I motivi di opposizione al decreto ingiuntivo su compensi dell’amministratore condominiale

Tribunale di Lecce n. 2812 pubblicata in data 11 ottobre 2022

Compensi dell’amministratore e motivi di opposizione a decreto ingiuntivo: la vicenda

L’avvocato sig, X presenta opposizione all’ingiunzione per cui ha avuto la declaratoria di condanna al pagamento compensi amministratore, asseritamente dovuti, per l’attività di amministrazione di condominio dal marzo 2009 al settembre 2018 e di quota di pochi mancati corrispettivi per consumi idrici.

L’avvocato opponente porta, alla base dell’illegittimità della pretesa creditoria azionata in sede monitoria, la propria carenza di legittimazione passiva, poiché la domanda andava rivolta al condominio mentre i dichiarati debiti dei consumi idrici dovevano essere richiesti solo dall’amministratore subentrato all’opposto; eccepisce l’intervenuta prescrizione annuale ed, in subordine quinquennale del credito, nonché la nullità della nomina del professionista, siccome sprovvista dell’indicazione del compenso, evidenziando altresì che l’opposto non avesse mai tenuto idonea contabilità e che era stato porta sottoposto all’assemblea condominiale un rendiconto; contestava l’omesso deposito nonostante la richiesta di integrazione documentale formulata dall’ufficio, di documentazione idonea a suffragare il credito vantato, in sede monitoria; si duole dell’esosità del compenso specificato come dovuto, avendo l’amministratore, in ipotesi di rinnovo della carica, prospettato un determinato compenso.

Al termine di quanto qui indicato, chiede la revoca del decreto ingiuntivo ed il rigetto della richiesta di pagamento.

L’amministratore opposto dichiara di aver sempre, in costanza dell’incarico, provveduto a convocare le assemblee, cui anche l’opponente aveva partecipato; sottolinea che l’attività svolta fosse documentata nell’istanza presenta al Tribunale, cui doveva scriversi la propria nomina su richiesta di alcuni condomini, tesa a sanare la consistente morosità maturata rispetto ai corrispettivi della fornitura idrica; deduce che il recupero delle somme in danno dell’opponente risultasse, ammissibile ex art. 1131 c.c. nei limiti della quota sul medesimo gravante, attesa l’estinzione dell’obbligazione da parte degli altri condomini; dichiara di aver sempre documentato l’entità delle somme versate alla Società idrica nel corso della propria gestione, in occasione del passaggio di consegne al nuovo amministratore; evidenzia che il decorso della prescrizione è non quinquennale bensì decennale essendo riferita ad un’ipotesi di mandato, reiteratamente interrotto con comunicazioni a mezzo pec; specifica la concludenza della documentazione contabile depositata segnalando che mai, nel corso del decennio interessato dalla propria amministrazione, l’opponente avesse contestato le modalità di espletamento dell’ufficio.

La causa viene dal Giudice portata in decisione, dopo aver emesso provvedimento di rigetto ex art. 648 c.p.c. della domanda di provvisoria esecuzione dell’ingiunzione.

I principi evidenziati dal Tribunale: la determinazione del compenso

in primis viene evidenziato puntualmente dal Giudice che “la determinazione del compenso dell’amministratore nominato dal Tribunale è regolata dall’articolo 1709 del Cc, secondo cui ove le parti non abbiano stabilito la misura, lo stesso è stabilito in base alle tariffe o agli usi o, in mancanza, dal giudice” (cfr. Cass. Civ. n. 11717/21).

Impossibile prescrizione dei crediti

Entrando quindi nel merito della vicenda, il Tribunale osserva in tema di eccezione di prescrizione, che la pretesa in contestazione sia soggetta al termine decennale, siccome inerente prestazioni ricollegabili al contratto di mandato.

Ricorda che la Suprema Corte ha puntualizzato che non sono qualificabili quali obbligazioni periodiche né il credito per somme di denaro anticipate nell’interesse del Condominio né il compenso per l’ attività di amministratore, rimarcando, in ordine a tale ultimo profilo, che la cessazione legale dell’incarico determini la necessità di corrispondere a quest’ultimo la retribuzione, cosicché il relativo obbligo deve essere adempiuto non già periodicamente, ma al compimento della prestazione posta a carico dell’amministratore, ovvero al decorso annuale dell’incarico (Cfr. Cass. Civ. sent. n. 19348/05).

