Spese su balconi. Rifiuto di un condomino a far effettuare i lavori dall’impresa del Condominio,sostenendo che i farà fare i lavori a ditta di propria fiducia.

Per quanto concerne la sistemazione dei balconi a spese dei condomini, vi è una Sentenza di Cassazione n. 21343/14 del 9.10.2014 per la quale l’Assemblea, anche all’unanimità, non può imporre ad un condomino di eseguire dei lavori nella proprietà privata, il balcone in questo caso.

Ma attenzione. Qualora il condominio non possa provvedere all’esecuzione dei lavori relativi ai balconi, sostituendosi al loro proprietario esclusivo (es. pavimento del balcone) e qualora l’omessa manutenzione da parte del proprietario dovesse determinare un pregiudizio all’altrui proprietà esclusiva (ovvero anche alla proprietà comune, vedasi frontalino) non resterà che agire in giudizio facendo valere la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia (ex art. 2051 c.c.) onde ottenere il risarcimento degli stessi da parte dei proprietari che abbiano rifiutato di eseguire, o far eseguire, la manutenzione.

Saluti, dr. Giuseppe Cinà

Se il Condominio ostacola la mediazione paga le spese

Trib. Milano Sent. 21 /07/2016

Il condominio che non collabora allo svolgimento della mediazione, pur se in una materia nella quale non è prevista come obbligatoria, deve essere condannato al risarcimento del maggior danno pari alle spese sostenute per la procedura conciliativa che, per quanto facoltativa, appariva più che opportuna in quanto avrebbe consentito ad entrambe le parti di evitare i costi e i tempi del giudizio. La Sentenza del Tribunale di Milano del 21/7/2016 costituisce un importante precedente giurisprudenziale destinato a responsabilizzare le parti che, chiamate in mediazione (ancor più se non obbligatoria ex lege o ex officio iudicis), ritengono di eludere una effettiva partecipazione alla mediazione stessa finalizzata alla concreta definizione della lite.

Nella controversia sottoposta alla decisione del tribunale lombardo, il condominio si rendeva inadempiente al pagamento di fatture relative al servizio di riscaldamento. E, dopo alcuni solleciti, veniva preventivamente invitato in mediazione dalla ditta fornitrice al fine di pervenire ad una composizione amichevole. Al primo incontro di mediazione, il condominio non partecipava: si limitava a comunicare che vi era stata una errata notifica della convocazione e che aveva provveduto al versamento di un acconto sul dovuto.

L’organismo di mediazione provvedeva a convocare un nuovo incontro tra le parti e questa volta alla seduta partecipava anche l’amministratore del condominio. Ma ciò avveniva «al solo scopo di non incorrere nelle sanzioni di legge». Tale fallito tentativo di mediazione comportava costi per la ditta fornitrice pari a 410 euro per l’indennità di mediazione versata all’organismo, oltre a 538 euro per l’assistenza legale.

A distanza di un anno, la società creditrice procedeva giudizialmente nei confronti del condominio moroso (che peraltro restava contumace nel processo). Nel ricorso chiedeva – oltre al pagamento delle residue somme dovute per le forniture – anche il maggior danno (ex articoli 1218 e 1224, comma 2, del Codice civile) pari ai costi sostenuti per la mediazione e per la connessa assistenza legale.

Il giudice milanese, dopo aver posto in evidenza che la procedura mediativa nel caso di specie era da ritenersi facoltativa, rimarcava come nella lite in questione tale scelta appariva «maxime opportuna». Infatti, l’esito conciliativo avrebbe consentito ad entrambe le parti – incluso quindi lo stesso debitore – di evitare i costi ed i tempi del processo, «poi necessariamente incardinato a seguito della mancata collaborazione del condominio nella fase della mediazione e del pervicace inadempimento dello stesso»; il procedimento di mediazione pertanto promosso dalla parte creditrice «era a beneficio dello stesso debitore, a tacere della deflazione del carico giudiziario».

La sentenza dunque giunge a ritenere sussistente il nesso di causalità tra le spese per la mediazione ed il recupero del credito, «in quanto lo strumento della mediazione era obiettivamente funzionale ad evitare – con minimi costi per il convenuto – il presente giudizio nell’interesse di entrambe le parti e del sistema Giustizia», e pertanto condanna il condominio non solo al pagamento della sorta capitale, ma anche ai danni e alle spese processuali.

Spese per lavori urgenti

La Corte di Cassazione, con la decisione numero 2807 del 2 febbraio 2017, affronta il tema della responsabilità dell’amministratore di condominio per le opere straordinarie fatte eseguire senza la previa deliberazione assembleare.

In particolare, nel caso in oggetto, l’amministratore aveva fatto eseguire alcuni lavori straordinari ad un’impresa edile senza che questi fossero deliberati o in seguito convalidati dall’assemblea.

