore convenuto a dover fornire la prova estintiva del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento.>>

Convocazione di entrambi i coniugi se in comunione dei beni

Il regime della comunione crea crea qualche difficoltà in condominio. Per l’articolo 159 del Codice civile, il regime patrimoniale della famiglia è costituito, in assenza di diversa convenzione, dalla comunione dei beni, che comprende gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio a esclusione di quelli relativi ai beni personali. Quindi, se l’immobile venga acquistato, durante il matrimonio, da coniugi in regime di comunione legale, lo stesso sarà di proprietà comune, e, pertanto, entrambi devono essere convocati alle assemblee condominiali, in forza del sesto comma dell’articolo 1136 del Codice civile, come modificato dalla Legge 220/2012, secondo cui «l’assemblea non può deliberare se non che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati».

Tale principio potrebbe essere un po’ mitigato, però, osservando che, sebbene l’articolo 67 delle disposizioni di attuazione al Codice civile non autorizzi a ritenere sufficiente la convocazione di uno solo dei comproprietari, tuttavia (in considerazione del fatto che, ai sensi dell’articolo 1136, 6° comma, l’invito a partecipare all’assemblea non richiede un atto scritto ma può essere effettuato con qualsiasi forma o modalità idonea a portarlo a conoscenza del destinatario), la prova della valida convocazione di uno dei proprietari “pro indiviso” si potrebbe ricavare anche dall’avviso dato ad uno degli altri comproprietari, qualora ricorrano circostanze presuntive tali da far ritenere che quest’ultimo abbia informato l’altro (o gli altri) della convocazione stessa, come, appunto, in caso di coniugi comproprietari di un appartamento, conviventi in pieno accordo e senza contrasto di interessi tra loro.

Tuttavia, poiché, a seguito della modifica disposta con la legge 220/2012, il 3° comma dell’articolo 66 delle Disposizioni di attuazione al Codice civile specifica le forme in cui deve avvenire la convocazione e cioè raccomandata, posta elettronica certificata, fax o consegna a mano, ormai la prudenza consiglia l’amministratore accorto di ritenere irrilevante la conoscenza di fatto della convocazione, per cui quest’ultima dovrà essere recapitata personalmente a ciascun comproprietario e, quindi, separatamente a ciascun coniuge.

Ovviamente, per questo si dovrà preventivamente ed accuratamente verificare sia il regime vigente tra i coniugi, sia che l’immobile posto nel condominio non sia un bene personale di uno solo di essi, in base all’articolo 179 del Codice civile, che, infatti, considera tali, escludendoli dalla comunione: a) i beni di cui il coniuge era proprietario o titolare di un diritto reale di godimento prima del matrimonio b) quelli acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione c) quelli di uso strettamente personale d) quelli che servono all’esercizio della professione f) quelli acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopra elencati, purchè ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto.

L’invio dell’avviso di convocazione va sempre provato

Non è sufficiente inviare l’avviso di convocazione dell’assemblea a mezzo posta per potersi dire assolto l’obbligo di cui all’articolo 66 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile, in quanto permane sempre l’onere di provare che l’atto sia giunto a destinazione o meglio, nella sfera di conoscibilità del destinatario.

Di recente la Corte di cassazione (ordinanza n. 13015/2015) ha precisato che all’avviso di convocazione spedito a mezzo posta e, pacificamente, non consegnato al destinatario, consegue l’onere del condominio «di provare non solo la spedizione, ma anche che l’avviso di giacenza (adempimento che consente di acquisire conoscenza dell’invio della comunicazione e la conoscibilità del suo contenuto) fosse stato immesso nella cassetta postale del destinatario» .

Condominio consumatore.

Il condominio è un consumatore? Sì, a certe condizioni. Al contratto concluso con il professionista dall’amministratore del condominio, ente di gestione sprovvisto di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applicano, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, le norme sulla tutela del consumatore, anche in assenza di una prevalenza, fra i condomini, di persone fisiche consumatori.

Questo, in sostanza, è quanto dice il Tribunale di Ravenna (sentenza 711 del 27 settembre 2017) sull’applicabilità del Codice del consumo (Dlgs 206/2005) ai contratti che coinvolgono il condominio: in altri termini, il tema affrontato è se il condominio sia qualificabile o meno come consumatore.

