Valido per la formazione periodica DM 140/14-2024
18 maggio 2024 – ore 9 – CIRCOLO UFFICIALI PALERMO
P.zza Sant’Oliva, 25

Partendo innanzitutto dall’analizzare le cause dell’incendio dell’auto. Se le fiamme sono di natura dolosa, le responsabilità ricadono sull’autore del gesto e tocca a lui risarcire i danni, ammesso che venga individuato. In caso contrario il condominio è tutelato dall’assicurazione contro gli incendi, sperando che ne abbia una (come dovrebbe essere da prassi). Se invece le fiamme si sono propagate spontaneamente per un corto circuito o motivi simili, entra in ballo il proprietario dell’auto come del resto dispone l’art. 2054 c.c., secondo cui “il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”.
Tuttavia occorre fare subito una distinzione tra auto in sosta in un’area pubblica, come potrebbe essere un marciapiede attiguo al condominio, e auto in sosta in un’area privata, ad esempio il cortile condominiale. Nel primo caso, poiché sono considerati in circolazione anche i veicoli in sosta su strade di uso pubblico o su aree a queste equiparate, i danni sono coperti dalla RCA del proprietario dell’auto (salvo, come abbiamo visto, che l’incendio sia scaturito per fatto doloso di un terzo o per caso fortuito, che non sono eventi derivanti dalla circolazione stradale). Di conseguenza nell’altro caso, ossia quando quando l’incendio spontaneo si verifica all’interno di un cortile condominiale privato danneggiando la facciata dell’edificio, si dovrebbe escludere l’operatività della copertura RC auto, mancando il presupposto della circolazione in area pubblica, riconducendo quindi la responsabilità interamente a carico del proprietario dell’auto.
Abbiamo opportunamente usato il condizionale perché di recente il concetto di circolazione e la sua estensibilità alle aree private è stato messo in discussione da un paio di decisioni riguardanti la normativa comunitaria in materia di RC auto. In particolare in una delle due, e all’epoca ne abbiamo parlato anche noi di SicurAUTO.it, l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia UE, riferendosi a una causa avente come oggetto l’incendio di una vettura in sosta all’interno di un garage privato che aveva cagionato danni all’abitazione di cui l’autorimessa faceva parte, ha precisato che in base alla disciplina europea il concetto di circolazione comprende qualsiasi uso del veicolo in linea con la funzione abituale dello stesso, a prescindere dal luogo in cui si trova. E quindi devono considerarsi coperte dall’assicurazione obbligatoria RC auto anche quelle situazioni in cui un veicolo staziona in un’area privata adibita a parcheggio.
Alla luce di ciò, nell’ipotesi di danni al condominio causati da un’auto incendiata, chi paga è l’assicurazione RCA del veicolo. E che sia parcheggiata su suolo pubblico o privato non fa differenza. Con esclusione, ovviamente, degli incendi avvenuti per fatto doloso di un terzo o per caso fortuito.
Secondo una pronuncia della Corte d’Appello di Milano – che ha confermato la sentenza di primo grado – un condominio è tenuto al risarcimento dei danni patiti da un passante caduto su una lastra di ghiaccio presente sul marciapiede antistante l’ingresso condominiale. I giudici milanesi, però, non hanno affermato che i condomini sono custodi del marciapiede ma si sono limitati a considerare che, secondo il regolamento di Polizia Urbana i condomini erano tenuti a provvedere alla pulizia dei marciapiedi. Del resto – come sottolineano i giudici milanesi – nel mansionario della Portineria del condominio si precisava che giornalmente il portiere avrebbe dovuto provvedere alla pulizia del marciapiede, mentre durante le nevicate avrebbe dovuto sgomberare la neve dallo stesso, spargendo il sale, come da regolamento comunale (App. Milano 10 gennaio 2020 n. 73). In altre parole, la Corte d’Appello sembra basarsi sulle disposizioni del regolamento comunale che (discutibilmente) hanno imposto obblighi ai condomini su uno spazio pubblico.
Secondo il Tribunale di Torino, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 14 C.d.S., della pulizia del marciapiede, quale pertinenza della strada, deve occuparsi l’ente pubblico proprietario di quest’ultima. Conseguentemente, dei danni derivati da una caduta provocata dalla presenza di ghiaccio sul marciapiede antistante un edificio condominiale, non può esserne chiamato a risponderne ex art. 2051 c.c. il condominio frontista, in assenza di prova a carico dello stesso circa la qualità di custode o la sussistenza di obblighi di natura manutentiva o di gestione svincolati dalla titolarità del bene (Trib. Torino 5 dicembre 2012). Nel caso di specie, un passante era scivolato a causa della neve accumulatasi sul marciapiede. Successivamente si rivolgeva al Tribunale per richiedere al caseggiato antistante un risarcimento; secondo l’attore il marciapiede era di proprietà dei condomini e, quindi, gli stessi erano obbligati a spargere del sale sul camminamento davanti al palazzo.
