Condominio: è possibile portare animali in ascensore?

Molti condomini prevedono clausole che vietano agli animali domestici l’uso del’ascensore insieme ai padroni.

Di fronte alle sempre maggiori clausole regolamentari che proibiscono all’animale, nonostante in compagnia del padrone, di accedere all’ascensore, si è ingenerato un vivace dibattito con al centro la nuova normativa dettata dalla legge 220/12 e del disposto dell’ultimo comma dell’articolo 1138 del codice civile. In sostanza, la legge ha aggiunto al summenzionato articolo un ultimo comma il quale recita espressamente che le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici. La normativa, tuttavia, riguarda il regolamento assembleare, il quale sia stato approvato in assemblea nel rispetto delle maggioranze previste dall’art. 1138 del codice civile.

Diverso il caso del regolamento contrattuale, che richiede l’approvazione di tutti i condomini e può, di fatto, andare a limitare i diritti dei singoli sulle parti comuni e di proprietà esclusiva, senza però derogare a quanto stabilito dal quarto comma dell’art. 1138. In pratica le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare a una serie di norme puntualmente elencate.

Tra queste non risulta menzionato l’art. 1102 del codice civile, che si occupa dell’uso della cosa comune, stabilendo che ciascun partecipante possa servirsene purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

In particolare, l’art. 17 d.p.r. n. 162/99, riguardante i divieti di utilizzazione dell’ascensore, vieta “l’uso degli ascensori e dei montacarichi ai minori di anni 12, non accompagnati da persone di età più elevata”, ma nulla stabilisce con riferimento agli animali.

È questo il quadro normativo, nella sua complessità, che ha indotto i proprietari di animali domestici a ritenere illegittime le clausole che impediscono l’uso dell’ascensore agli animali domestici, posto che il bene viene utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Da qui l’impugnazione innanzi all’autorità giudiziaria che in diverse occasioni ha ritenuto affetta da nullità la clausola regolamentare.

Ogni clausola, tuttavia, deve essere valutata caso per caso e in relazione al contesto. Il regolamento, ad esempio, può prevedere delle norme di condotta per disciplinare l’uso delle cose comuni: se, per legge, i cani devono essere dotati di microchip, iscritti all’anagrafe canina e sottoposti a controlli veterinari, per evitare che la presenza del peloso nello stabile arrechi pregiudizio agli altri inquilini, potrebbe, ad esempio, essere imposto che venga condotto al guinzaglio, che l’ascensore venga mantenuto pulito dal proprietario a seguito dell’utilizzo e così via.

Ciononostante, il dibattito non può dirsi affatto concluso, come dimostra una recente sentenza del Tribunale di Monza il 28 marzo 2017 a seguito dell’impugnazione per nullità di una clausola del regolamento del supercondominio che aveva previsto non solo il divieto dell’uso dell’ascensore ai proprietari accompagnati dal proprio animale domestico, ma anche sanzioni in caso di inosservanza. Il Tribunale, nonostante le rimostranze, si è espresso per la validità di tale clausola, dando ragione al supercondominio convenuto il quale aveva replicato che il regolamento non impediva agli inquilini di detenere animali domestici, ma unicamente di utilizzare l’ascensore, bene comune, per il loro trasporto.

Lastrico solare: è possibile ripartire le spese di riparazione fra tutti i condomini?

Cassazione Civile, sez. II, sentenza 16/02/2017 n° 4183

In tema di ripartizione delle spese di impermeabilizzazione e pavimentazione della terrazza a livello, di uso esclusivo di un solo condomino, non devono contribuire agli esborsi unicamente i proprietari delle unità immobiliari sottostanti – che fruiscono della copertura – ma tutti i condomini se il regolamento di natura contrattuale dispone in tal senso.

Così si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza del 16 febbraio 2017, n. 4183.