L’orientamento che si è finora delineato, sia di merito che di legittimità, ha valorizzato in via pressoché esclusiva l’assunto secondo il quale, essendo il condominio ente di gestione privo di personalità giuridica, «l’amministratore agisce quale mandatario con rappresentanza dei vari condomini, i quali devono essere considerati consumatori in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale» (Cassazione, sentenze 10679/2015 e 452/2005).

Conforme a questo principio anche il Tribunale di Milano, per il quale gli effetti dell’attività contrattuale compiuta dall’amministratore vanno sempre riferiti ai singoli condomini, essendo irrilevante che il contratto sia stato concluso dall’amministratore (sezione XI, sentenza del 21 luglio 2016).

La pronuncia del giudice ravennate ha affrontato l’analisi della composizione del condominio, valutando se fra i condòmini vi fosse compresenza di professionisti e di persone fisiche che agissero al di fuori di attività professionali e se sussistesse prevalenza dell’una o dell’altra categoria.

Nel caso concreto lo stabile era occupato integralmente da persone fisiche, salvo due unità occupate da professionisti (per 76/1000) e non era emersa alcuna prova del carattere professionale dei condòmini. Il giudice ha ritenuto quindi confermata la qualifica di consumatore al condominio ma, spingendosi oltre, ha affermato che non sarebbe comunque richiesto un rapporto di prevalenza di persone fisiche quali condòmini, ai fini dell’applicabilità della normativa consumeristica. Ciò, in quanto l’amministratore del condominio, nel momento in cui stipula contratti di utenza o manutenzione per conto dei condomini, agirebbe comunque per scopi estranei all’attività professionale degli stessi.

Però va valutato nel concreto se i condòmini siano consumatori o professionisti. Se infatti i contratti stipulati dall’amministratore vanno sempre riferiti ai singoli condòmini e non al condominio, occorre volta per volta valutare non se il condominio ma se i singoli condòmini siano o meno consumatori, distinguendo per esempio un condominio meramente residenziale da uno composto da soli professionisti. Nell’ipotesi di compresenza tra professionisti e consumatori, potrà stabilirsi, in base al criterio di prevalenza, come per i contratti misti, quale sia la normativa in concreto applicabile.

Di recente, la Corte di Giustizia Ue ha precisato come la nozione di consumatore debba essere interpretata «in maniera restrittiva, facendo riferimento alla posizione di tale persona in un determinato contratto, in relazione alla natura ed alla finalità di quest’ultimo, e non invece alla situazione soggettiva di quella stessa persona, potendo un medesimo soggetto essere considerato un consumatore nell’ambito di determinate operazioni ed un operatore economico nell’ambito di altre».

Necessario il Codice fiscale del Condominio

Per poter fruire della detrazione dall’Irpef del 50% delle spese sostenute per la manutenzione o ristrutturazione delle parti comuni occorre che ci sia sempre il codice fiscale del condominio e che le fatture siano a questo intestate. Un principio, quello espresso dall’agenzia delle Entrate con la risoluzione 74/E del 27 agosto 2015 , che nella sostanza ribadisce quanto detto nella circolare 11/E/2014 .

Cosa succede, in concreto, molte volte? Nei condomìni minimi, dove non c’è né amministratore né conto o codice fiscale condominiali, i proprietari, quando effettuano i lavori sulle parti comuni si fanno intestare le fatture “pro quota” per poi detrarne il 50% dall’Irpef. Ignorando però che il diritto a questa detrazione spetta solo se il codice fiscale viene indicato nei bonifici di pagamento dei lavori e nella dichiarazione dei redditi dei singoli condòmini quando usano il bonus fiscale. Alcuni più astuti, per aggirare il problema, si fanno indicare sulle fatture che i lavori sono su parti private.

Il caso affrontato dalle Entrate era stato sollevato proprio da un “interpello” fatto da alcuni contribuenti, tutti condòmini di un piccolo condominio, che volevano evitare di fare errori. Invece, come hanno risposto le Entrate, l’errore era stato fatto: avevano pagato regolarmente con bonifico, come prescritto, le fatture, che però erano a loro intestate per importi pro quota, e in più avevano indicato il loro codice fiscale e non quello del condominio. Date queste premesse, la detrazione non spetta. Il pagamento può anche essere fatto da uno o più condòmini ma fatture e codice fiscale devono essere del condominio.

