Il condomino dell’ultimo piano ben può aprire un passaggio al solaio anche se taglia le travi portanti

Non si può impedire al condomino dell’ultimo piano che ha l’uso esclusivo del lastrico solare di praticare un’apertura per collegare l’appartamento e il solaio, anche se l’intervento comporta il taglio di travi portanti del tetto. A meno che, beninteso, i lavori non creino problemi di statica all’edificio. L’articolo 1102 Cc non può infatti essere interpretato in senso tanto restrittivo da impedire ogni intervento sulla cosa comune: il giudice del merito deve invece verificare se dopo i lavori è garantita la funzione di copertura e protezione delle strutture sottostanti. È quanto emerge dalla sentenza 6253/17, pubblicata il 10 marzo dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Verifica necessaria
Altro che la «manifesta infondatezza con condanna aggravata alle spese» chiesta dal sostituto procuratore generale. Il ricorso del proprietario dell’ultimo piano è accolto eccome. E ciò perché sbaglia la Corte d’appello a ritenere che basti il taglio delle travi del tetto per integrare la violazione della norma ex articolo 1102 Cc sull’uso della cosa comune. Al centro del mirino del vicino che adisce per primo il giudice finisce la bussola in vetro posta a copertura del collegamento fra l’appartamento e il solaio. Ma un’analoga struttura sul tetto già c’è: quella che garantisce l’accesso condominiale. E in ogni caso il proprietario dell’ultimo piano può trasformare il tetto comune dell’edificio in terrazza di proprio uso esclusivo a patto che sia mantenuta la destinazione principale del bene, laddove la modifica non risulta di portata significativa. Il solo taglio delle travi non può dunque determinare l’alterazione della cosa comune che ne impedisce l’uso ex articolo 1102 Cc. Parola al giudice del rinvio, che dovrà verificare se la bussola in vetro realizzata sul lastrico solare non priva gli altri condomini della reale possibilità di utilizzare il solaio

Trasformazione del balcone in veranda

Per ampliare il balcone trasformandolo a veranda, bisogna rispettare lr regole circa l’uso delle parti comuni. E’ quanto afferma la Suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 28 febbraio 2017 n. 5196) nel giudizio di legittimità al termine di una vicenda processuale nata in terra siciliana: un condomino provvede ad ampliare il proprio balcone e a trasformarlo in veranda, con chiusura sui tre lati, con ciò occupando in maniera significativa la colonna d’aria soprastante una chiostrina a servizio dell’unità immobiliare sottostante.

in primo grado il Tribunale di Palermo aveva ritenuto sussistente unicamente la violazione delle norme sulle distanze e ordinato la rimozione degli spuntoni di appoggio del balcone, che aggettavano sulla chiostrina.

La Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, introduce il concetto di utilizzo non consentito della facciata dell’edificio ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ordinando tuttavia la sola demolizione della veranda, ritenendo che l’attore – pur avendo lamentato anche l’ampliamento del balcone – avesse concluso solo per tale richiesta.

La Cassazione conferma la lettura del giudice di appello “ Il consolidato orientamento di questa Corte (ribadito anche con riguardo ad ipotesi analoghe a quella per cui è causa, nella quale, per quanto in specie accertato, un condomino ha trasformato il proprio balcone in veranda, altresì debordando dal suo perimetro originario) afferma che, allorché il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere nella sua proprietà esclusiva facendo uso di beni comuni, indipendentemente dall’applicabilità delle norme sulle distanze nei rapporti tra le singole proprietà di un edificio condominiale, è comunque necessario verificare che il condomino stesso abbia utilizzato le parti comuni dell’immobile nei limiti consentiti dall’art. 1102 c.c. (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10563 del 02/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4844 del 04/08/1988; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 682 del 28/01/1984)”