Il condominio, però, contestava la propria legittimazione a stare in giudizio, rilevando come il marciapiede, in quanto parte della strada, appartenesse al demanio comunale. Di conseguenza, per i condomini, a prescindere da eventuali ordinanze comunali di senso contrario, era lo stesso Comune a doversi occupare della manutenzione della carreggiata, compreso lo spargimento di sale in periodo invernale. Queste considerazioni sono state pienamente condivise dal giudice torinese. In ogni caso – più recentemente – si è ribadito che gli obblighi di manutenzione dell’ente pubblico proprietario di una strada aperta al pubblico transito, al fine di evitare l’esistenza di pericoli occulti, si estendono ai marciapiedi laterali, i quali fanno parte della struttura della strada, essendo destinati al transito dei pedoni; di conseguenza si è precisato che del danno cagionato da buche sussistenti sul marciapiede non risponde il condominio dell’antistante stabile, il quale non è pertanto passivamente legittimato nel giudizio promosso ai fini del relativo risarcimento (Trib. Catania 3 marzo 2020, n.850).
Merita di essere ricordato che secondo una recente sentenza della Cassazione penale, in linea generale, i condomini non hanno, in mancanza di una convenzione con il Comune, l’obbligo di manutenzione del suolo pubblico. Due condomini, però, sono stati condannati per il reato di lesioni colpose commesse ai danni di una passante che, transitando sul marciapiede pubblico, era caduta inciampando su un rialzo realizzato dagli stessi. Il problema era che i condomini avevano eseguito dei lavori di manutenzione dei loro box, siti al piano sottostante; in particolare avevano aggiunto, al piano stradale, cemento dello stesso colore della pavimentazione che determinava un pericoloso dislivello di 3 cm. Secondo i giudici supremi era quindi irrilevante che l’assemblea del condominio (che non era tenuto alla manutenzione del suolo pubblico) avesse deliberato di realizzare i lavori di ristrutturazione del marciapiede e l’amministratore avesse ottenuto l’autorizzazione ad eseguire opere di ripristino del suolo pubblico, opere, però, mai eseguite (Cass. civ., sez. II, 12/08/2021, n. 32905).
La realizzazione di una tettoia sul terrazzo, poi trasformata in soggiorno e cucina, è illegittima se non rispetta i limiti dell’art. 1127 c.c. (Tribunale Velletri n. 512/2024)
I vani ricavati sul terrazzo condominiale, se violano le norme statiche e architettoniche, vanno abbattuti. Necessaria la prova che il progetto rispetti la normativa antisismica: questo è quanto stabilito dalla sentenza 4 marzo 2024, n. 512 del Tribunale di Velletri.
Un condomino, residente all’ultimo piano di un edificio, aveva inizialmente costruito una tettoia “ad elle” sul proprio terrazzo, trasformandola successivamente in due distinti vani: un soggiorno con annessa cucina e un ripostiglio.
Tali modifiche avevano portato, secondo la valutazione effettuata dal consulente tecnico d’ufficio incaricato di valutare la situazione, ad un incremento del peso sostenuto dal fabbricato, quantificato in circa 100 chili per metro quadrato.
Alla luce di tale intervento, veniva chiesta la demolizione e/o rimozione delle opere realizzate con il contestuale ripristino dei luoghi in quanto in contrasto con il regolamento condominiale e l’art. 1127 del Codice civile.
L’art 1127 del Codice civile dispone che il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano non è assoluto ma incontra alcune limitazioni. Il primo limite è che la facoltà di sopraelevazione può essere esclusa per effetto di un titolo contrario.
Il secondo limite è subordinato alla circostanza dell’idoneità statica del fabbricato a sopportare la nuova costruzione.
Infine, l’ultimo limite prescritto si concretizza nel pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio e della notevole diminuzione dell’aria e/o della luce derivanti dalla sopraelevazione.
Il caso di specie, analizzato dal Tribunale di Velletri con sentenza n. 512, del 04-03-2024, si sofferma espressamente su due limiti:
Le condizioni statiche dell’edificio rappresentano un ostacolo al sorgere ed all’esistenza stessa del diritto di soprelevazione.