L’agenzia, però, ha anche indicato un rimedio, valevole per chi ha commesso l’errore nel 2014: occorre anzitutto chiedere il codice fiscale del condominio all’Ufficio territoriale delle Entrate(con il modello AA5/6, sul sito dell’agenzia), poi pagare la sanzione perché il codice fiscale non era stato chiesto in tempo (103,29 euro con modello F24, codice tributo 8912). Infine, va inviata allo stesso ufficio una comunicazione in carta libera dove indicare per ciascun condomino: le generalità e il codice fiscale; i dati catastali delle rispettive unità immobiliari; i dati dei bonifici; la richiesta di considerare il condominio quale soggetto che ha effettuato gli interventi; le fatture emesse dalle ditte nei confronti dei singoli condòmini, da intendersi riferite al condominio. Ma non basta: la dichiarazione dei redditi (730 o Unico), in caso sia già stata presentata, va rifatta in integrazione.

Insomma, una seccatura che si sarebbe potuta evitare. E che insegna a chi abita nei condomìni minimi ad attrezzarsi richiedendo subito il codice fiscale.

Revoca dell’amministratore condominio e sulla mediazione obbligatoria

Chiarimenti della Cassazione, con l’ordinanza 18/01/2018 n° 1237

L’art. 5, comma 4, lett. f, del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è inequivoco nel disporre che il meccanismo della condizione di procedibilità non si applica nei procedimenti in camera di consiglio, essendo proprio il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio un procedimento camerale plurilaterale tipico.

Si spiega, tuttavia, come il procedimento di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio: 

1) riveste un carattere eccezionale ed urgente, oltre che sostitutivo della volontà assembleare;

2) è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore;

3) è perciò improntato a celerità, informalità ed ufficiosità;

4) non riveste, tuttavia, alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto).

Pertanto, il decreto con cui la Corte d’Appello in sede di reclamo su provvedimento di revoca dell’amministratore di condominio, dichiari improcedibile la domanda per il mancato esperimento del procedimento di mediazione  comunque non costituisce “sentenza”. Essendo sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà, in quanto non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi.

Pertanto, non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, nè il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico. Trattasi, dunque, di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato.

Detrazioni per ecobonus e lavori di ristrutturazione.

Devono essere rimborsati all’erario i bonus fiscali, detratti indebitamente, in dichiarazione dei redditi.

Con l’avvio delle dichiarazioni dei redditi, i contribuenti che hanno diritto alle detrazioni fiscali per l’edilizia (quali bonus ristrutturazioni, ecobonus, sismabonus) stanno controllando bonifici, certificazioni dell’amministratore, dati della precompilata ecc. Tali detrazioni, come è noto, spettano per le spese sostenute ed effettivamente rimaste a carico. Pertanto, se il singolo contribuente o il condominio hanno ricevuto contributi o sovvenzioni per l’esecuzione degli interventi (si pensi al rimborso o contributo erogato da un Comune in caso di calamità), la detrazione va calcolata sulla parte della spesa al netto del contributo o sovvenzione (Circ. n. 57 del 24.2.98; Circ. n. 121 del 11.5.98, nonché le recenti f.a.q. rese note dall’Agenzia delle Entrate con riguardo alla presentazione della comunicazione dell’amministratore di condominio con scadenza al 28 febbraio).

Peraltro, in altra circostanza – si veda il Sole24Ore del 17 aprile 2018 -, abbiamo espresso il parere per cui, se il rimborso deriva da assicurazione condominiale, i cui premi non sono deducibili per i condòmini, la spesa si considera effettivamente rimasta a carico e non subisce decurtazioni.

Le suddette circolari precisano che, qualora i contributi da terzi siano erogati in un periodo d’imposta successivo a quello in cui il contribuente fruisce della detrazione, si applica l’art. 17 (allora era l’art. 16), comma 1, lettera n-bis), del Tuir, che prevede l’assoggettamento a tassazione separata delle somme conseguite a titolo di rimborso di oneri per i quali si è fruito della detrazione in periodi d’imposta precedenti.

Pertanto il contribuente dovrà compilare il quadro RM sez. III (se presenta il Modello Redditi) ovvero il quadro D – Altri redditi – Redditi soggetti a tassazione separata (se presenta il Modello 730). Deve essere indicato, tra l’altro, l’anno di sostenimento della spesa (per verificare il numero delle rate, rispetto alle 5 o 10 rate annuali, in cui si è fruito della detrazione in misura superiore a quella spettante); deve inoltre essere riportato l’importo della somma rimborsata e non quello della detrazione goduta.