DIMISSIONI DELL’AMMINISTATORE

Anche l’amministratore, seppur non revocato dall’Assemblea, è libero di lasciare l’incarico in qualsiasi momento e senza preavviso, presentando le dimissioni. L’articolo 1722 prevede che il mandato possa estinguersi anche «per rinunzia del mandatario», che rimane in carica ad interim fino alla nomina del sostituto. In questi casi, in assenza di una giusta causa, venendo meno il rapporto di mandato, non è da escludere che l’amministratore dimissionario possa essere tenuto a risarcire il danno al condominio. L’iter per le dimissioni prevede che il professionista comunichi la decisione, per iscritto, a tutti i condomini e successivamente convochi l’assemblea, inserendo come punto all’ordine del giorno, oltre alle dimissioni, la nomina del nuovo amministratore. Se l’assemblea non riesce a raggiungere il quorum per la nomina del successore, come stabilito dall’articolo 1129, primo comma, del Codice civile, lo stesso professionista dimissionario può ricorrere all’autorità giudiziaria e chiedere la nomina giudiziale del nuovo amministratore.

Immissioni di fumi

Con la sentenza 14467/2017 la Corte di Cassazione si è occupatale «molestie olfattive», che sono inquadrate nel reato di «getto pericoloso di cose» (articolo 674 del Codice penale) a seguito di una bizzarra vicenda condominiale dove fumi, odori e rumori persistentemente molesti sono stati oggetto di dispute giudiziarie tra due vicini.

Entrando nel merito, i proprietari di un appartamento sono stati accusati dai condòmini di aver provocato continue immissioni di fumi, odori e rumori molesti dalla loro cucina. A nulla è valsa la considerazione dei primi per la quale la causa era da ricercarsi in emissioni di odori di cucina che, per loro natura, non avrebbero integrato i requisiti per la sussistenza del reato, oltre al fatto che tra le parti vi erano stati precedentemente contrasti di vicinato.

Confermando le decisioni dei primi due gradi di giudizio, la Corte di Cassazione ha condannato gli imputati, dichiarandoli colpevoli di «getto pericoloso di cose», respingendo l’argomentazione dei ricorrenti in base alla quale tale norma non sarebbe estensibile agli odori.

La Cassazione ha quindi deciso che, come precisato più volte dalla giurisprudenza, la contravvenzione prevista dall’articolo 674 del Codice penale «è configurabile anche nel caso di molestie olfattive a prescindere dal soggetto emittente con la specificazione che quando non esiste una predeterminazione normativa dei limiti delle emissioni, si deve avere riguardo, al criterio della normale tollerabilità di cui all’articolo 844 del Codice civile». Nel caso in esame, tale tollerabilità è stata ritenuta superata; di qui la decisione della Corte di respingere il ricorso presentato dai proprietari «olfattivamente molesti».

Il Giudice valuta la legittimità non il merito

L’autorità giudiziaria chiamata a esprimersi sulla validità di una delibera assembleare, impugnata da uno o più condomini, non può entrare nel merito della questione, ma soltanto limitarsi a riscontrarne la legittimità, ossia la conformità alle leggi o, se esistenti, al regolamento di condominio. È quanto stabilito dal Tribunale di Milano con la sentenza 435 del 16 gennaio 2017 che, per l’ennesima volta, accende il dibattito sull’eccesso di potere dell’assemblea condominiale e, in seconda battuta, sull’operato del sindacato di legittimità del giudice.

Non è possibile la revoca di un Amministratore se le iregolarità sono “formali” e non “sostanziali”

La legge 220/2012 ha posto particolare attenzione sulla figura dell’amministratore. A prescindere dai requisiti, personali e professionali, il legislatore ha voluto tutelare il più possibile l’interesse dei condòmini a non subire pregiudizi da gestioni poco attente e non trasparenti, stabilendo anche l’obbligo di rendere noti ai condòmini i propri dati anagrafici e professionali sia in sede di accettazione dell’incarico che di rinnovo. Proprio su questo aspetto il Tribunale di Milano con ordinanza del 1° giugno 2016, aveva revocato un amministratore che, all’atto del rinnovo dell’incarico, non aveva comunicato i propri dati anagrafici e professionali e che non aveva curato la tenuta del registro di anagrafe condominiale.