Il limite delle condizioni statiche si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione.
L’accertamento di tale pericolo costituisce poi oggetto di un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Corte di Cassazione sentenza del 30 novembre 2012, n. 21491)
La stessa Cassazione precisa che la norma non fa riferimento ad un accertamento delle condizioni statiche, né ad opere di consolidamento, vietando pertanto la sopraelevazione quando la statica risulti inadeguata a sostenerla (Corte di Cassazione sentenza del 29.1.2020, n. 2000).
In un’ottica ancor più restrittiva rientra la sopraelevazione realizzata in violazione delle specifiche disposizioni dettate dalle leggi antisismiche: tale divieto va interpretato nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia inidonea a fronteggiare il rischio sismico (Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 12.2.1987, n. 1541; Corte di Cassazione sentenza del 15.11.2016, n. 23256).
In tali casi i condomini possono opporsi alle nuove opere, incompatibili con le condizioni statiche dell’edificio, a prescindere da ogni rafforzamento o consolidamento che il sopraelevante fosse disposto ad eseguire, così rafforzando la natura di limite assoluto alla stessa esistenza del diritto riconosciuto al proprietario dell’ultimo piano (Corte di Appello Napoli, 9.3.2006).
Nel caso di specie, il Tribunale di Velletri, dando per scontato che l’intervento debba essere qualificato come sopraelevazione, evidenzia come la realizzazione dei due vani abbia incrementato il peso sul fabbricato per circa 100 chili al metro quadrato (secondo quanto riportato dalla perizia).
Il Tribunale, nel valutare la condotta della parte convenuta, sottolinea l’importanza della dimostrazione della sicurezza antisismica dell’opera eseguita e dell’edificio nel suo complesso. Tale dimostrazione avviene tipicamente attraverso la presentazione di una progettazione antisismica specifica che includa un’analisi dettagliata della struttura complessiva e delle fondamenta del fabbricato.
In questo caso, però, tale prova non è stata fornita dalla parte convenuta (come evidenziato anche dalle osservazioni del Consulente Tecnico d’Ufficio).
Il Tribunale, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, pone l’accento sulla necessità di una rigorosa aderenza alle normative di sicurezza, specialmente in contesti condominiali.
L’intervento di sopraelevazione, nel caso di specie, è stato realizzato senza una corretta progettazione antisismica e senza le dovute verifiche tecniche pregiudica la sicurezza strutturale dell’edificio, violando la normativa antisismica.
La questione dell’impatto estetico e architettonico è il secondo limite richiamato dall’art. 1127 cod. civ. ed è stato oggetto di specifica attenzione da parte della giurisprudenza.
La sentenza del Tribunale di Velletri offre un’importante interpretazione in merito alla distinzione e al contempo alla relazione esistente tra la nozione di “aspetto architettonico” e quella di “decoro architettonico“, così come delineate all’articolo 1120 del Codice Civile italiano.
Il Tribunale chiarifica che, benché le due nozioni siano distinte, esse non possono essere considerate in modo completamente separato l’una dall’altra quando si tratta di interventi edificatori, in particolare le sopraelevazioni.
In realtà già la Corte di Cassazione con sentenza del 24 aprile 2013, n. 10048, aveva delineato la distinzione tra le nozioni di “decoro” e “aspetto architettonico“, sottolineando come il limite estetico sia rappresentato non dal mancato abbellimento, ma piuttosto dall’alterazione o dal pregiudizio arrecato al decoro e all’aspetto architettonico dell’edificio, precisando che l’analisi dell’impatto architettonico di una sopraelevazione debba concentrarsi sulle caratteristiche estetiche visivamente percepibili dell’edificio, considerato nella sua autonomia stilistica (Corte di Cassazione sentenza del 23 luglio 2020, n. 15675).
Di seguito riportiamo le date dei prossimi eventi e seminari di aggiornamento ARAI validi per la formazione periodica obbligatoria DM 140/14 – 2024.
ROMA: CONDOMINIO IN FIERA – 11 MAGGIO – ORE 9:30/17:30
PALERMO: CIRCOLO UFFICIALI – 18 MAGGIO – ORE 9/13
CATANIA: HOTEL PLAZA – 22 GIUGNO – ORE 9/13
Ricordiamo a tutti coloro che volessero partecipare, che la prenotazione è obbligatoria e potrà essere effettuata contattando la segreteria al numero 091 344 385 o inviando una mail a segreteria@arai.it
Secondo la legge, le deliberazioni sono obbligatorie per tutti i condòmini, anche per coloro che hanno espresso voto contrario. Ma non solo, le deliberazioni continuano a rimanere efficaci anche se sono state impugnate dai proprietari assenti, dissenzienti o astenuti, a meno che il giudice non abbia espressamente emanato un provvedimento di sospensione. Alla luce di queste premesse, che succede se un condomino non vuole partecipare a una spesa straordinaria deliberata dall’assemblea?