Il condominio, quindi, si era rifiutato di corrispondere quanto dovuto alla società appaltatrice ed aveva chiesto il pagamento del costo dei lavori all’amministratore.

La società appaltatrice, quindi, otteneva decreto ingiuntivo avverso il condominio, che proponeva opposizione.

Costituendosi in giudizio l’impresa chiamava altresì in causa l’amministratore di condominio, chiedendo in via subordinata che venisse accertata la sua responsabilità personale.

Il giudizio di primo grado si chiudeva con la condanna del solo condominio al pagamento delle spese.

Nel corso del giudizio di appello, invece, la situazione veniva modificata e l’amministratore veniva dichiarato tenuto a manlevare il condominio dall’onere di pagare i succitati lavori straordinari.

Soccombente in grado di appello, l’amministratore ricorreva in Cassazione, dove vedeva accolte le sue ragioni. La Cassazione, infatti, ha stabilito la legittimazione passiva del solo condominio rispetto all’obbligazione del pagamento delle somme richieste dalla società che aveva effettuato i lavori straordinari.

In particolare, secondo la Suprema Corte, l’elemento chiave della vicenda era il requisito dell’urgenza dei lavori effettuati.

L’amministratore di condominio, infatti, è mandatario dello stesso e deve garantire il buono stato e la sicurezza delle strutture.

Qualora egli ravvisi la necessità di realizzare dei lavori di urgenza al fine di evitare dei danni alle cose o alle persone è legittimato (anzi: tenuto) ad agire tempestivamente.

In tale caso, chiaramente, egli non diventa responsabile per il pagamento delle opere straordinarie realizzate, in quanto sono volte alla tutela dello stabile amministrato.

La responsabilità in proprio dell’amministratore sussiste solo se, in mancanza di una delibera assembleare e di una situazione di urgenza, lo stesso impegna il condominio per spese non necessarie e non richieste.

La Corte di Cassazione ha quindi affermato nel testo della sentenza il seguente principio “in materia di lavori di straordinaria amministrazione disposti dall’amministratore di condominio in assenza di previa delibera assembleare non è infatti configurabile alcun diritto di rivalsa o di regresso del condominio, atteso che i rispettivi poteri dell’amministratore e dell’assemblea sono delineati con precisione dalle disposizioni del codice civile (artt. 1130 e 1135) che limitano le attribuzioni dell’amministratore all’ordinaria amministrazione e riservano all’assemblea dei condomini le decisioni in materia di amministrazione straordinaria, con la sola eccezione dei lavori di carattere urgente”.

Pagamento delle spese condominiali a carico di esercizi commerciali

I proprietari degli esercizi commerciali ritengono di essere parte estranea rispetto al condominio, dato che magari non partecipano alle assemblee, non utilizzano scale e ascensori e vi si recano solamente durante le ore di apertura.

Di conseguenza può capitare che il commerciante veda come un’ingiustizia il fatto di dovere pagare spese come la manutenzione dell’ascensore, la pulizia delle scale o il riscaldamento anche nelle parti comuni.

Tale ragionamento, tuttavia, non pare corretto.

Il negozio, pur se apparato commerciale, è a tutti gli effetti parte integrante del condominio.

L’articolo 1118 del Codice Civile prevede in punto gestione e utilizzo delle parti comuni che “il condòmino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni” e che “il condòmino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali”.

Di conseguenza anche il proprietario del negozio dovrà contribuire, in base ai millesimi di competenza, al pagamento delle spese condominiali.

Quelli sopra tratteggiati sono i conflitti statisticamente più rilevanti tra i condomini e i negozianti dello stabile, esistono tuttavia svariate ulteriori problematiche che possono cagionare attriti.

Per dirimere tali conflitti è necessario avere regole ben precise, definite puntualmente dal regolamento condominiale ed un amministratore deve essere in grado di farle rispettare.

In ogni caso le norme del regolamento condominiale e l’opera dell’amministratore possono essere utili e necessari per dirimere i conflitti più macroscopici mentre per le questioni più secondarie e meno evidenti è consigliabile esercitare buon senso e moderazione, e far comprendere ai condomini che è sempre consigliabile evitare lunghe e costose liti giudiziarie.

Termine per l’impugnativa di una delibera assembleare da parte di condomini assenti.

Nel caso in esame, una condomina impugnava avanti al Tribunale una delibera adottata dall’assemblea del Condominio, che nel costituirsi eccepiva la tardività dell’impugnazione, chiedendone comunque il rigetto nel merito.

Il Tribunale in prima battuta sospendeva l’esecuzione della delibera, ma tale sospensione veniva successivamente revocata dal Collegio, in accoglimento del reclamo proposto dal Condominio; il Tribunale poi con sentenza dichiarava la condomina decaduta dal diritto di impugnazione della delibera per tardiva proposizione.