Di diverso avviso è stata la Corte d’appello, che ha respinto una valutazione formalistica dell’operato dell’amministratore (sentenza 3842/2016 del 19 luglio 2016) . La Corte, infatti, nel riformare il provvedimento, da un lato ha rilevato che, per quanto dal verbale dell’assemblea – nel corso della quale l’incarico era stato rinnovato – in effetti non figurassero indicati i dati anagrafici e professionali, essendo l’amministratore in carica da svariati anni tali dati dovevano ritenersi pacificamente noti ai condòmini oltre che desumibili dalle varie comunicazioni inviate (convocazioni, lettere eccetera); dall’altro lato, con riferimento al caso specifico, la Corte ha ritenuto che l’amministratore avesse soddisfatto l’interesse del ricorrente a conoscere i dati degli altri condomini, fornendo i nominativi in suo possesso pur in mancanza di un registro di anagrafe condominiale regolarmente tenuto(decreto 19 luglio 2016). Nella sostanza la Corte ha riaffermato un principio già noto e cioè che per la revoca giudiziale dell’amministratore è necessario che la condotta contestata sia almeno potenzialmente dannosa.

L’amministratore che non osserva gli obblighi imposti dalla legge incorre sì in inadempimento, ma non necessariamente nella revoca giudiziale. Stante la natura contrattuale del rapporto di mandato, l’inadempienza dell’amministratore autorizza i condomini, oltre che a procedere alla revoca con delibera assembleare, a sospendere legittimamente il pagamento del compenso in applicazione dei principi che regolano l’esecuzione dei contratti a prestazioni corrispettive. In tal senso diverse pronunce del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano che anche più di recente (sentenza 4038/16) ha respinto la domanda di pagamento dei compensi formulata dall’ex amministratore che non aveva presentato il rendiconto, non attribuendo alcuna rilevanza alla circostanza che gli atti della gestione nel loro complesso considerati fossero in sé regolari.

Sta al condominio provare che la spesa risale a meno di un anno prima dell’acquisto dell’appartamento

È il condominio che invoca la responsabilità solidale dell’acquirente per le spese di straordinaria manutenzione a essere gravato della prova dell’inerenza dell’esborso all’anno in corso o a quello precedente al subentro del nuovo proprietario. È quanto ha stabilito la sesta sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 7395/17, pubblicata in questi giorni.
Il collegio rigetta il ricorso di un condominio contro i proprietari di un appartamento, chiamati a partecipare, per la quota di spettanza, alle spese di straordinaria manutenzione della facciata dell’edificio. I convenuti erano “freschi” acquirenti e si opponevano alla richiesta perché l’obbligo di spesa era insorto prima del loro subentro. Pertanto, secondo il tribunale che accoglieva la loro istanza, la spesa deliberata doveva rimanere estranea all’anno antecedente entro cui operava la corresponsabilità dell’acquirente, non avendo il condominio provato che l’anno di gestione coincidesse con l’anno solare. Dello stesso avviso è la Cassazione che respinge il ricorso dell’ente di gestione.
Per l’applicazione dell’articolo 63, comma 2, Cc al caso in esame, «quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (in questo caso, la ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale), deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione». Pertanto, il compratore risponde verso il venditore solo «per le spese condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui sia divenuto condomino, mentre ha diritto di rivalersi nei confronti del suo dante causa allorché sia stato chiamato dal condominio a rispondere di obbligazioni nate in epoca anteriore all’acquisto». Il ragionamento seguito dal tribunale risulta, perciò, corretto, in quanto è il condominio, «il quale invochi in giudizio la responsabilità solidale dell’acquirente di un’unità immobiliare per contributi relativi alla conservazione o al godimento delle parti comuni, ad essere gravato della prova dei fatti costitutivi del proprio credito, fra i quali è certamente compresa l’inerenza della spesa all’anno in corso o a quello precedente al subentro dell’acquirente». In base a tali motivazioni, la Suprema corte respinge il ricorso del condominio.

Posti auto in condominio : regolamentazione

Ordinaria regolamentazione

Si approva con la maggioranza semplice (se non modifica un regolamento contrattuale). Tra i numerosi provvedimenti legittimamenta assunti con delibera a maggioranza, volti a disciplinare il libero parcheggio nelle aree condominiali ,si può prendere qualche esempio attingendo ad una casistica molto vasta della Cassazione: uso turnario (sentenza 1421/2016); divieto di sosta se questa impedisce agli altri condòmini il pari uso dello spazio comune (sentenza 3640/2004) o rende difficoltoso il passaggio delle altre vetture (sentenza 14633/2012); divieto di parcheggio della seconda auto se i posti sono insufficienti (ordinanza 11861/2005); proibizione di lasciare autovetture nell’atrio di uno stabile di particolare pregio (sentenza 19615/2012).