Ci sono casi in cui il singolo condomino può rifiutarsi legittimamente di partecipare alle spese. Vediamo quali sono:
Delibera nulla
La prima ipotesi è quella della delibera nulla, la quale è sempre totalmente priva di effetti sin dal giorno della sua emanazione, senza che intervenga un giudice ad accertarne l’invalidità. La deliberazione è nulla quando è priva dei suoi elementi essenziali, oppure quando il suo oggetto è illecito o impossibile. Si pensi, ad esempio, a una decisione assunta al di fuori dell’assemblea oppure solo oralmente: in casi del genere il condomino non potrebbe mai essere obbligato a partecipare alla spesa deliberata.
Condominio parziale
Secondo la legge, quando il condominio è costituito da più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condòmini che ne trae utilità. Si tratta dell’ipotesi del cosiddetto “condominio parziale”, che ricorre tutte le volte in cui tutte l’edificio risulti, per caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento in modo esclusivo di una parte soltanto dell’edificio in condominio, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene. Ebbene, in un condominio parziale ogni gruppo di condòmini paga le spese relative al proprio fabbricato, ripartite secondo il criterio ordinario del valore della proprietà. Ciò vale tanto per le spese ordinarie che per quelle straordinarie. Ad esempio, i condòmini che vivono nella “scala A” pagheranno le spese relative al proprio ascensore, nulla potendo pretendere da coloro che, invece, vivono nella “scala B”.
Innovazioni gravose o voluttuarie
Infine, con specifico riferimento alle innovazioni, cioè ai lavori che comportano una modifica sostanziale del bene comune tanto da mutarne la destinazione (si pensi alla trasformazione del giardino in parcheggio), la legge stabilisce che i condòmini non interessati possono rifiutarsi legittimamente di contribuire alle spese, purché l’opera:
Al ricorrere di queste condizioni, il condomino che non vuole sostenere la spesa può decidere di non prenderne parte, a patto però che non si avvantaggi dell’opera stessa.
Ad esempio, il condomino che non è interessato alla trasformazione del piazzale antistante al condominio in un parco dotato di piscina, potrà sottrarsi all’esborso purché però non acceda alla nuova opera.
In sintesi, un condomino può validamente rifiutare di contribuire alla spesa straordinaria deliberata dall’assemblea in tre occasioni, e cioè quando: la delibera è nulla, i lavori riguardano beni destinati a servire solo una parte dell’intero fabbricato (cosiddetto condominio parziale) o si tratta di innovazioni gravose o voluttuarie.
Una delibera condominiale può essere annullata quando è stata assunta violando norme di legge o di un regolamento, questo quello che stabilisce l’art. 1137, dal marzo del 205, anche secondo quanto deliberato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sent. n. 4806. Altre delibere possono, tra l’altro, anche essere considerate nulle secondo quanto previsto dall’ art. 1117 – ter. del codice civile.
Entrando nel merito dell’ impugnazione di delibere condominiali, infatti, è opportuno precisare, che è precluso all’Autorità Giudiziaria di sindacare sulle scelte operate dall’assemblea nelle delibere oggetto d’impugnazione, poiché il suo potere di intervento è limitato alla sola violazione della legge o del regolamento condominiale in quanto non è previsto dalle norme alcun riesame riguardante l’oggetto delle delibere, sulle opportunità delle decisioni e sulle ragioni che le hanno determinate. Ne consegue che Il giudice adito per risolvere una controversia relativa all’impugnazione di una delibera non può andare oltre ai vizi di annullabilità che riguardano gli aspetti formali delle procedure relative a convocazione, verbalizzazione e deliberazione e la nullità che riguarda quelle delibere che agiscono sui diritti dei singoli sulle parti comuni, o sulle parti di proprietà esclusiva. Questi principi sostenuti fermamente in sede giudiziaria, aprono di fatto la questione sull’eccesso di potere ed all’abuso del diritto.