Il giudice territoriale aveva accertato, tramite consulenza tecnica, che l’ampliamento del balcone, la costruzione della veranda e il mancato rispetto dell’allineamento con gli altri balconi avevano cagionato una riduzione spazio sovrastante la chiostrina nella misura dell’8,1 % e che “ciò ha comportato un danno per la funzionalità della chiostrina come essenziale dispositivo di aerazione ed illuminazione dei locali ad essa prospicienti”

Osserva la Corte che il giudice di appello, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, “nell’accogliere la domanda di riduzione in pristino della veranda dal balcone di proprietà esclusiva, ha affermato che le opere denunciate, in violazione dell’art. 1102 c.c., comportassero proprio una sensibile riduzione all’ingresso di luce ed aria nella proprietà inferiore G. conseguibile dalla facciata esterna comune dell’edificio (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10704 del 14/12/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1132 del 11/02/1985).”

La Suprema Corte ritiene anche che la domanda dell’attore riguardi l’intero manufatto realizzato e non solo il balcone: “Deve, al contrario, ritenersi che, come allega il ricorso incidentale, avendo il G. espressamente dedotto l’illegittimità dell’aumento di superficie del balcone realizzato dalla controparte e comunque richiesto il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione altresì di tale opera era da intendersi contenuta in modo implicito in detta domanda di riduzione in pristino, trovandosi con essa in rapporto di necessaria connessione”

La sentenza di merito è cassata e il processo rinviato ad altra sezione della corte di Palermo, che dovrà attenersi ai principi esposti.

Tabelle millesimali da modificare e non da rifare

Le tabelle millesimali quando vanno cambiate per modificazioni intervenute nel fabbricato? Anzitutto importante chiarire che il testo dell’articolo 69 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile premette al primo capoverso che i millesimi condominiali possono essere rettificati all’unanimità; ma anche che possono essere modificati o rettificati dall’assemblea condominiale con la maggioranza prevista dall’articolo1136, comma 2, del Codice civile quando risulta che: 1) sono conseguenza di un errore; 2) sono mutate le condizioni dell’edificio per più di un quinto (tassativamente solo per avvenute sopraelevazioni, incremento di superfici, o incremento o diminuzione di unità immobiliari).

C’è chi pensa che a fronte della necessità di intervenire con una variazione delle tabelle, la metodologia non potesse essere altra che quella di elaborare integralmente nuove tabelle ex novo. Nulla di più sbagliato: «rettificare o modificare» i millesimi non può affatto significare «rifare» le tabelle, dimenticando ed annullando totalmente i criteri con cui siano state redatte le precedenti tabelle. Altro errore è quello di ricalcolare i valori delle unità immobiliari (specialmente esercizi commerciali) sulla base di intervenute modificazioni dei loro valori immobiliari perché, al di là di ogni possibile e ragionevole interpretazione, le condizioni poste dall’articolo 69 richiamato non ricomprendono affatto una simile fattispecie.

In questo senso possono leggersi due interessanti decisione: una della Corte di Cassazione (n.3001/2010) e l’altra del Tribunale di Milano (n.8416 /2015) . La prima ha precisato che «non comportano la revisione o la modifica di tali tabelle né gli errori nella determinazione del valore, che non siano indotti da quelli sugli elementi necessari al suo calcolo, né i mutamenti successivi dei criteri di stima della proprietà immobiliare, pur se abbiano determinato una rivalutazione disomogenea delle singole unità dell’edificio o alterato, comunque,il rapporto originario fra il valore delle singole unità e tra queste e l’edificio», mentre la seconda, disponendo la «revisione delle tabelle millesimali di proprietà e delle tabelle di gestione in quanto le tabelle di proprietà vi influiscano», ha espressamente previsto che siano «tenuti comunque fermi i criteri convenzionali ricavabili dalle tabelle in uso».

Il meccanismo di adeguamento è peraltro semplicissimo, e consiste nel calcolare i nuovi valori (ai fini del calcolo delle tabelle millesimali) delle sole unità variate, secondo i criteri già adottati, aggiungerli ai precedenti valori e rapportare il tutto nuovamente a 1000 con una elementare operazione di proporzione.