Alla base della suddetta decisione, il Tribunale (richiamando l’ordinanza collegiale emessa in sede di reclamo) rilevava che

– il verbale della seduta era stato spedito all’indirizzo della ricorrente il 22 luglio 2010 con lettera raccomandata, di cui l’addetto postale aveva tentato il recapito il successivo 23 luglio 2010;

– ai sensi dell’art. 1335 c.c. la dichiarazione recettizia si presume conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario e che pertanto in questo caso spettava alla ricorrente dimostrare di essersi trovata senza colpa nell’impossibilità di acquisire la conoscenza dell’atto.

La Corte d’Appello dichiarava inammissibile il gravame, rilevando che, come già affermato dal tribunale,

– l’impugnazione della delibera era stata proposta oltre il termine di trenta giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza;

– non si poteva considerare, come dies a quo per l’impugnativa della deliberazione, il momento in cui il plico era stato ritirato in ufficio.

La condomina propone quindi ricorso per cassazione, lamentando la violazione ed erronea applicazione dell’art. 1137 c.c., in correlazione con gli artt. 1334 e 1335 c.c. e art. 66 disp. att. c.c.: per la ricorrente infatti, nella specie non è applicabile il principio della presunzione di conoscenza degli atti recettizi ex art. 1335 c.c, al fine di stabilire la data di comunicazione, nonchè, con essa, la decorrenza del dies a quo per l’impugnazione delle delibere condominiali: tale data deve viceversa farsi coincidere, nel caso di specie, col 27 luglio 2010, data in cui essa ha ritirato il plico presso l’Ufficio che lo aveva ricevuto in deposito dopo il tentativo di consegna.

La Suprema Corte, nel ritenere fondato il motivo di impugnazione, osserva quanto segue:

  1. a) a norma dell’art. 1137 c.c., il termine decadenziale di trenta giorni per impugnare le delibere dell’assemblea decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti e “dalla data di comunicazione per gli assenti”;
  2. b) la prova dell’avvenuto recapito della lettera raccomandata contenente il verbale dell’assemblea condominiale all’indirizzo del condomino assente comporta l’insorgenza della presunzione “iuris tantum” di conoscenza, in capo al destinatario, posta dall’art. 1335 c.c nonchè, con essa, la decorrenza del “dies a quo” per l’impugnazione della deliberazione, ai sensi dell’art. 1137 c.c.;
  3. c) il suddetto principio, di carattere generale, è condivisibile ove lo si colleghi effettivamente “all’avvenuto recapito dell’atto all’indirizzo del condomino assente”;
  4. d) nel caso di specie, è stato compiuto solo un tentativo di recapito stante l’assenza del destinatario o delle persone abilitate alla ricezione: all’indirizzo è stato lasciato solo l’avviso di tentativo di consegna, mentre il plico contenente il verbale è stato depositato nell’ufficio postale per mancato reperimento del destinatario;
  5. e) in tale ipotesi appare davvero arduo estendere la suddetta regola perchè il presupposto è ben diverso: manca il presupposto essenziale per l’applicabilità della presunzione di conoscenza posta dal’art. 1335 c.c, cioè l’arrivo dell’atto all’indirizzo del destinatario;
  6. f) per gli Ermellini – in caso di spedizione a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno e di mancato reperimento del destinatario da parte dell’agente postale – si deve fare applicazione analogica della regola dettata nella L. n. 890 del 2002, art. 8, comma 4, secondo cui:

“la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”; peraltro, poichè il citato regolamento del servizio di recapito adottato non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza, ma soltanto, all’art. 25, il “rilascio dell’avviso di giacenza”, la regola da applicare per individuare la data di perfezionamento della comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, in caso di mancato recapito della raccomandata all’indirizzo del destinatario, è quella che la comunicazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore.”

Esito del ricorso: accoglimento con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello.

Sent. Cassazione civile n. 25791 del 14-12-2016

Protetto: I° Seminario di Aggiornamento 2017

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Apertura Bar in area condominiale

Si possono collocare in un area condominiale i tavolini di un bar. Lo stabilisce la Cassazione. A patto però che quel tipo di utilizzo non si trasformi un un’ appropriazione in via esclusiva dell’area condominiale. È quanto emerge dalla sentenza n.869 del 23 gennaio 2012, con cui la Corte di Cassazione ha stabilito che se non c’è una vera e propria appropriazione dell’area, la revoca dell’autorizzazione concessa al titolare di un bar ad occupare una parte dell’area del condominio, con i tavolini, è illegittima se basata su generici motivi, come il presunto abuso dell’area stessa. Se non viene alterata la destinazione dell’area condominiale, l’apposizione dei tavolini nella stessa è pertanto legittima.