Proviamo quindi a specificare cosa intendiamo per abuso del diritto
Quando parliamo di abuso comunemente intendiamo ogni forma anormale di esercizio di un diritto che, senza realizzare alcun interesse per il suo titolare, provoca un danno o un pericolo di danno per altri soggetti. Ci si potrebbe a questo punto domandare se si possa parlare di abuso del diritto anche in ambito condominiale e sicuramente potremmo affermare di si, almeno secondo quanto asserito sull’argomento, con una sentenza dalla Corte d’appello di Firenze in materia di abuso del diritto da parte di un condòmino, infatti, in quell’occasione i giudici fiorentini affermarono che rappresenta un abuso del diritto l’impugnazione di una delibera da parte di un condòmino non convocato correttamente, anche se presente in assemblea. (App. Firenze 19 settembre 2012 n. 1186).
Abuso del diritto e invalidazione della delibera
Secondo quanto detto sino ad ora, potrebbe sorgere spontanea una domanda, ovvero, ma se fosse l’assemblea, cioè la maggioranza deliberante ad abusare del proprio diritto, cosa accadrebbe?
Si questo tema si è espressa la giurisprudenza (Trib. Roma 17 aprile 2019 n. 8479) che si è pronunciata sull’argomento affermando che un abuso del diritto condominiale può verificarsi quando la causa della deliberazione sia deviata dalla funzione tipica.
In questi casi, i giudici, in derogando al generale divieto di sindacato dell’Autorità Giudiziaria sul merito delle delibere, possono valutare le decisioni dell’assemblea, per capire se l’esercizio del diritto è stato conforme alla legge, o se vi è stato un abuso.
In questi casi, chi ritiene una decisione un abuso del diritto può contestarlo in giudizio, ma, chiaramente, portando davanti al giudice elementi utili a dimostrare le proprie tesi.
A tale proposito merita di essere ricordato che prima della riforma non era previsto alcun obbligo di forma, la comunicazione poteva avvenire anche in forma orale, proprio in base la principio di libertà delle forme, salvo che il regolamento non prescrivesse particolari forme di notifica dell’avviso.
Inoltre, l’eventuale previsione regolamentare in ordine alle modalità di convocazione dell’assemblea, poteva essere modificata anche per facta concludentia, quindi per prassi costante seguita dagli amministratori di condominio. Dopo la riforma del condominio, l’avviso di convocazione contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno, deve essere comunicato almeno 5 giorni prima della data fissata per l’adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, indicando ora e luogo della riunione (art. 66 disp. att. c.c., comma 3). Tale modalità non cambia neppure se i condomini ricorrono all’assemblea in streaming: in tal caso però l’avviso deve contenere lo specifico strumento telematico che dovrà essere utilizzato, ossia la piattaforma elettronica sulla quale si terrà la riunione – riportando anche il link per accedervi – nonchè l’ora e la data della stessa.
La convocazione via mail
Una recente decisione ha affermato che l’articolo 66, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice civile non prevede l’e-mail semplice come mezzo di convocazione dei condomini, ma che ciò non implica che l’uso della stessa sia vietato, sempreché la ricezione della comunicazione sia garantita e, soprattutto – in caso di contestazione – possa essere provata (Trib. Tivoli, 5 aprile 2022, n. 493). Il problema nasce se in giudizio il condomino convocato afferma di non aver ricevuto alcuna rituale convocazione dell’assemblea, nelle forme di legge e il condominio, gravato del relativo onere, non riesce a fornire alcuna valida prova del contrario.
Si ricorda che l’elenco delle modalità di trasmissione indicate nell’art. 66 disp. att. c.c. è da considerarsi tassativo poiché l’avviso di lettura dell’e-mail, a differenza della PEC, non ha alcun valore legale (Trib. Genova 23 ottobre 2014 n. 3350).
Lungo questa linea di pensiero è stata dichiarata irregolare la convocazione dell’assemblea trasmessa ad un indirizzo di e-mail ordinaria e non all’indirizzo PEC espressamente indicato dal condomino all’amministratore per l’invio delle comunicazioni (Trib. Sulmona 3 dicembre 2020, n. 243). Altra decisione ha affermato che è annullabile la delibera dell’assemblea se i condomini sono stati convocati con una mail ordinaria: lo strumento, infatti, non conferisce certezza della comunicazione perché a differenza della PEC non dimostra l’effettivo recapito del messaggio al destinatario (Trib. Roma, 23 luglio 2021).Secondo una decisione di merito però qualora sia stato lo stesso condomino a chiedere di essere informato circa la convocazione dell’assemblea condominiale a mezzo di mail ordinaria, poi non può appellarsi al fatto che l’avviso non gli sia stato inviato via PEC (App. Brescia 3 gennaio 2019 n. 4).