Innovazioni

Quando, invece, si decide di organizzare un’area a parcheggio per il condominio, si crea una “innovazione”. Con la riforma del 2012 il Codice civile (articolo 1120) qualifica espressamente come innovazione «opere e interventi» per un parcheggio; ma la maggioranza necessaria viene abbassata a 500 millesimi dai due terzi previsti per le innovazioni in generale.

Rimane fermo, in ogni caso, il divieto delle innovazioni che rendono il bene «inservibile all’uso od al godimento anche di un solo condòmino o pregiudicano stabilità, sicurezza, decoro architettonico dell’edificio» (articolo 1120, 4° comma, del Codice civiled articolo 9 della legge “Tognoli”).

La stabilità del fabbricato potrebbe essere minata, per esempio, dai parcheggi nel sottosuolo, mentre la rilevanza per il decoro architettonico farebbe pensare, fra l’altro, a un giardino di particolare pregio e qualità ornamentali mutato in parcheggio o a una costruzione in totale disarmonia con lo stile dell’edificio.

Nuove destinazioni d’uso

Se l’innovazione muta del tutto la specifica utilizzazione dell’area (per esempio, prima adibita a parco giochi dei bimbi), si produce anche un cambiamento della destinazione d’uso del bene comune.

Con la riforma del 2012 è intervenuto il nuovo articolo 1117-ter del Codice civile, che sottopone questo cambio di destinazione d’uso alla maggioranza “aggravata” di 4/5 (dei millesimi e dei condòmini), ponendosi però in conflitto con l’articolo 1120, comma 2, che per i parcheggi prevede solo 500 anziché 800 millesimi.

Ma l’apparente contrasto dovrebbe risolversi se si considera che il 1117-ter, norma di carattere generale, non è applicabile ai parcheggi perché derogata dalla norma speciale del 1120, comma 2, perché la legge speciale prevale su quella generale.

In altri termini, se un’innovazione “ordinaria” e non specificata (cioè quella “da due terzi” di cui all’articolo 1120, comma 1) comporta anche il cambio di destinazione, oggi valgono il quorum e la procedura del 1117 ter (quindi con 4/5 dei millesimi); se invece l’innovazione è fatta espressamente «per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio» come dice il comma 2, n. 2) dello stesso articolo 1120, con maggioranza dei 2/3, il 1117-ter e la sua super maggioranza rimangono fuori causa.

Infine, il divieto di rendere “inservibile” il bene anche per un solo condòmino (che non sussisterebbe se si applicasse invece la più rigorosa, per altri versi, disciplina dell’art. 1117-ter) impone che la nuova utilità e funzione sia garantita a tutti i partecipanti, anche se non possessori di auto, perché queste potrebbero venir acquisite in un momento successivo.

Senza poi dimenticare, come sancito ancora di recente, che “l’’attribuzione esclusiva” dei posti auto ad alcuni soltanto dei condòmini richiede, a pena di nullità, una delibera unanime perché in questo modo si pregiudica l’uso e il godimento paritario del bene (Cassazione, sentenza 11034/2016).

Negozi in condominio e spese di manutenzione scala

Quando si pensa ad un condominio tipicamente si pensa ad un palazzo formato da varie parti comuni e appartamenti privati. In realtà, però, una gran parte delle unità immobiliari nei palazzi italiani è utilizzato a fini non abitativi.

Nel rapporto del 28 maggio 2015 sul mercato immobiliare, l’agenzia delle Entrate ha censito ben 4.239.886 unità immobiliari di tipologia non residenziale, intese come uffici, negozi, banche, edifici commerciali e alberghi.

Sovente, infatti, specie nelle grandi città, il piano terra dello stabile è occupato da negozi e locali, con vetrine che si affacciano sulla pubblica via.

Sebbene queste unità possano dare l’impressione di essere autonome rispetto al condominio, queste non lo sono e i proprietari degli immobili sono condòmini a tutti gli effetti.

I problemi di convivenza con i condòmini residenti sono generalmente di tre tipologie: i condòmini che lamentano l’invasività del negozio, i cui clienti parcheggiano in modo selvaggio davanti allo stabile e le cui insegne sono istallate sulla facciata del palazzo, e i proprietari dei negozi, che lamentano di dovere pagare spese condominiali per servizi quasi mai utilizzati.

Per quanto riguarda la questione dei clienti invasivi è chiaro come essi non possano parcheggiare i veicoli al di fuori dei parcheggi ufficialmente delimitati dal comune, neanche per i pochi minuti necessari per svolgere la commissione in negozio.

E’ chiaro infatti che l’abitudine di lasciare l’automobile di traverso in prossimità del portone condominiale è contraria alle norme stradali, prima ancora che alle norme interne del palazzo.

Starà quindi al proprietario del negozio di sensibilizzare i propri clienti abituali invitandoli a tenere condotte stradali che non impediscano ai condomini il libero accesso allo stabile.

Nel caso di reiterazione della sosta selvaggia, comunque, oltre ad avvertire la polizia stradale per ottenere la rimozione dei veicoli, si potrà domandare all’amministratore di condominio l’istallazione (compatibilmente con le regole comunali) di dissuasori di sosta da realizzare di fronte all’ingresso del palazzo di modo da rendere impossibile il parcheggio delle autovetture.

La questione dell’insegna del negozio apposta sulla facciata del palazzo, invece, deve essere considerata alla luce dell’articolo 1102 del Codice Civile, che afferma al primo comma che “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

Il negoziante potrà quindi, chiesti i permessi necessari alla pubblica amministrazione e a sue spese, fare apporre una insegna al fine di promuovere il proprio negozio.

Un espresso limite al quale andrà incontro il negoziante sarà quello della necessità di tutelare il decoro architettonico del palazzo per cui un’insegna non conforme alle regole estetiche e storiche del palazzo sarà certamente considerata come innovazione vietata (si pensi all’insegna di un’autofficina apposta sulla facciata di un palazzo costruito in stile liberty).

L’ultimo comma dell’articolo 1120 del Codice Civile afferma infatti che “sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico”.

I condomini, tuttavia, potranno all’unanimità modificare il regolamento contrattuale vietando l’apposizione di insegne o targhe nel condominio e in particolare “con il consenso unanime i condomini, possono derogare od integrare la disciplina legale e, in particolare, possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’articolo 1120 del Cc, estendendo il divieto di immutazione sino a imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva” (Cassazione, sentenza n. 12582 del 17 giugno 2015 ).

Ulteriore problema di frequente sollevato nella difficile convivenza tra negozi e condomìni è la questione del pagamento delle spese condominiali da parte degli immobili ad uso non residenziale.

Sovente, infatti, il negoziante si sente parte estranea rispetto al condominio, dato che magari non partecipa alle assemblee, non utilizza scale e ascensori e vi si reca solamente durante le ore di apertura.

Di conseguenza può capitare che il commerciante veda come un’ingiustizia il fatto di dovere pagare spese come la manutenzione dell’ascensore, la pulizia delle scale o il riscaldamento anche nelle parti comuni.

Tale ragionamento, tuttavia, non pare corretto.

Il negozio, pur se apparato commerciale, è a tutti gli effetti parte integrante del condominio.

L’articolo 1118 del Codice Civile prevede in punto gestione e utilizzo delle parti comuni che “il condòmino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni” e che “il condòmino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali”.

Di conseguenza anche il proprietario del negozio dovrà contribuire, in base ai millesimi di competenza, al pagamento delle spese condominiali.

Quelli sopra tratteggiati sono i conflitti statisticamente più rilevanti tra i condomini e i negozianti dello stabile, esistono tuttavia svariate ulteriori problematiche che possono cagionare attriti.

Per dirimere tali conflitti è necessario avere regole ben precise, definite puntualmente dal regolamento condominiale, e un amministratore in grado di farle rispettare.

In ogni caso le norme del regolamento condominiale e l’opera dell’amministratore possono essere utili e necessari per dirimere i conflitti più macroscopici mentre per le questioni più secondarie e meno evidenti è consigliabile esercitare buon senso e moderazione, anche al fine di evitare lunghe e costose liti giudiziarie.