Estratto conto al condòmino

Per ottenere la documentazione bancaria del conto corrente intestato al condominio non sussiste un obbligo del condòmino di chiederla esclusivamente all’amministratore quanto, piuttosto, fargliene preventiva richiesta. E qualora, nonostante le ripetute richieste, l’amministratore non ottemperi, il condòmino ha diritto di ottenere quanto richiesto direttamente dall’istituto di credito.

Questa è la decisione con cui l’Arbitro Bancario Finanziario – Collegio di Roma – con decisione n. 7960/2016 , ha riconosciuto, alla proprietaria di una unità immobiliare inserita all’interno di un condominio, il diritto di ottenere, a proprie spese, dalla banca con cui intercorreva un rapporto di conto corrente con il condominio, copia della rendicontazione periodica.

Il condòmino, infatti, dopo aver chiesto, ripetutamente e invano all’amministratore la documentazione relativa agli estratti conto condominiali, rivolgeva la medesima istanza alla banca resistente, che, tuttavia, non evadeva la richiesta per mancanza dei presupposti di legittimazione attiva.

Decreto ingiuntivo nullo se non sono diffidati tutti i comproprietari

Il GdP di Taranto chiarisce che il nominativo indicato nelle tabelle millesimali vale solo sino al momento in cui i pagamenti avvengono bonariamente

Prima di procedere al recupero delle spese condominiali nei confronti di un condomino moroso, l’amministratore di condominio è tenuto a diffidare anche tutti i suoi eventuali comproprietari. Se non lo fa, il decreto ingiuntivo eventualmente ottenuto deve considerarsi nullo.

Così, con sentenza del 1° marzo 2016 (qui sotto allegata), il Giudice di Pace di Taranto ha accolto l’opposizione avverso un’ingiunzione di pagamento notificata unitamente al precetto, presentata dal comproprietario di un’unità immobiliare che contestava, tra le altre cose, l’avventatezza dell’azione giudiziale dell’amministratore, avviata senza essersi prima accertato dell’interessamento degli altri proprietari al pagamento delle quote richieste.

Per il giudicante, prima di procedere al recupero giudiziale, in presenza di più proprietari l’amministratore avrebbe dovuto dare prova di aver messo in mora tutti gli aventi diritto e comproprietari.

In assenza di tale adempimento, insomma, non è possibile chiedere validamente un decreto ingiuntivo nei confronti di uno solo di essi.

Il nominativo indicato nelle tabelle millesimali vale infatti solo sino al momento in cui i pagamenti avvengono bonariamente, mentre quando diviene necessario procedere coattivamente non può prescindersi dal tenere in debito conto gli atti di proprietà dei condomini e/o catastali.

Per evitare l’atto del tutto annullabile, sarebbe in altre parole bastato eseguire una visura degli atti catastali e acquisire in tal modo le intestazioni delle diverse unità immobiliari.

Senza considerare che l’amministratore ha anche un preciso dovere di istituire e aggiornare un’anagrafe condominiale in cui raccogliere le generalità dei proprietari e dei titolari dei diritti reali e personali di godimento sui beni in condominio.

Una leggerezza non da poco, insomma, che pone nel nulla il decreto ingiuntivo e il precetto.

Corsi di aggiornamento e nullità della nomina

Nel quadro normativo sulla Riforma del Condominio e del successivo D.M 140/2014, la dottrina si interroga sugli strumenti che possono essere utilizzati nel caso in cui venga meno, nel corso del rapporto contrattuale, il requisito della formazione periodica. La norma, infatti, sembrerebbe avere introdotto un vero e proprio requisito legale soggettivo imprescindibile per lo svolgimento della professione di amministratore condominiale.

Le posizioni degli interpreti è orientata verso la nullità della deliberazione di nomina e del successivo contratto stipulato fra il condominio e la persona (fisica o giuridica) prescelta in caso di violazione di ciascuno dei requisiti elencati nell’art. 71-bis disp. att. cod. civ. senza operare alcuna distinzione tra le lettere a), b), c), d), e) e le lettere g) e f);

L’art. 71-bis disp. att. cod. civ., nella sua portata complessiva, rappresenta evidentemente una norma imperativa di ordine pubblico.

Stando dunque alla giurisprudenza delle SS.UU., può configurarsi la nullità della nomina nell’ipotesi della mancata ottemperanza all’obbligo di formazione periodica da parte dell’amministratore condominiale, a cui sia seguita la deliberazione assembleare di nomina e il successivo contratto, sul presupposto errato che l’amministratore fosse in possesso del requisito della formazione periodica, ovvero la frequenza di corsi di aggiornamento annuali.

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