Convocazione invalida via mail
A parte casi particolari, la convocazione via mail dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporta l’annullabilità della delibera condominiale. Si tratta di vizio formale inerente il procedimento di formazione della volontà dell’ente di gestione, costituente valido motivo di impugnazione, a prescindere da ogni ulteriore interesse del condomino che contesta la delibera. La conseguenza della qualificazione del vizio in termini di “annullabilità” comporta che, nel caso di decorrenza del termine di 30 giorni previsto dall’art. 1137 c.c. senza che sia proposta impugnazione, la delibera (in origine irregolare) non possa più essere contestata giudizialmente.
Il condomino irregolarmente convocato via mail può sempre impugnare la delibera?
L’irregolarità costituita dalla convocazione dell’assemblea a mezzo di semplice e-mail può essere eccepita, ai sensi dell’art. 66 disp. att. c.c., esclusivamente dai dissenzienti e/o dagli assenti non regolarmente convocati.
Attenzione però che l’annullabilità della delibera assembleare per mancata comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea non può essere fatta valere allorché il condomino, nei cui confronti la comunicazione è stata omessa, sia presente in assemblea, dovendosi presumere che lo stesso ne abbia avuto comunque notizia, rimanendo l’eventuale irregolarità della sua convocazione conseguentemente sanata. Allo stesso modo l’illegittima convocazione per mezzo di semplice e-mail viene sanata dalla pacifica presenza in assemblea e dalla partecipazione al voto del condomino che non contesta la detta irregolarità (Trib. Roma 12 maggio 2023 n. 7545).
Rumori durante le ristrutturazioni: quando sono reato e quando si può essere condannati penalmente.
Nel contesto condominiale, il tema dei rumori genera immancabilmente incertezze. Si può denunciare chi fa chiasso, ad esempio perché sta facendo lavori di ristrutturazione o perché la notte lascia la televisione ad alto volume? E la vicina che fa esercizi col pianoforte o quello che invece sposta i mobili proprio quando gli altri dormono?
Una recente pronuncia della Cassazione (sent. n. 7717/24) chiarisce quando, per i rumori in condomino, si è assolti dal reato di “disturbo alla quiete pubblica”. La pronuncia non fa altro che individuare la sottile linea di confine tra illecito civile e penale, Ma procediamo con ordine.
Quando i rumori molesti non comportano responsabilità penale?
Per aversi reato di disturbo alla quiete pubblica, l’articolo 659 del codice penale richiede che il rumore possa arrecare molestia a un numero indeterminato di persone e non solo a uno o a pochi vicini. Secondo la sentenza in questione, un condomino può essere assolto dalla responsabilità per i rumori generati da lavori di ristrutturazione se tali rumori disturbano esclusivamente i vicini più prossimi, senza impattare significativamente sull’intera comunità condominiale. La Corte di Cassazione ha chiarito che, affinché vi sia punibilità, è necessario che i rumori arrechino disturbo non solo agli occupanti degli appartamenti adiacenti alla fonte di emissione, ma anche a una parte considerevole dei condomini. Il fatto però che il rumore non integri il reato non significa che non possa essere punibile. Esso, se superiore alla «normale tollerabilità» costituirà un illecito civile che potrà dar vita a un giudizio per il risarcimento e per l’ottenimento di una “interdittiva” (ossia l’ordine di cessazione del rumore o di insonorizzazione dei locali).
Cosa si considera normale tollerabilità?
Come anticipato il rumore diventa reato quando arriva a un numero indeterminato di persone. Ma basta che sia semplicemente intollerabile per essere già vietato dal codice civile (art. 844 cod. civ.). Ma quando possiamo considerare che un rumore supera la “normale tollerabilità”?
La legge si riferisce unicamente a un criterio: quello geografico. In altri termini, in un contesto residenziale caratterizzato da un minore rumore di fondo, è più facile che il rumore diventi intollerabile e quindi illecito. Al contrario, in una via molto trafficata, caratterizzata dal chiasso proveniente dall’esterno del fabbricato, il rumore del vicino sarà più difficilmente distinguibile. La legge italiana non fornisce una definizione precisa di “rumore molesto”. Tuttavia, la Cassazione ha stabilito che il rumore è considerato molesto se supera la normale tollerabilità, avuto riguardo:
alla natura del rumore: rumori occasionali e di breve durata sono generalmente tollerati, mentre quelli continui e persistenti non lo sono;
all’orario in cui il rumore si verifica: la legge prevede fasce orarie di silenzio durante le quali i rumori devono essere contenuti;
alla zona in cui si trova il condominio: in zone rurali la tollerabilità è maggiore rispetto a zone urbane;
alla intensità.