La ceck list per la precompilata (da “Il Quotidiano del Condominio”)

La precompilata in condominio va ai supplementari: oggi, però, è l’ultimo giorno in cui gli amministratori di condominio possono inviare le comunicazioni dei dati all’Agenzia delle Entrate relativamente agli interventi di recupero edilizi e risparmio energetico, le cui spese sono detraibili al 50 per cento. Ma è con la mezzanotte di domenica 12 marzo che i giochi finiranno davvero. Sino ad allora sarà possibile correggere le comunicazioni inviate senza che la sanzione sia applicabile. Allo stesso modo ci si salva con la riduzione ad un terzo, se la segnalazione da parte dell’AdE perverrà entro i cinque giorni successivi alla stessa ma comunque entro sessanta giorni (6 maggio 2017).

Check list prima dell’invio

La sanzione scatta quest’anno solo «nei casi di lieve tardività o di errata trasmissione dei dati stessi, se l’errore non determina un’indebita fruizione di detrazioni o deduzioni». Ciò significa che l’errore può riguardare l’individuazione del beneficiario, la detraibilità, l’ammontare della spesa. Gli ultimi dubbi notturni degli amministratori di condominio possono quindi riguardare ciascuna di queste tre situazioni d’errore.

Chi è il Beneficiario

La sorgente dei dati è stato per (quasi) tutti il Rac – registro di anagrafe condominiale – che è composto però da dichiarazioni rese dai condòmini. Solo se queste fossero state assenti si è provveduto con la consultazione dei dati catastali. Ma il catasto, dove non è in vigore il sistema tavolare, può riportare situazioni non corrispondenti alla realtà. Ma è una missione impossibile, l’accertamento presso le Conservatorie, nei tempi ridotti del primo anno “sperimentale”.

Di qui le preoccupazioni sull’imputazione delle spese a coloro che apparentemente sono proprietari ma potrebbero poi non esserlo davvero. Ben più difficili gli accertamenti relativi agli altri diritti reali (nuda proprietà, usufrutto, uso e abitazione) e di godimento (locazione e comodato).

l’Agenzia delle Entrate ha autorizzato l’amministratore a non inviare i dati di questi soggetti non proprietariu né titolari di diritti reali, se non reperibili. Quindi, solo in caso di indicazione dal condòmino di un beneficiario diverso dal proprietario o titolare di diritti reali l’amministratore lo indica e contrassegna il campo «Altre tipologie di soggetti». In caso di dati mancanti, sarà questo”beneficiario” non condòmino a correggere la propria precompilata.

Quanto mi costi

L’esatta attribuzione dell’ammontare della spesa deve essere determinata non in base alla semplice ripartizione dell’ammontare pagato dall’amministratore con il bonifico parlante ma previa verifica dell’avvenuto pagamento del condòmino al condominio (si veda il Sole 24 ore del 19, 27 e 28 febbraio scorso).

Solo se l’amministratore ha potuto “anticipare” il pagamento, magari relativamente esiguo, da altri fondi, va contrassegnato il campo “pagamento non interamente corrisposto al 31/12”. Il campo è stato contrassegnato anche nel caso “di default” in cui il condòmino non abbia pagato nell’anno e possa l’anno successivo, a fronte del bonifico dell’amministratore, ottenere il beneficio. Anche un errore nella ripartizione delle spese può comportare la necessità della correzione negli ultimi cinque giorni.

L’anno che verrà

All’operazione precompilata segue l’invio delle normali certificazioni degli amministratori ai condòmini che potranno rispecchiarne il contenuto ma anche correggerlo, con la possibilità di essere sottoposti alla sanzione nel caso di avvenuto errore. Il software messo a disposizione dall’Agenzia delle Entrate è stato di gran lunga il più utilizzato anche perché gli aggiornamenti dei gestionali sono stati rilasciati troppo vicino alla scadenza.