A corroborare questa affermazione, specifica che la notazione e l’avvenuta iscrizione a ruolo nel procedimento monitorio nel 2019 evidenzia l’impossibilità di questa prescrizione, essendo i compensi riferibili alle attività svolte con decorrenza dall’aprile 2009. Pertanto esigibili quanto al primo anno, dall’aprile 2010 per cui la tesi regge al termine decennale della prescrizione.

Invalidità della nomina a amministratore per mancata indicazione specifica del compenso

Coglie, invece, nel segno, seppur parzialmente, la contestazione svolta dall’opponente ex art. 1129 c.c.: a seguito della riforma introdotta con la l.220/12, l’ art. 1129 comma 14, prescrive che l’amministratore, all’atto dell’accettazione della nomina e del suo rinnovo, debba specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l’importo dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta; il profilo di invalidità scaturente dalla mancata predeterminazione del compenso, è quindi una nullità “testuale”, poiché è stabilita dalla legge (cfr. Cass. Civ. sent. n. 12927/22).

Sulla base di questo principio, la stessa richiesta di liquidazione inoltrata al Tribunale nel 2017 attesta la già provata mancanza di predeterminazione contrattuale del compenso e la conseguente nullità del rapporto di mandato, per cui le competenze maturate con riferimento agli anni ricompresi tra il 2013 – anno di entrata in vigore della riforma condominiale – ed il 2018 non risultano esigibili.

In relazione alle annualità comprese tra il 2009 ed il 2012, in assenza di convenzione tra l’amministratore ed il condominio, la consistenza delle spettanze dell’opposto dovrebbe essere determinata dall’Ufficio: osta però a questa operazione specifica, la valutazione del fatto che l’amministratore non abbia provveduto al deposito in giudizio della documentazione attestante la propria complessiva gestione, quali, a titolo esemplificativo, comunicazioni, convocazioni di assemblea, relativi verbali, rendiconti; egli, in particolare, si è limitato a depositare alcune missive, l’elenco di atti consegnato al nuovo amministratore, nonché l’elenco unilateralmente predisposto delle comunicazioni ai condomini allegato all’istanza di liquidazione inoltrata al Tribunale, evidentemente inidonei allo scopo.

La conclusione è che non può dirsi che il mandatario condominiale avesse soddisfatto l’onere probatorio inerente l’entità e concreta natura dell’attività in relazione alla quale ha chiesto la liquidazione.

Peraltro, non aveva depositato copia quietanzata della fattura condominiale dell’acqua di cui al pagamento richiesto all’opponente – fattura soltanto indicata nell’elenco rimesso al nuovo amministratore – e neppure vi era stato il deposito del rendiconto in cui la medesima risultava contemplata, per cui neppure l’esborso effettuato in esecuzione del mandato risulta in via documentale in atti.

Conclusioni

Da tutto ciò consegue la pronuncia di revoca dell’ingiunzione e la relativa domanda deve essere rigettata con conseguente condanna alle spese di giudizio.

Il riparto dei consumi idrici in condominio

Consumo idrico: fornitura di acqua alla singola unità immobiliare, costi fissi della fornitura comune e spese di lavaggio e/o innaffiamento di parti comuni

Con la sentenza n. 1287 del 16 novembre 2022 il Tribunale di Reggio Calabria ritorna sulla questione del riparto dei consumi idrici in Condominio e distingue a seconda che si tratti di fornitura di acqua alla singola unità immobiliare, costi fissi della fornitura comune e spese di lavaggio e/o innaffiamento di parti comuni, dettando regole di imputazione della spesa diversa a seconda della ratio sottesa alla stessa.

La vicenda trae origine da un’impugnativa di delibera assembleare molto articolata promossa dal condomino Tizio avverso il proprio Condominio.

Tizio lamentava in particolare che fosse stato erroneamente ripartito il consumo idrico in violazione dell’art. 1123 c.c., nonché che fossero state approvate spese illegittime (in particolare, la spesa per compilazione ed invio Mod. 770 e spese legali derivanti da procedure di Mediazione e procedimenti monitori), che fosse stato costituito un fondo di riserva in assenza del quorum necessario, che il rendiconto fosse viziato da indeterminatezza a causa di errori di calcolo dovuti all’imputazione di oneri condominiali a soggetti in realtà non facenti parte del Condominio.