Le istruzioni al modello 730 riportano – salvo un piccolo refuso – il seguente esempio: se la spesa è stata sostenuta nel 2012 per 20.000,00 euro di cui 5.000,00 euro sono stati oggetto di rimborso nel 2017 e si è applicata la rateizzazione in dieci rate, la somma da indicare è data dal risultato della seguente operazione:

5.000 euro (somma rimborsata) diviso 10 (numero di rate annuali in cui è ripartita la detrazione) moltiplicato per 5 (numero di rate già detratte nel 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016) = 2.500 euro. Per le restanti cinque rate il contribuente indicherà, a partire dalla “presente” dichiarazione (per il 2017), la spesa inizialmente sostenuta ridotta degli oneri rimborsati (nell’esempio 20.000 – 5.000 = 15.000 euro) e calcolerà la rata su tale importo.

In altri termini deve essere assoggettato a tassazione separata (o ordinaria, su opzione: si veda oltre) il maggior importo sul quale è stata calcolata la detrazione (2.500 euro), fermo restando che dalla rata relativa al 2017, la quota di detrazione sarà calcolata come se si fosse effettuato il conteggio corretto sin dal primo anno.

In relazione alle somme da assoggettare a tassazione separata infine il contribuente deve effettuare il versamento di un acconto nella misura del 20 per cento (art. 1, D.L. 31 dicembre 1996, n. 669) in sede di autoliquidazione delle imposte (insieme ad Irpef, addizionali, cedolare ecc.); in caso di assistenza fiscale la somma è trattenuta dal sostituto d’imposta. L’ufficio procederà quindi alla liquidazione delle imposte dovute in base ai criteri di tassazione separata, indicati nell’art. 21 del Tuir.

Si ricorda infine, per completezza, che il contribuente – per i redditi e le somme non conseguiti nell’esercizio di impresa commerciale – può optare per la tassazione ordinaria, in luogo della tassazione separata, barrando l’apposita casella nei citati quadri RM o D della dichiarazione dei redditi.

Ai Comuni spetta la manutenzione dei marciapiedi

Sono molti i Comuni che hanno deliberato ordinanze con le quali attribuiscono ai condòmini l’onere di curare la manutenzione del tratto di marciapiede antistante lo stabile   liberandosi così dalle spese di gestione dei marciapiedi e dalla responsabilità in caso di incidenti dovuti alla mancata o inesatta manutenzione. Ma queste ordinanze non possono ribaltare sui condomìni le responsabilità dei danni causati a terzi da mancata manutenzione.

Il marciapiedi antistante al condominio, infatti, a differenza dei cortili e degli spazi interni, è suolo pubblico e quindi appartiene totalmente alla pubblica amministrazione. Il Decreto legislativo 285/92 (Codice della Strada) definisce chiaramente il concetto di strada pubblica e annovera i marciapiedi nel demanio. L’articolo 3, numero 33, infatti, specifica che si intende per marciapiede «parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni». Ed è quindi illegittimo che una semplice ordinanza comunale deroghi ad un decreto legislativo.

In particolare, il Comune mantiene la proprietà del marciapiedi anche per la porzione antistante allo stabile condominiale e tale diritto di proprietà comprende l’onere di effettuare le opere di manutenzione dovute e necessarie. Non esiste quindi alcun obbligo in capo al condominio e al suo amministratore di effettuare riparazioni o manutenzioni per rendere sicuro o agibile il marciapiedi. Si può affermare quindi che l’estensione del condominio arriva fino alle proprie mura esterne (tranne che esiste un’area «di sedime» dell’edificio), e che il marciapiede antistante non ne faccia parte.

Questa affermazione risulta cruciale, oltre che per le spese di manutenzione già accennate, al fine di determinare chi debba rispondere dei danni cagionati dal marciapiede.

Sul punto risulta chiara una sentenza emessa dalla Quarta Sezione Civile del Tribunale di Torino, che in data 5 dicembre 2012 dirimeva ogni dubbio su queste problematiche.

È infatti responsabile per i danni cagionati dalla cosa in custodia colui che ha del bene la custodia, intesa come potere di gestione. E, come chiarisce il Codice della Strada, «gli enti proprietari delle strade (…) provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi».