Azione del singolo condomino nei confronti dei morosi

Come può reagire un condòmino, in regola con il pagamento delle spese condominiali, a fronte di una inattività dell’amministratore verso i mancati pagamenti da parte degli altri condòmini?

La riforma del condominio (legge 220 /2012) ha posto limiti stringenti ma è possibile che l’amministratore, per svariate ragioni non le rispetti , mettendo così di fatto seriamente a rischio lo stesso condominio.

In questo caso gli stessi condòmini sarebbero esposti al rischio di una serie di azioni esecutive intraprese o contro i “ beni condominiali “ quali il conto corrente (azione esecutiva giudicata normalmente lecita dai tribunali) o direttamente contro i loro beni personali, seppure ora la “legge di riforma “ abbia imposto il vincolo di aggredire i condomini in regola con i pagamenti solo dopo aver inutilmente escusso quelli morosi il cui nominativo dovrà necessariamente essere fornito dall’ amministratore al creditore del condominio che ne faccia richiesta.

In presenza di un tale scenario, al condòmino volonteroso non resterebbe che reagire chiedendo la revoca dell’amministratore inadempiente: dapprima normalmente in sede assembleare ed in seguito al tribunale. Una volta ottenuta la revoca, il condòmino dovrebbe poi ottenere (sempre tramite assemblea o ricorso al Tribunale) la nomina di un nuovo amministratore.

È tuttavia possibile che tali rimedi, per molte ragioni, non diano l’esito sperato, e che in ogni caso i tempi necessari (almeno per quanto riguarda il ricorso al tribunale) siano tali da compromettere seriamente il buon andamento del condominio. A questo punto, visti frustrati i propri sforzi, il condòmino potrebbe avvalersi di quelle norme codicistiche che permettono al singolo di agire personalmente nel caso di pericolo imminente sostituendosi all’ amministratore nella tutela della cosa comune (articolo 1134 del Codice civile).

La Cassazione, facendo riferimento alla natura del condominio quale ente di gestione (sentenza 16562/2015) ritiene lecito che (seppur con talune limitazioni) ogni singolo condòmino possa reagire alla inerzia processuale dell’amministratore impugnando lui stesso (con effetti che si ripercuoterebbero su tutti i condòmini) anche di fronte alla stessa corte di cassazione la sentenza sfavorevole resa nei confronti del condominio.

Il condòmino, in sostanza, potrebbe sostituirsi all’amministratore inadempiente (purché questo non abbia ricevuto dalla assemblea l’autorizzazione a non perseguire i morosi) e tutelare il bene comune (e quindi in parte anche il suo) richiedendo egli stesso un decreto ingiuntivo nei confronti dei condòmini in ritardo nel pagamento delle spese condominiali.

Non risultano sentenze che si siano pronunciate sulla validità di tali iniziative da parte dei condòmini ma Cassazione (sentenza 4468/1995) aveva tuttavia ritenuto lecito che il singolo condòmino agisse in giudizio contro un altro condòmino per la restituzione (quanto meno pro quota) di quanto l’amministratore aveva, senza motivo, versato a quest’ultimo con fondi condominiali.

L’antenna per i cellulari paga Ici e Imu

Le antenne di telefonia mobile sono da accatastare in categoria D e quindi sono soggette a Ici e a Imu. È questa l’importante conclusione cui è pervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24026 depositata il 25 Novembre 2015 che ha visto vincere il comune ricorrente assistito dall’Anutel.

La sentenza è importante perché, da un lato, conferma l’applicazione di principi già utilizzati in casi similari, quali gli impianti eolici, e, dall’altro lato, interviene a ridosso di pronunce di merito che non sembrano far tesoro delle pronunce della Corte. È emblematico che per un caso identico, relat la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza n.425 depositata il 9 novembre 2015 abbia ritenuto che l’antenna vada accatastata in categoria E.

La Cassazione conferma l’operato del catasto, che già con circolare 16 maggio 2006, n. 4 si era occupata in modo dettagliato dell’accatastamento delle antenne della telefonia mobile, distinguendo il caso delle antenne istallate su edifici esistenti da quello su aree di terreno all’uopo destinate.

Nel primo caso si tratta di antenne ancorate ai muri o sostenute da piccoli tralicci e dai relativi impianti elettrici ed elettronici. Se le apparecchiature elettroniche sono custodite nell’ambito di locali già esistenti, allora, ad avviso dell’Agenzia, non si configura un obbligo di accatastamento. Se, invece, le apparecchiature elettroniche vengono ospitate in specifiche aree e locali, preesistenti o di nuova costruzione, i manufatti devono essere dichiarati in catasto o in forma autonoma o come variazione della preesistente unità immobiliare.

Nel caso invece, come quello analizzato dalla Cassazione, di antenne collocate in un’area di terreno, di solito recintata, all’interno della quale è installato su platea di calcestruzzo un traliccio cui sono fissate le antenne, sussiste l’obbligo di procedere all’accatastamento.

Le puntuali indicazioni dell’agenzia del Territorio non sono state però integralmente recepite da parte della giurisprudenza di merito che ha continuato a ritenere corretto l’accatastamento in categoria E in ragione di una supposta preordinazione ad un’esigenza pubblica svolta dalle antenne. Motivazioni queste che erano state già escluse con riferimento agli impianti eolici (Cassazione n. 4030/2012; n. 4498/2012; n. 1979/2015), in quanto ininfluenti ai fini di un corretto accatastamento, anche alla luce di quanto previsto dall’art.2, comma 4 del Dl n. 262/2006, il quale prevede che nella categoria catastale E non possono essere compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale. Ad avviso della Corte, la norma stabilisce una sorta di intrinseca incompatibilità tra la destinazione ad uso commerciale o industriale di un immobile e la possibile classificabilità in categoria E.

Peraltro, la Corte aveva già scrutinato la natura dell’antenna di telefonia nella sentenza n. 25837/2008, osservando che «il traliccio in questione ed annessa cabina, alla stregua dall’art. 873 c.c. e della consolidata giurisprudenza di questa Corte, 7285/05-12045/02-2228/01, debbano considerarsi a tutti gli effetti costruzioni: ossia opere aventi caratteri di solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo».

A CHI ADDEBITARE LE SPESE POSTALI ?

In tema di ripartizione delle spese condominiali, deve considerarsi nulla e come tale impugnabile anche fuori dal termine di trenta giorni, previsto dall’articolo 1137 del Codice civile, la delibera assembleare con la quale si addebitano a un condòmino spese di gestione specifiche se questi non le abbia espressamente accettate.

Questa, in sintesi,la decisione resa dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 7103, depositata in cancelleria il 9 giugno 2015 . La delibera così adottata, specifica il giudice, può essere impugnata dal diretto interessato anche se lo stesso abbia concorso all’approvazione del rendiconto e del riparto, senza con ciò assumere l’obbligazione di pagamento. In sostanza, questo si deduce dalla sentenza, un conto è approvare i conteggi di gestione, altro assumere l’impegno di pagare una spesa che, in una situazione di normalità, dovrebbe essere ripartita tra tutti i comproprietari.

Il caso che ha portato a questa decisione è di quelli molto ricorrenti: nel corso dell’anno l’amministratore intrattiene uno scambio di corrispondenza con un condòmino. Al momento della presentazione all’assemblea del rendiconto di gestione, l’amministratore pone a carico del destinatario delle sue missive le spese ad esse riferibili, pari a circa 50 euro. Il condomino non ci sta e impugna quella delibera: a suo modo di vedere la ripartizione così approvata dall’assemblea è da ritenersi nulla perché le spese postali dovevano essere considerate spese di amministrazione e come tali ripartite tra tutti i condòmini sulla base dei millesimi di proprietà.

In questo contesto, il Tribunale di Milano ha ritenuto errato l’addebito delle spese postali al singolo condomino. In primo luogo, richiamando quella giurisprudenza di Cassazione secondo la quale l’assemblea non può addebitare al singolo spese per cause che l’hanno visto come controparte del condominio, se non v’è stata dichiarazione giudiziale di soccombenza in tal senso (Cassazione, sentenza 14696/08).

In sostanza, per il giudice milanese la pronuncia in questione ha carattere generale ed incide su ogni genere di spesa asseritamente personale. Non solo: la sentenza 7103 cita un precedente del Tribunale di Napoli (sentenza 12015 del 29 novembre 2003) per la quale proprio le spese postali devono essere considerate spese generali di amministrazione e di conseguenza devono essere tra tutti i condòmini in base ai millesimi di proprietà. Per la pronuncia in esame, nel concetto di spese personali rientrano, ad esempio, le spese per le copie di documentazione dalla quale si è chiesta copia.

Da abbattere la tettoia costruita sotto le distanze minime che impedisce la veduta al vicino

L’ordine di demolizione scatta perché il manufatto realizzato sulla terrazza a meno di tre metri dal confine preclude l’esercizio della servitù a chi da tempo ha acquistato il relativo diritto

Va rimossa la tettoia in legno che impedisce al vicino l’esercizio della servitù di veduta. Infatti è l’art. 907 Cc a stabilire che «quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell’art. 905 Cc». A sottolinearlo è la sentenza 781/15 della seconda sezione civile della Corte d’appello di Palermo che ha rigettato il ricorso di un condomino condannato in primo grado a rimuovere il manufatto da lui collocato nella propria terrazza e che negava il diritto di veduta alla vicina del terzo piano che, non ottenendo nulla con le “buone” lo ha dovuto citare in giudizio. Spiega la Corte territoriale in merito al caso specifico che è proprio la norma a ricollegare il diritto di veduta alla distanza «tra lo sporto dal quale si esercita la veduta e la nuova costruzione sul fondo vicino». Proprio in tale ottica, quindi, il tribunale ha riconosciuto la sussistenza del diritto della donna riscontrando, alla luce della Ctu, che il ricorrente non aveva rispettato la prescritta distanza nell’installare la tettoia sul terrazzo e quindi negando il pieno diritto di veduta. Oltre alla Ctu anche la documentazione fotografica dimostrava che quanto accertato corrispondeva al vero. A nulla valgono le doglianze circa la costituzione della servitù di veduta della vicina che in origine non esisteva, quindi la realizzazione di una finestra prima inesistente, senza l’allegazione delle eventuali modifiche apportate allo stato dei luoghi. Pertanto il ricorso è da rigettare e la tettoia da eliminare.

Condominio: si può modificare il verbale dopo la chiusura dell’assemblea?

Cassazione Civile, sez. II, sentenza 31/03/2015 n° 6552

Con sentenza 31 marzo 2015, n. 6552 la Suprema Corte ha risolto la questione sul se il verbale dell’assemblea condominiale debba essere redatto, corretto e chiuso necessariamente nel corso e alla presenza dell’assemblea condominiale, oppure possa essere redatto, corretto o modificato anche in assenza dell’organo collegiale, essendo, al riguardo, sufficiente che il verbale riporti la sottoscrizione del Presidente e della Segretaria che lo hanno redatto o modificato, specificando se l’inserimento nel verbale, al termine o dopo lo scioglimento dell’assemblea condominiale, di un condomino considerato “assente” nel corso dell’intero procedimento collegiale (costituzione, discussione e deliberazione) costituisca (o non) “mero errore materiale” e legittimi, pertanto, la modifica dei quorum costitutivi e deliberativi raggiunti nel corso della riunione assembleare.

Il caso e la soluzione

Due condomini impugnavano una delibera condominiale sia per assunti vizi relativi alla sua verbalizzazione, la quale era stata modificata in alcune indicazioni riguardanti la presenza e l’assenza di altri condomini successivamente alla chiusura dell’assemblea stessa che sulla legittimità riguardanti alcun lavori.

Nella costituzione del resistente Condominio, l’adito Tribunale, respinta la domanda di annullamento della delibera per assunti vizi formali, dichiarava l’invalidità della stessa in ordine ai criteri di riparto delle spese per l’esecuzione di lavori condominiali. Interposto appello da parte del Condominio e nella resistenza di entrambi gli appellati (che proponevano appello incidentale), la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza impugnata (per il resto confermata), rigettava ogni domanda proposta dagli originari attori, che venivano condannati alla restituzione della somma versata dal predetto Condominio per effetto della provvisoria esecutività delle sentenza di prime cure, oltre che alla rifusione delle spese del doppio grado. Impugnata la decisione di seconde cure dai due condomini, la Corte di legittimità respingeva il ricorso.

Impatti pratico-operativi

La sentenza selezionata è particolarmente interessante perché evidenzia entro quali limiti e a quali condizioni il verbale di assemblea condominiale può essere modificato a seguito dell’esaurimento delle operazioni assembleari, statuendo, in concreto, che la correzione apportata nella copia del verbale assembleare consegnata ai due ricorrenti non inficiava la validità della deliberazione assunta per la quale, eliminato l’errore materiale del computo dei millesimi e tenuto conto dell’effettiva partecipazione dei condomini presenti (anche per delega), era stato raggiunto il quorum necessario.

A tal proposito la S.C. richiama i principi espressi dalla precedente giurisprudenza secondo cui, in via generale, il verbale dell’assemblea condominiale rappresenta la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni di validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune; esso deve, pertanto, contenere l’elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, perché tale individuazione è indispensabile per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall’art. 1136 c.c.

Tuttavia, con la decisione in rassegna, la Corte di legittimità ha stabilito che eventuali interventi correttivi meramente materiali apportati al verbale successivamente alla chiusura dell’assemblea su disposizione del Presidente e con l’esecuzione da parte del segretario non comportano l’invalidità della relativa delibera allorquando le rettificazioni – comunque controllabili successivamente – non abbiano inciso significativamente sul computo della maggioranza richiesta per l’assunzione della delibera stessa, nel senso che non l’abbiano, in ogni caso, fatta venir meno.

E’ opportuno, tuttavia, precisare che, in tema di condominio di edifici, deve invece considerarsi nulla la deliberazione assembleare che sia stata adottata dopo lo scioglimento dell’assemblea stessa e l’allontanamento di alcuni condomini, a seguito di riapertura del verbale non preceduta da una nuova rituale convocazione a norma dell’art. 66 disp. att. c.c., risultando violate sia le disposizioni sulla convocazione dell’assemblea sia il principio della collegialità della deliberazione.

Creditore condominiale ha il diritto di accedere all’anagrafe condominiale

Tribunale, Monza, sez. II, ordinanza 03/06/2015 n° 3717

La sentenza segnalata riguarda l’estensione del diritto del creditore di accedere alle informazioni condominiali al fine di tutelare le proprie ragioni.

Il tema, come noto, si intreccia con la complessa questione della solidarietà dei debiti condominiali: questione, questa, che ha trovato una (speriamo) definitiva sistemazione nella riforma del condominio, laddove, nel novellato art. 63 disp. att. c.c. è stata prevista una responsabilità solidale, ma sussidiaria, dei condomini. Ciò nel senso che l’esecuzione nei confronti di un condomino adempiente è possibile soltanto in seguito all’insolvenza del condomino moroso.

Ora, nel caso di specie, il creditore condominiale aveva proposto ricorso e ex art. 702 bis c.p.c. contro il condominio affinché potesse avere l’intera anagrafe condominiale.

Il condominio evocato in giudizio aveva resistito eccependo una serie di contestazioni.

In primo luogo, il convenuto sosteneva la cessazione della materia del contendere, poiché il creditore aveva già aggredito, con pignoramento presso terzi, il conto corrente condominiale.

In secondo luogo, il convenuto eccepiva l’inammissibilità della richiesta, poiché, a suo modo di vedere, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c. il creditore avrebbe potuto ottenere un’informativa solo riguardante i morosi e non anche tutti gli altri condomini.

In sostanza, quindi, il convenuto contestava il fatto che esistesse un obbligo del condominio di informare il creditore in ordine alle quote di ciascuno.