Poiché i criteri appena indicati risultano molto generici, i giudici hanno provato a darsi un criterio empirico per valutare la tollerabilità dei rumori in decibel (dB). Le sentenze così prevedono dei limiti di emissione sonora differenziati per le diverse fasce orarie:
se si superano di oltre 5 decibel i rumori di fondo dalle 06:00 del mattino alle 22:00 o di oltre 3 decibel nelle ore notturne, il rumore si considera illegale;
se invece si rimane al di sotto di tali soglie di decibel, si rispettano i limiti di tollerabilità e quindi il rumore deve considerarsi consentito. Inviare una lettera di diffida al condomino responsabile dei rumori.
È rilevante il rispetto delle fasce orarie?
Un aspetto interessante emerso dalla sentenza è che il rispetto delle fasce orarie eventualmente (ma non obbligatoriamente) stabilite dal regolamento condominiale non è determinante ai fini della responsabilità penale ma solo civile. Ciò significa che, anche se i lavori vengono effettuati in orari teoricamente non consentiti, ciò non implica automaticamente la commissione del reato per il disturbo causato, a meno che non venga disturbata una consistente parte dei condomini.
Quando scatta il reato di disturbo della quiete pubblica?
Relativamente ad attività svolte in condominio, per far scattare il reato previsto dall’articolo 659 cod. pen. è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio; l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia.
Per l’articolo 659 cod. pen., non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio.
Il decreto ingiuntivo nei confronti dei morosi è uno strumento imprescindibile di riferimento per evitare danni ai condomini in regola con i pagamenti.
Lo stato di morosità nel pagamento degli oneri condominiali è all’ordine del giorno. I condomini inadempienti non possono e non devono dormire sonni tranquilli, perché l’amministratore, che sia diligente nell’espletamento del proprio mandato, è obbligato al
recupero, senza indugio, delle somme dovute.
Questo è un punto di forza, insito nelle attribuzioni affidate al rappresentante condominiale, che è sempre stato sancito dalla normativa di settore. Ieri come oggi. I giudici di legittimità hanno ribadito questo principio, evidenziando come l’inerzia dell’amministratore potrebbe determinare un grave danno alla compagine condominiale.
Condannato l’amministratore che non abbia promosso azione ingiuntiva per riscuotere i contributi non versati.
Fatto e decisione
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 36277 del 28 dicembre 2023 , ha dichiarato infondato il ricorso promosso dall’ex amministratore di un condominio avverso la sentenza di secondo grado, che lo aveva condannato a versare al convenuto una somma a
titolo di risarcimento dei danni conseguenti al mancato esperimento di azione ingiuntiva di pagamento nei confronti di un condomino moroso.
La controversia prendeva le mosse da un’azione intentata dall’attuale ricorrente nei confronti del condominio già amministrato ed avente ad oggetto il pagamento di compensi e rimborsi spese. Il convenuto condominio aveva proposto, a sua volta, domanda riconvenzionale, finalizzata ad ottenere il risarcimento dei danni per il motivo di cui sopra.
Il Tribunale accoglieva la domanda principale in minima parte, mentre rigettava quella riconvenzionale.
La revoca dell’amministratore di condominio
La decisione, ribaltata in sede di gravame con l’accoglimento dell’appello incidentale del condominio, riconosceva l'evidente inadempimento dell’amministratore , inerte quanto ai propri doveri volti al recupero delle spese condominiali non versate dal condomino moroso, tanto più che la debitrice era stata cancellata definitivamente dal Registro delle Imprese rendendo impossibile il recupero del credito.
Il ricorso proposto dall’ex amministratore, per quanto concerne il merito della questione e per quanto di specifico interesse, si fondava, in particolare, sull’errata pronuncia della Corte di appello in ordine alla negligenza del soggetto, dal momento che la mancata iniziativa di riscossione coattiva dei crediti si fondava su di una normativa, la legge n. 220/2012, successiva ai fatti di causa.
La Corte di cassazione ha ritenuto infondato il motivo di impugnativa dal momento che l’obbligo dell’amministratore precede l’entrata in vigore della riforma del condominio e, nella fattispecie, il comportamento negligente del rappresentante condominiale aveva impedito in via definitiva il recupero del credito vantato dal condominio.