Il Tribunale accoglie solo in minima parte le doglianze di Tizio, proprio in relazione all’errore nel riparto del consumo idrico per come approvato dalla delibera impugnata.

Consumo, costi fissi e parti comuni

Con ampia ed articolata disamina, il Giudicante espone le motivazioni dell’errore in cui sarebbe incorso il Condominio nell’approvare il rendiconto sul punto del consumo idrico.

Spiega il Tribunale che in tema di ripartizione delle spese relative al servizio idrico condominiale, come precisato in più occasioni dalla giurisprudenza, anche di legittimità, salva diversa convenzione (cioè un criterio imposto dal Regolamento modificabile solo dall’unanime volontà dei condomini), la ripartizione delle spese della bolletta dell’acquain mancanza di contatori di sottrazione installati in ogni singola unità immobiliare, deve essere effettuata, ai sensi dell’art. 1123 c.c., 1° comma, in base ai valori millesimali (Cass. 26.05.2022, n.17119; Cass. Civ. sez. II, 01/08/2014, n. 17557; Trib. Milano 16.12.2021, n. 19567; 5.11.2020, n.15467; 6.02.2018, n. 1280; 30.11.2017, n.22394).

Tuttavia, specifica subito il magistrato, non tutti i costi relativi al consumo idrico sono uguali: vi sono infatti spese che sono legate non al prelievo di fornitura idrica afferente ad ogni singola unità (cioè, quanto ho consumato), bensì al semplice fatto che esiste un contratto tra il Condominio ed il fornitore e che la fornitura ha costi slegati dal consumo: questi c.d. costi fissi, cui siamo maggiormente attenti ed abituati quando si discute di oneri di riscaldamento centralizzato, sono in questo campo dati ad esempio dal canone contrattuale.

Vi sono poi consumi collegati alla manutenzione e gestione ordinaria delle parti comuni, come il prelievo di acqua per eseguire le pulizie di androne, scale, etc. o per innaffiare laddove il Condominio possegga zone verdi o giardini, aiuole, etc.

Sia i costi fissi che i consumi legati alle parti comuni sono elementi che non presentano alcun collegamento con il consumo; in difetto di ciò, pertanto, rivive il criterio di cui all’art1123, 1° comma, c.c., per cui essi andranno ripartiti in base ai valori millesimali di ciascuna unità immobiliare.

A questo punto ci si chiede spesso che cosa accada quando un appartamento risulti non abitato o abbia consumi a zero: ebbene, il Tribunale, menzionando proprio questa fattispecie, essendo la medesima presentatasi nel riparto in discussione, osserva come, sebbene i consumi vadano correttamente ripartiti a zero, in quanto l’unità non ha effettuato prelievi di acqua, i costi fissi e per le parti comuni non possono essere parimenti indicati come pari a zero, esattamente come avviene nella gestione del riscaldamento.

Si cita nuovamente la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ricorda che «esentare gli appartamenti non abitati dal concorso nella spesa significa sottrarli non solo al costo del consumo idrico imputabile al lavaggio delle parti comuni o all’annaffiamento del giardino condominiale, ma anche a quella parte della tariffa per la fornitura dell’acqua potabile che è rappresentata dal minimo garantito quale quota fissa per la disponibilità del servizio da parte del gestore, la quale, parametrata sul numero delle unità immobiliari domestiche facenti parte del condominio, è indipendente dal consumo effettivo» (Cass. 1 agosto 2014 n. 17557).

Pertanto, a prescindere dal consumo idrico, che talvolta potrebbe essere anche pari a zero (appartamenti vuoti o non abitati nel corso dell’anno), alcune voci della bolletta idrica vanno comunque imputate a tutti i condomini. Con riferimento ai predetti costi slegati dai consumi, questi debbono essere suddivisi tra i condomini sulla base dei millesimi di proprietà, salvo diversa convenzione, cioè salvo diverso accordo tra tutti i condomini.

Diverso accordo che, per parte della giurisprudenza, può anche essere tacito (Cass. 26.05.2022, n.17119; Cass. 2013, n.13004). Nel caso di specie, non vi era errore nella quota di consumo attribuito al condomino Tizio in rendiconto, poiché, peraltro, il Condominio era dotato di contatori a sottrazione e la quota calcolata corrispondeva a quanto riportato come consumo effettivo dal fornitore per quella unità immobiliare. Ciò che invece viene censurato è che a determinati condòmini fosse stata imputata una quota di consumo idrico ‘complessivo’ pari a zero, senza distinzione tra costi fissi e costi per parti comuni, come visto sopra, cui anche costoro dovevano contribuire in ragione dei rispettivi millesimi. Tutte le altre censure mosse da Tizio al rendiconto vengono rigettate, o perché non provate o perché infondate.

Ordine di sgombero: la delibera è valida?

È valida la decisione dell’assemblea con cui si intima a un condomino di liberare il proprio locale dagli oggetti che lo occupano?

Sin dove possono spingersi le decisioni assunte dall’assemblea dei condòmini? La giurisprudenza di legittimità è praticamente unanime nel ritenere che le deliberazioni non possano intaccare la proprietà privata dei singoli condòmini, pena la radicale nullità della decisione, impugnabile quindi in qualunque tempo.

In questo senso si è espressa la Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 4406 del 24 giugno 2022, stabilendo che è nulla la delibera che ordina lo sgombero dei locali di proprietà esclusiva di uno dei condomini.

La decisione si pone nel solco tracciato dalla precedente giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui “l’assemblea condominiale non può validamente assumere decisioni che riguardino i singoli condomini nell’ambito dei beni di loro proprietà esclusiva, salvo che non si riflettano sull’adeguato uso delle cose comuni” (Cass., ord. n. 6652 del 15 marzo 2017). Approfondiamo la questione.

Ordine di sgombero: il caso

Avverso la decisione di primo grado, che dichiarava nulla la delibera con cui si stabiliva che uno dei condòmini dovesse sgomberare il proprio locale, proponeva appello il condominio.

Secondo la compagine, la deliberazione sarebbe stata mal interpretata in quanto autorizzava a intervenire a tutela delle parti comuni mediante una lettera indirizzata al singolo condomino (con cui lo si invitava a liberare il proprio locale dagli oggetti presenti) e un esposto relativo alla situazione nel suddetto locale indirizzato ai Vigili del Fuoco e all’Asl, per richiedere interventi urgenti di messa in sicurezza dell’immobile.

Secondo l’assemblea, infatti, l’accatastamento di mobili nell’unità immobiliare del condomino avrebbe favorito il rischio di incendi.

A riguardo il condominio evidenziava che l’intimazione allo sgombero del locale deliberata dall’assemblea ed inoltrata dall’amministratore al condomino non poteva essere interpretata come ordinanza amministrativa di sgombero, essendo la stessa finalizzata esclusivamente alla messa in sicurezza del locale.

A ciò si aggiunge la previsione regolamentare secondo cui l’assemblea aveva il potere di deliberare sulle norme alle quali i condòmini devono attenersi a tutela della reciproca tranquillità, del buono stato delle cose comuni e del decoro degli edifici.

Intimazione di sgombero: la decisione

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 4406 del 24 giugno 2022 in commento, ha solo parzialmente accolto l’appello proposto dal condominio.

Innanzitutto, rifacendosi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., sent. n. 14300 dell’8 luglio 2020), il collegio capitolino conferma la nullità dell’intimazione di sgombero fatta pervenire al condomino.

Il deliberato, infatti, non appare conforme ai principi generali delineati dal legislatore in materia di competenze assembleari, in quanto si risolve nell’imposizione al singolo condomino di spostare definitivamente dal locale di sua proprietà tutti gli oggetti ivi custoditi, sul presupposto, non provato e/o suffragato da accertamenti delle autorità interpellate (Vigili del Fuoco, Asl), circa l’effettiva pericolosità per gli altri condòmini e per le cose comuni del pericolo di incendio derivante dalla presenza dei mobili accatastati in assenza di sistemi di sicurezza.

Esposto alle autorità: la delibera è legittima

Al contrario, la Corte d’Appello di Roma accoglie il gravame per la restante parte del deliberato riguardante l’invio di un esposto relativo alla situazione presente nel locale di proprietà esclusiva del singolo condomino, al fine di richiedere un intervento urgente che consenta al condominio la messa in sicurezza del locale.

Ed invero, tale decisione deve ritenersi senz’altro ricompresa nelle competenze ex lege dell’assemblea e in quelle espressamente previste nel regolamento condominiale, laddove attribuisce all’assemblea di “deliberare su ogni altro argomento riguardante l’amministrazione, la conservazione e il godimento delle cose comuni”.

In conclusione, l’appello deve parzialmente accogliersi e dichiararsi la nullità della delibera impugnata limitatamente all’intimazione di sgombero del locale di proprietà esclusiva, fermo restando la validità del restante deliberato.

Nullità delibera assembleare rilevabile d’ufficio

Infine, è appena il caso di ricordare come la delibera assembleare affetta da nullità può essere invalidata dal giudice anche d’ufficio, e perfino in appello.

In questo senso la Corte di Cassazione (sent. n. 305/2016) e la più recente giurisprudenza di merito (Trib. Roma, sent. n. 3545 del 6 marzo 2022), secondo cui è rilevabile d’ufficio ed anche in appello la nullità della delibera.

A nulla vale, pertanto, nel caso affrontato dalla Corte d’Appello di Roma con la sentenza in commento, che il condominio abbia eccepito la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) perché, in primo grado, il condomino aveva chiesto l’annullamento della delibera anziché la nullità: il giudice può infatti rilevare quest’ultima anche d’ufficio.

Nuovi poteri amministratore di condominio e perdita decisionale dell’assemblea con nuove leggi

Quali sono i poteri decisionali di un amministratore di condominio, cosa prevedono le novità 2023 e cosa cambia per assemblea

Quali sono i nuovi poteri amministratore di condominio e perdita decisionale dell’assemblea con nuove leggi 2023? 
L’amministratore di condominio al momento della sua nomina assume diverse responsabilità per garantire la corretta gestione di un condominio nei confronti dei quali assume diversi obblighi ma oggi anche poter maggiori. Vediamo cosa cambia per i poteri di un amministratore di condominio nel 2023.

Stando, infatti, a quanto previsto, se oggi spetta all’assemblea di condominio decidere se intraprendere o aderire ad una procedura di mediazione, e l’amministratore di condominio, una volta ricevuta la notifica dell’invito ad aderire una procedura di mediazione, deve convocare l’assemblea, con l’approvazione della nuova legge avrà pieno potere di aderire alla mediazione senza obbligo di convocazione dell’assemblea.

Ciò significa che la decisione autonoma che può essere presa dall’amministratore di condominio riduce contestualmente il potere decisione dell’assemblea. Dunque, con l’approvazione della nuova legge, l’amministratore di condominio può da solo decidere di attivare un procedimento di mediazione, aderirvi e parteciparvi, informando di tale decisione l’assemblea solo nella fase conclusiva della mediazione stessa.

La nuova legge cambia le norme in vigore che, come stabilito dalla Corte di Cassazione, individuano nel condominio come organo principale depositario del potere decisionale l’assemblea di condominio, mentre spetta all’amministratore di condominio eseguire le delibere dell’assemblea dei condomini. Ed è, inoltre, di competenza dell’assemblea decidere sulla partecipazione alle liti attive e passive.

Nuovi poteri possono essere esercitati dall’amministratore di condominio anche per quanto riguarda decisione di accensione e spegnimento dei termosifoni centralizzati: in tal caso, infatti, l’amministratore di condominio ha il potere decisionale di modificare orari e tempi di accensione dei riscaldamenti centralizzati in condominio, sempre alla luce di quanto stabilito dalle leggi nazionali in merito. Le leggi in vigore prevedono, infatti, specifici periodi e tempi di accensione dei riscaldamenti in Italia in base alle diverse zone. Considerando, dunque, ciò che prevedono le leggi nazionali sui tempi in cui accendere i termosifoni in condominio, nell’ambito delle stesse, l’amministratore di condominio può decidere per eventuali modifiche di accensione dei riscaldamenti.

Un amministratore di condominio ha, inoltre, il potere di decidere in piena autonomia e senza necessità di consultare l’assemblea l’attuazione di lavori urgenti in condominio.

I lavori urgenti in condominio possono essere decisi singolarmente dall’amministratore di condominio, perché quest’ultimo ha la responsabilità di tutelare i condomini e di evitare problemi che potrebbero nuocere al loro benessere e alla loro incolumità.
Dunque, per lavori urgenti in condominio l’amministratore ha pieno potere decisionale e non ha obbligo di convocare l’assemblea che li approvi. 