Il Tribunale di Monza, in accoglimento ha invece accolto integralmente la pretesa del creditore,  così motivando la propria decisione.

Innanzitutto, il giudice ha ritenuto che il pignoramento del conto corrente del condominio non fosse di per sé satisfattivo dell’interesse del creditore, in quanto da ciò non deriva automaticamente l’estinzione dell’obbligazione.

Sul punto di maggiore interesse, ossia sull’estensione del diritto del creditore condominiale di accedere alle informazioni sulle quote dei condomini, il giudice ha poi chiarito che, attesa l’estraneità del creditore al condominio, egli è legittimato a chiedere l’informativa riguardante tutta l’anagrafe condominiale e non solo i dati e le informazioni relative ai condomini morosi. Solo così esso cosicché può tutelarsi in via preventiva sia nell’ipotesi in cui il credito non sia stato deliberato in assemblea (e pertanto tutti i condomini sono tutti obbligati pro-quota), sia che il credito  sia stato deliberato (e in questo caso si debba distinguere tra chi è moroso e chi non lo è). peraltro, sul punto viene ribadito che è onere dell’amministratore specificare se il credito sia stato approvato o meno e nella prima ipotesi fornire i nominativi dei soli morosi.

In ultimo, la pronuncia ribadisce altresì che l’espressione “dati” di cui parla l’art. 63 disp. att. c.c. comprende anche le quote millesimali.

Uso delle parti comuni da parte del singolo condomino: quali sono i limiti?

Cassazione Civile, sez. II, sentenza 03/06/2015 n° 11445

Capita di sovente di imbattersi, nelle aule di Tribunale, in giudizio che riguardano  l’uso, da parte dei singoli condomini, del bene comune.

La norma regolatrice, in tale materia, è costituita dall’art. 1102 c.c. (dettata in tema di comunione, ma applicabile anche al condominio stante il richiamo fattone dall’art. 1139 c.c.), la quale consente al condominio di servirsi della cosa comune, «purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto».

La recente sentenza Cass. Civ., sez. II, 03/06/2015, n. 11445, ribadisce i criteri dinanzi passati in rassegna. Afferma, infatti, che «Il disposto dell’art. 1102 cod. civ. è nel senso che ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità – più intensa o anche semplicemente diversa da quella ricavata eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché  non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso. A tal fine il singolo condomino può apportare alla cosa comune le modificazioni del caso, sempre sul presupposto che l’utilità, che in contrasto con la specifica destinazione della medesima (Cass. 12310/11) o, a maggior ragione, che essa non perda la sua normale ed originaria destinazione (Cass. 1062/11)».

Ma la Corte, nel suo percorso argomentativo, non ha mancato di soffermarsi sui limiti che il Codice prevede anche per gli interventi intrapresi dal singolo sulla proprie proprietà esclusiva. Tali limiti, ad avviso del collegio, vanno individuati nelle disposizioni dell’art. 1120 c.c.

Tale norma infatti, nella parte in cui vieta le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico, ha individuato gli interessi condominiali che non possono essere lesi neppure con le innovazioni deliberate a maggioranza dall’assemblea condominiale. Ne consegue dal punto di vista logico che è giustificata l’applicabilità di questa norma sia alle modifiche che il singolo partecipante apporta alla cosa comune per servirsene più intensamente, sia alle attività del singolo su cosa propria comunque finalizzate all’uso più intenso della cosa comune.

Ne consegue che la realizzazione di un’opera come quella presa in esame dalla sentenza richiamata (ampliamento di un originario varco), deve ritenersi consentita al singolo condomino, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti al condominio, a condizione che non risulti violato il precetto dettato dal quarto comma dell’art. 1120 in precedenza citato.

Condannato per lite temeraria il moroso che fa il “700” al condominio per farsi riallacciare l’acqua

Paga il proprietario esclusivo per l’azione urgente senza titolo: con la legge 220/12 lo stop è un potere-dovere dell’amministratore. Niente spoglio del servizio per il pignorato.