Considerazioni conclusive
Il provvedimento emesso dalla Corte Suprema è indenne da qualsivoglia incertezza e tentativo di critica, in quanto rispetta perfettamente sia il dettato legislativo, sia la ratio ad esso sottesa.
Innanzi tutto, va evidenziato che una delle attribuzioni affidate all’amministratore è quella di riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’esercizio e per l’esercizio dei servizi comuni.
In particolare, l’attività di riscossione, che chiaramente corrisponde ad incamerare le somme dovute dai condomini in ragione delle rispettive quote millesimali, si riferisce sia ai contributi ordinari che straordinari, mentre l’erogazione delle spese non comprende gli oneri di natura straordinaria sui quali l’amministratore non ha alcun potere.
Tanto è vero che l’art. 1135, co. 1, n. 4, c.c. pone il divieto per l’amministratore di ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo il carattere urgente, con l’ulteriore obbligo di riferirne nella prima assemblea.
La norma deve essere correlata all’art. 63 disp. att. c.c., che disciplina le modalità correlate alla riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea. Tale attività è totalmente affidata alla piena disponibilità dell’amministratore, il quale può
agire in giudizio senza bisogno di autorizzazione dell’assemblea ottenendo un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo.
Il motivo è presto detto: uno stato di morosità in ambito condominiale non è ammissibile, poiché la sofferenza della cassa comune impedisce la gestione finanziaria dell’ente amministrato.
Non si può, quindi, dubitare che la discrezionalità riconosciuta all’amministratore è che può, senza autorizzazione dell’assemblea, ottenere un decreto di ingiunzione.
Tutto ciò trova conferma nell’ art. 1129, co. 9, c.c., il quale stabilisce che l’ amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito è esigibile, salvo una espressa dispensa da parte dell’ assemblea.
Da ultimo, deve essere preso in considerazione l’art. 1131 c.c. che disciplina la rappresentanza in ambito condominiale e che detta i limiti della legittimazione attiva in capo all’ amministratore alle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c. o ai maggiori poteri a lui
conferiti dall’assemblea.
Il combinato disposto di tali norme costituisce il fondamento per l'azione ingiuntiva che l’amministratore deve promuovere per evitare che il condominio patisca danni in conseguenza della morosità dei condomini. Questo non è avvenuto nel caso portato all’esame dalla Corte di cassazione, in quanto per tabulas è emersa sia l’inerzia dell’amministratore in violazione degli obblighi posti dalla
legge a suo carico, sia del danno che il suo comportamento aveva procurato al condominio in seguito alla cancellazione del debitore dal Registro delle Imprese.
Al di là di questi fatti incontestabili va evidenziato che la precedente versione di alcune delle disposizioni richiamate e che, in alcuni casi, non sanciva espressamente l’obbligatorietà dell’azione monitoria da parte dell’amministratore, che è sempre stata uno dei pilastri che ha definito il rapporto condominio/condomino in relazione al pagamento degli oneri condominiali.
In effetti, se è vero che il testo originale dell’art. 63 disp. att. c.c. si era semplicemente limitato a stabilire che l’amministratore, per riscuotere i contributi condominiali, poteva ottenere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, facendo cadere nell’errore di ritenere che la scelta di agire in giudizio fosse lasciata alla mera discrezionalità dell’amministratore stesso, è altrettanto vero che la giurisprudenza, in passato, aveva già superato tale ostacolo.
In effetti era stato affermato che l’amministratore poteva agire per la riscossione forzosa dei crediti condominiali anche senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, trattandosi di atto finalizzato a realizzare un interesse comune (Cass. 05 gennaio 2000, n.
29; Cass. 29 dicembre 1999, n. 14665) e, più genericamente, che il rappresentante condominiale era pienamente legittimato a chiedere l’emissione del decreto ingiuntivo previsto dall’art. 63 disp. att. c.c. per il recupero degli oneri condominiali una volta che l’assemblea condominiale avesse deliberato sulla loro ripartizione (Cass. 9 dicembre 2005,n. 27292; 15 maggio 1998, n. 4900).
A ben vedere, quindi, nulla di nuovo in questo senso è avvenuto con la riforma del condominio, poiché il legislatore ha solamente provveduto a rendere più chiaro, avvalendosi anche dell’aiuto della giurisprudenza, il contenuto di alcune norme sul punto.
In questo senso si ritiene che la Corte di cassazione abbia correttamente posto in rilievo l’irrilevanza della nuova normativa in relazione ad un problema che, in realtà, non vi è mai stato.