Se la precompilata 2017 è al giro di boa le certificazioni fanno intravedere quello che sarà lo scenario dell’anno che verrà in cui tutti gli errori saranno sanzionati. Individuare i rimedi sarà l’obiettivo dei prossimi mesi perché altrimenti le sanzioni applicate alla complessità dei rapporti condominiali potranno diventare davvero rilevanti. La ricerca completa dei dati, con accesso alle conservatorie, coi costi a carico dei proprietari, l’obiettivo in agenda per rendere possibile che le variazioni di proprietà intervenute sino al 31 dicembre possano essere tutte già inserite nelle trasmissioni del 28 febbraio 2018.

La «certificazione» ai condòmini

In questo contesto non va scordata la certificazione da inviare ai condòmini con i dati esatti: occorrerà avvisarli che in molti casi dovranno correggere la loro «precompilata» (730 o Redditi – ex Unico) in base ai loro effettivi versamenti, soprattutto quando questi siano stati fatti da non condòmini (come conviventi o inquilini) Due fac simile pronti all’uso sono reperibili cliccando qui per i lavori di recupero edilizio e qui per quelli di risparmio energetico .

Il costruttore non può imporre per regolamento limiti sulle parti comuni

Nella sentenza numero 5336 del 2 marzo 2017 la Corte di Cassazione esprime alcuni importanti principi in materia di diritto condominiale e in particolare in tema di regolamento condominiale e di parti comuni.

La vicenda viene posta all’attenzione della Suprema Corte tramite il ricorso presentato da alcuni condomini i quali, impugnando una sentenza della Corte d’Appello che li aveva visti soccombenti, lamentava diverse condotte poste in essere da altri condomini.

Nella doppia veste di venditori dell’immobile e di condomini, infatti, le controparti avrebbero a detta dei ricorrenti posto in essere svariati comportamenti degni di censura.

In particolare queste condotte, espresse in quattro motivi di ricorso, erano raggruppabili in due categorie: in prima battuta i ricorrenti lamentavano come le controparti non avessero provveduto a redigere il regolamento di condominio e non avessero “individuato, chiarito e concesso agli attori di utilizzare le parti comuni in quota proporzionale, come stabilito nei rogiti”.

In secondo luogo, i ricorrenti lamentavano come le controparti avessero, in seguito alla vendita dell’appartamento, provveduto a realizzare delle opere sulle parti comuni, ledendo il loro diritto di godimento.

La Corte di Cassazione, nel pronunciare la sentenza, tratta singolarmente le questioni.

Con riguardo alla prima doglianza, la Cassazione rigetta il ricorso proposto.

In particolare secondo i giudici i ricorrenti avevano chiesto di condannare i venditori degli immobili per non avere rispettato l’obbligo di redigere il regolamento di condominio, mentre in sede di appello avevano domandato la loro condanna per non avere individuato chiarito e concesso agli attori il diritto di utilizzare le parti comuni.

La domanda effettuata in grado di appello era considerata nuova e quindi, ai sensi dell’articolo 345 del Codice di Procedura Civile, questa veniva dichiarata inammissibile.

La Cassazione specificava inoltre il principio in ragione del quale “l’obbligo del venditore di un’unità immobiliare, compresa in un condominio edilizio, di individuare e concedere al compratore l’utilizzazione delle parti comuni dell’edificio non discende affatto dall’assunzione di un apposito ed autonomo vincolo negoziale, avendo piuttosto i singoli condomini di un edificio il diritto di utilizzare direttamente, per il miglior godimento della porzione di loro proprietà esclusiva, tutte quelle parti del fabbricato che, per la loro destinazione ad un uso comune, si presumono di proprietà condominiale a norma dell’articolo 1117 c.c.”.

Per quanto riguarda la seconda parte del ricorso, invece, la Cassazione accoglieva le argomentazioni dei ricorrenti.