Inammissibile. Non va molto lontano il ricorso ex articolo 700 Cpc del singolo proprietario moroso contro il condominio che gli ha staccato l’acqua: dopo la riforma, infatti, la sospensione del servizio idrico a chi non paga la bolletta è divenuta un potere-dovere dell’amministratore dal momento che dall’articolo 63 disp. att. Cc risulta scomparso l’inciso «ove il regolamento lo consenta», mentre l’interessato non può lamentare lo spoglio dell’acqua, specialmente dopo l’avvenuto pignoramento e la disposta vendita forzata dell’immobile. Risultato: si configura la lite temeraria a carico della parte che ha proposto il ricorso d’urgenza. È quanto emerge dall’ordinanza pubblicata dalla seconda sezione civile del tribunale di Modena

Il singolo condomino deve essere condannato per aver instaurato la controversia giudiziale in modo temerario ravvisandosi nel concreto tutti i presupposti per la pronuncia ai sensi dell’articolo 96, terzo comma, Cpc per il ricorso d’urgenza promosso ex articolo 700 c.p.c. dopo che l’assemblea condominiale ha deliberato la sospensione per morosità dell’approvvigionamento idrico nel relativo appartamento dovendosi ritenere che, dopo la modifica normativa che ha eliminato la previsione «ove il regolamento lo consenta», il potere di sospendere al condomino moroso l’utilizzazione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato configuri un potere-dovere dell’amministratore condominiale il cui esercizio è legittimo ove la sospensione sia effettuata intervenendo esclusivamente sulle parti comuni dell’impianto, senza incidere sulle parti di proprietà esclusiva del condomino moroso, il quale non può lamentare alcuno spoglio non essendo il condomino possessore né detentore dell’immobile, dopo il pignoramento e la vendita forzata disposta.

Amministratore condannato per la caduta di calcinacci dalla facciata

Non contano assemblee deserte e scarse risorse: chi rappresenta l’ente di gestione è in posizione di garanzia per legge e deve intervenire sugli effetti e non sulle cause della rovina per proteggere i terzi

In tema di condominio se la facciata è malmessa e da essa cadono calcinacci che possono determinare un pericolo per l’incolumità di terzi è compito dell’amministratore attivarsi e rimuovere tale situazione di pericolo rivestendo una particolare posizione di garanzia. In caso contrario egli sarà responsabile per l’evento che provocherà danni.  «La responsabilità penale dell’amministratore di condominio va ricondotta nell’ambito della disposizione (articolo 40, comma 2, Cp) per la quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo». Quindi «l’amministratore di condominio in quanto tale assume, dunque, una posizione di garanzia ope legis che discende dal potere attribuitogli dalle norme civilistiche di compiere atti di manutenzione e gestione delle cose comuni e di compiere atti di amministrazione straordinaria anche in assenza di deliberazioni della assemblea. Da ciò quindi consegue la responsabilità per omessa rimozione del pericolo cui si espone l’incolumità di pubblica di chiunque acceda in quei luoghi, e per l’eventuale evento dannoso che è derivato causalmente dalla situazione di pericolo proveniente dalla scarsa o tardiva manutenzione dell’immobile». Lo ha sancito la Cassazione sentenza 46385 del 23 novembre 2015 della quarta sezione penale che ha rigettato il ricorso di un amministratore di condominio ritenuto responsabile dal tribunale di Nola per il reato previsto agli articoli 40 e 590 Cp per non aver impedito, pur avendo l’obbligo giuridico, che calcinacci caduti dalla facciata di un palazzo, cadessero e colpissero un ragazzino provocandogli lesioni. Non serve a scriminarlo l’aver affermato e provato che le assemblee condominiali sono spesso andate deserte e che, essendo i condomini morosi, non vi era un fondo per eseguire i lavori. In casi come questi, spiega il collegio, l’amministratore, per non incorrere in condanne penali deve «intervenire sugli effetti anziché sulla causa della rovina, ovverossia prevenire la specifica situazione di pericolo interdicendo – ove ciò sia possibile – l’accesso o il transito nelle zone pericolanti». Bastava quindi transennare la zona pericolante e non ci sarebbe stata alcuna condanna.