Nullo il divieto da regolamento ma chi si stacca dall’impianto paga pro quota la dispersione al 25% (sentenza 18748/16 – Tribunale Civile di Roma)

È la riforma che consente di lasciare il sistema centralizzato senza autorizzazione dell’assemblea. In base alla norma Uni 10200 consumi involontari anche a carico del condomino termoautonomo

Grazie alla riforma il regolamento non può vietare al singolo condomino di staccarsi dal riscaldamento centralizzato senza autorizzazione dell’assemblea, se non crea squilibri al sistema. Ma il singolo proprietario esclusivo che diventa termoautonomo deve continuare pagare pro quota non soltanto le spese di conservazione dell’impianto ma anche i relativi consumi involontari rilevati lungo la rete di distribuzione, in applicazione della norma Uni 10200/2013 sulla ripartizione degli esborsi: la quota è il 25 per cento stimato dal consulente tecnico d’ufficio da suddividere fra tutti i condomini sulla base delle tabelle millesimali. È quanto emerge dalla sentenza 18748/16, pubblicata dalla quinta sezione civile del tribunale di Roma (giudice Claudia Pedrelli).

Menomazione esclusa
Accolto il ricorso di due proprietari esclusivi: sono annullati il bilancio preventivo e i relativi piani di riparto a suo tempo approvati dall’assemblea perché imputano spese non dovute dai condomini che hanno lasciato l’impianto comune. È nullo il regolamento nella parte in cui prevede l’unanimità dei condomini per l’autorizzazione al distacco dal riscaldamento centralizzato: l’articolo 1118, comma 4, Cc impedisce infatti di menomare i diritti di ciascun proprietario esclusivo, entro i quali va ricompresa la facoltà di conquistare l’indipendenza termica per il proprio appartamento. La norma è stata introdotta dalla legge 220/12 e risulta successiva all’instaurazione del giudizio ma viene applicata ugualmente perché, spiega il giudice, la riforma del condominio si limita recepire la giurisprudenza di legittimità sul punto.

Quoziente e tabelle
Decisiva la ctu che conferma come il distacco non determini inconvenienti agli altri condomini: riduce solo pro quota le spese sostenute per l’energia termica. Ma bisogna tenere conto anche della dispersione stimata nella distribuzione del calore che va messa a carico anche del proprietario esclusivo che si è affrancato dall’impianto comune: paga un contributo calcolato sul 25 per cento delle spese per l’acquisto del gas metano che fa funzionare la caldaia, quoziente che poi è ripartito sulla base delle tabelle millesimali fra tutti i condomini, compresi coloro che non utilizzano più l’impianto centralizzato. Intanto i due proprietari esclusivi ottengono dall’ente di gestione il rimborso delle somme versate in eccesso. Scatta la rifusione delle spese di lite in favore del loro procuratore dichiaratosi antistatario.

Cadono pezzi dalla facciata condominiale, chi paga se qualcuno si fa male?

La responsabilità per i danni a cose e persone è del condominio, salvo eventi di forza maggiore

Partiamo dal caso ipotetico che la facciata di un condominio abbia  un cornicione pericolante che rischia di cadere sui passanti o sulle automobili parcheggiate in cortile. Nonostante il rischio sia stato segnalato in più occasioni dai condòmini, l’assemblea non ha mai risolto il problema per la mancanza  del numero legale necessario per riunirsi e  decidere.

I condomìni, a questo punto, decidono di porre all’attenzione dell’amministratore  la situazione di rischio, sollecitandolo ad  intervenire pur se manca l’autorizzazione dell’assemblea. L’invito ad agire prontamente rimane, tuttavia,  inascoltato poiché anche l’amministratore prende tempo. In queste circostanze, cosa stabilisce la legge?

Secondo l’art. 1135 comma 4  Codice civile  l’amministratore può, in casi di urgenza, ordinare lavori  di manutenzione straordinaria anche senza l’approvazione dell’assemblea.

In generale, sull’amministratore grava il dovere di attivarsi per eliminare le situazioni di pericolo a prescindere dall’autorizzazione deliberata dall’assemblea condominiale. Dopo aver iniziato i lavori, egli è obbligato a comunicarlo durante la prima assemblea utile.

Se l’amministratore, nonostante la grave situazione di rischio, non provvede ad avviare i lavori, dovrà risarcire in prima persona i danni procurati ai terzi e di cui abbia dovuto rispondere il condominio a causa della sua inerzia. Insomma, qualora la persona danneggiata domandi il risarcimento al condominio, l’assemblea potrà decidere di rifarsi sull’amministratore. Ma non solo. L’assemblea, a causa dello  scarso impegno mostrato nello svolgimento dei propri doveri, può revocargli  il mandato.

Occorre sottolineare che, alla luce di quanto detto, l’amministratore non può disconoscere la sua colpa giustificandosi con il fatto di  non aver avviato i lavori poiché mancava la preliminare autorizzazione dell’assemblea.

Per quanto riguarda il condominio, esso è responsabile per i danni cagionati a terzi, cose e persone, dalla caduta di frammenti di cemento dal cornicione o di vernice dalla facciata.  Nel caso in cui il crollo in questione è scatenato, invece, da eventi non prevedibili ed evitabili, quale ad esempio una scossa di terremoto, il condominio può esonerarsi dalla suddetta responsabilità.

Il risarcimento del danno è a carico del condominio e pagare saranno tutti i condòmini in proporzione ai rispettivi millesimi. Come già detto, può rivalersi sull’amministratore rimasto inoperoso nonostante gli inviti a effettuare gli interventi di manutenzione urgenti.

Nel caso di inattività dell’amministratore e dell’assemblea, ogni singolo condòmino può rivolgersi al tribunale affinché il giudice, vagliato il carattere di urgenza, decreti l’esecuzione delle opere di manutenzione straordinaria e indifferibile. La decisione del giudice va oltre la volontà dell’assemblea ed è un valido titolo per provvedere alla messa in sicurezza della facciata condominiale.

Comunicazione alle Entrate, dagli amministratori i dati dei soli condòmini

Rimedio in arrivo per gli amministratori, alle prese con la comunicazione all’Agenzia delle entrate dei dati dei condòmini cui spetta la detrazione per i lavori di recupero o risparmio energetico sulle parti comuni. L’Agenzia potrebbe snellire le «specifiche tecniche» eliminando le richieste più assurde. Sarebbe opportuna una revisione ed una proroga. Gli amministratori, quindi, anche se mancano pochi giorni, potrebbero sospendere momentaneamente gli invii con dati di cui non siano sicuri sino all’annunciata revisione (sempre che arrivi entro il 28 febbraio).

I problemi maggiori, dopo che il Sole 24 Ore e le Entrate hanno chiarito a Telefisco 2017 i dubbi su come indicare i morosi nella comunicazione, sono emersi da un’interpretazione piuttosto estensiva dell’Agenzia stessa sull’articolo 2 del Dm del 1° dicembre 2016, che stabilisce: «(…) gli amministratori di condominio trasmettono in via telematica all’Agenzia delle entrate, entro il 28 febbraio di ciascun anno, una comunicazione contenente i dati relativi alle spese sostenute nell’anno precedente dal condominio con riferimento agli interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica effettuati sulle parti comuni di edifici residenziali, (…). Nella comunicazione devono essere indicate le quote di spesa imputate ai singoli condòmini».

Lo stesso articolo 1 del provvedimento dell’Agenzia del 27 gennaio 2017 dispone: «(…) gli amministratori comunicano la tipologia e l’importo complessivo di ogni intervento, le quote di spesa attribuite ai singoli condòmini nell’ambito di ciascuna unità immobiliare».

I problemi, nascono dal modo in sono state predisposte le specifiche tecniche allegate al provvedimento dell’Agenzia. Nella sezione («Dati del soggetto al quale è stata attribuita la spesa»), infatti, non si è rispettata l’indicazione del decreto e, invece di farsi riferimento ai soli condòmini e alle quote di spesa agli stessi attribuite, si è introdotto – attraverso il campo «Tipologia del soggetto al quale è stata attribuita la spesa» – il riferimento ad altri soggetti (quali i locatari, i comodatari, i familiari conviventi ,eccetera), chiedendo di indicare il relativo codice fiscale.

L’agenzia avrebbe dovuto dovrebbe riflettere sull’impossibilità di ingabbiare la multiforme realtà condominiale nei suoi schemi e rassegnarsi a restare nel perimetro di quanto era stato indicato nel Dm, cioè ottenere i dati dei soli «condòmini», quindi dei soli titolari di diritti reali. Invece, nella pretesa utopica di presentare ai contribuenti una precompilata perfetta, l’amministratore è stato chiamato a raccogliere un’infinità di dati di cui non è in possesso (e che neppure sono previsti nell’anagrafe condominiale istituita dalla legge 220/2012), oltretutto in tempi ridottissimi. Sinora, invece, l’amministratore si limitava a fornire ai singoli condòmini la quota spettante e pagata, dopo di che questa poteva essere suddivisa tra i vari aventi diritto (inquilini, conviventi, comodatari) a loro stessa cura nelle loro dichiarazioni dei redditi. E il sistema ha sempre funzionato.

È chiaro, quindi, che le nuove regole delle Entrate hanno reso la comunicazione corretta impossibile, al di fuori dei casi più semplici, con il rischio della sanzione di 100 euro. Gli amministratori potrebbero quindi indicare solo i dati di chi risulta effettivamente «condòmino», eliminando così una buona parte dei possibili errori nella comunicazione. Anche se poi moltissimi «aventi diritto» dovranno controllare la loro precompilata e correggerla in base alle spese da loro effettivamente sostenute.

Considerando che mancano però solo 9 giorni alla scadenza, siamo tutti contrari ad un’operazione che non si attaglia alla realtà dei condomìni italiani e che una cosa opportuna da fare sarebbe rinviarne di un anno l’operatività o, almeno, sospendere l’applicazione delle sanzioni.

Contabilità in disordine, il compenso non spetta all’amministratore

La prova del compenso dell’amministratore deve essere fornita anche mediante l’esibizione della contabilita’ condominiale. La Corte di Cassazione puntualizza, con la sentenza numero 3892 del 14 febbraio 2017 , alcuni principi in materia di amministrazione condominiale e di retribuzione dell’amministratore di condominio.

In particolare, la vicenda in commento principia quando un amministratore condominiale al termine del proprio mandato domanda allo stabile il saldo delle proprie spettanze.

Al rifiuto del condominio, l’amministratore risponde ricorrendo alle sedi giudiziali competenti.

La domanda di pagamento degli emolumenti viene rigettata sia in primo grado che in grado di appello, ove il giudice afferma che “dalla espletata ctu era risultata la mancanza di un giornale di contabilità che avesse registrato cronologicamente le operazioni riguardanti il condominio, onde non era possibile ricostruire l’andamento delle uscite e dei pagamenti effettuati”.

L’amministratore, quindi, ricorreva in Cassazione, domandando la revisione della predetta sentenza di merito.

La Cassazione, tuttavia, si associava alle considerazioni mosse dalla Corte d’Appello e specificava come nei doveri dell’amministratore vi sia quello di tenere una corretta contabilità condominiale.

Tale contabilità deve essere tenuta mediante la redazione da parte dell’amministratore di rendiconti periodici e del giornale di cassa.

In particolare, sottolinea la Suprema Corte la contabilità condominiale deve essere tenuta in modo preciso e regolare, di modo tale da consentire ai condomini di verificare le uscite, le entrate e la ripartizione delle spese.

Nel caso in oggetto, quindi, viene specificato che la mancata tenuta della regolare contabilità non costituisce necessariamente un danno per il condominio, tuttavia questa fa parte dei doveri dell’amministratore e quindi può comportare il mancato riconoscimento degli emolumenti dell’amministratore qualora questi non possa dare prova del mancato pagamento degli stessi.

Per quanto riguarda gli onorari dell’amministratore, infatti, l’avere mancato di tenere una precisa e regolare contabilità non consente di fornire la prova della spettanza degli onorari e comporta un possibile esito negativo in giudizio.

Nel caso in commento, inoltre, l’amministratore aveva omesso di ottenere le delibere dei rendiconti da parte dei condomini ai sensi dell’articolo 1130 bis del Codice Civile i quali , qualora approvati, avrebbero rappresentato un vero e proprio riconoscimento di debito in favore dell’amministratore.

Si può quindi concludere che la prova del credito dell’amministratore può essere provata solamente tramite una corretta documentazione dell’”ammontare complessivo dei versamenti effettuati dai condomini e dalle uscite per spese condominiali, con relativi documenti giustificativi”.

Al fine di vedersi riconoscere i propri emolumenti quindi, l’amministratore deve avere cura di tenere una contabilità precisa e aggiornata e ottenere periodicamente l’approvazione dei rendiconti come previsto dagli articoli 1130 e 1130 bis del Codice Civile.

Mini proroga per la precompilata

Le correzioni alle «specifiche tecniche» della comunicazione da inviare entro il 28 febbraio (con i dati dei condòmini che beneficiano della detrazione Irpef per lavori sulle parti comuni) si faranno. Parola del vice ministro dell’Economia Luigi Casero, interpellato ieri a Milano dal Sole 24 Ore, che ha confermato quanto scritto il 19 febbraio sul giornale: «L’input per correggere le specifiche tecniche è stato dato, e non è esclusa neppure una piccola proroga».

Quindi la semplificazione chiesta da Confedilizia per l’adempimento a carico degli amministratori condominiali sta per essere recepita dall’Agenzia delle Entrate ma i giorni che mancano alla scadenza sono davvero pochi: in questo contesto, quindi, una breve proroga che non impedisca all’Agenzia di recepire i dati provenienti dagli amministratori (valutabili in parecchie decine se non alcune centinaia di migliaia) in modo da poterli inserire nella dichiarazione dei redditi «precompilata» (modello 730 o Redditi) che i contribuenti dovrebbero avere a disposizione tra un paio di mesi, il 15 aprile 2017, per poi procedere alla consegna entro il 24 luglio 2017.

È quindi ragionevole pensare che la proroga non possa essere decisa per un a data lontana, come il 30 giugno (questo il nuovo termine chiesto da Anaci in una lettera al ministro dell’Economia Carlo Padoan), ma un differimento si renderebbe davvero indispensabile per permettere agli amministratori condominiali di rivedere le comunicazioni in giacenza e quelle ancora da fare alla luce della promessa semplificazione.

Il vero problema, infatti è il modo in sono state predisposte le specifiche tecniche allegate al provvedimento dell’Agenzia, dove sono indicati i dati da inserire nella comunicazione . Confedilizia ha fatto presente che invece di fare riferimento ai soli condòmini e alle quote di spesa agli stessi attribuite, vengono nominati altri soggetti(inquilini, comodatari, familiari conviventi, eccetera). In sostanza, chi ha predisposto le «specifiche tecniche» è andato oltre quanto indicato nel Dm del 1° dicembre 2017 ma anche oltre a quanto indicato nel provvedimento del 27 gennaio della stessa Agenzia, dove si parla dei soli «condòmini», quindi dei soli titolari di diritti reali. Dl resto, sinora, l’amministratore si limitava a fornire ai singoli condòmini la quota spettante e pagata, dopo di che questa poteva essere suddivisa tra i vari aventi diritto (inquilini, conviventi, comodatari) a loro stessa cura nelle loro dichiarazioni dei redditi. E il sistema ha sempre funzionato.