Seminario di Aggiornamento

Valido ai fini della formazione periodica (DM 140/2014) – 2023

l’ARAI incontra gli amministratori della regione Lazio

Programma
ore   9:00 – Registrazione
ore   9:30 – Apertura lavori (A. D’Agostino)
ore   9:45 – Presentazione nuovo responsabile sede ARAI – ROMA (A. D’Agostino – A. Recchioni)
ore 10:00 – Introduzione e presentazione relatori (Avv. Nicola Salzano)
ore 10:30 – La sicurezza degli impianti tecnologici nel condominio (C. Dandini – ELTI)
ore 11:00 – Responsabilità dell’amministratore di condominio (Avv. Nicola Salzano)
ore 11:30 – Le comunità energetiche e il condominio (Dott. D. Piccolo)
ore 12:00 – Nuovi adempimenti privacy e responsabilità dell’amministratore di condominio (Avv. R. Cusano)
ore 12:30 – Presentazione servizi in partnership
ore 13:00 – Chiusura lavori

Per motivi organizzativi vi comunichiamo che è OBBLIGATORIO prenotare la partecipazione al seminario che sarà COMPLETAMENTE GRATUITA e prevede il RILASCIO ATTESTATO

Per prenotazioni o informazioni sull’evento inviare una mail a segreteria@arai.it o contattare il numero 091 344 385
dal lunedì al venerdì dalle ore 9.30 alle 12 e dalle 16.30 alle 18.

Superbonus, Bonus facciate e ponteggi: il singolo condomino non può ostacolare i lavori mettendo in pericolo i crediti di imposta

Tenendo in considerazione i tempi stretti stabiliti dal legislatore per concludere le opere del Superbonus e del Bonus facciata e fruire dei crediti di imposta nessun condomino può far perdere tempo

 

Secondo l’articolo 843 c.c., primo e secondo comma, il proprietario deve permettere l’accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessita, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune (e se l’accesso cagiona danno, è dovuta un’adeguata indennità.

La norma è chiarissima.  Si noti che l’obbligo di consentire l’accesso ed il passaggio nella sua proprietà non trova la sua fonte in un diritto di servitù a favore del fondo confinante, integrando, invece, gli estremi di una obligatio “propter rem” che si risolve in una limitazione legale del diritto del titolare del fondo, funzionale al soddisfacimento di una utilità occasionale del vicino e consistente nel dovere di consentire l’accesso e la momentanea occupazione degli spazi necessari al compimento delle operazioni di manutenzione e rifacimento di una parte comune tutte le volte in cui l’impedimento dell’accesso stesso renderebbe impossibile il compimento delle necessarie riparazioni (Trib. Milano, 7 dicembre 2001). L’accesso ed il passaggio del vicino nel fondo altrui devono, quindi, essere sempre consentiti purché l’attività di immissione nell’altrui proprietà sia essenzialmente temporanea e giustificata dall’esigenza di non poter altrimenti eseguire la riparazione del bene comune. Di conseguenza in sede giudiziale il giudice di merito deve verificare se la soluzione prescelta sia l’unica possibile o, tra più soluzioni, quella che consenta il raggiungimento dello scopo con minor sacrificio sia di chi chiede il passaggio, sia del proprietario del fondo che deve subirlo. Naturalmente l’accesso al fondo del vicino, consentito dall’art. 843 c. c., permette implicitamente che l’accesso sia accompagnato dal deposito di cose, operazione necessariamente strumentale alla costruzione. A fine lavori, però, deve essere eliminata, a cura e spese del depositante (cui, sin dall’inizio, fa carico l’obbligo del ripristino) ogni conseguenza implicante una perdurante diminuzione del diritto del singolo condomino che, invece, deve riprendere la sua originaria ampiezza. Accade spesso, però, che il condomino proprietario dell’appartamento al piano terra si rifiuti – senza giustificato motivo – di far collocare il ponteggio nel suo giardino, impendendo così l’avvio dei lavori. Tuttavia, quando le opere mirano all’ottenimento del superbonus o del bonus facciate, i tempi stretti imposti dal legislatore per concludere i lavori e godere dei crediti di imposta non ammettono inutili perdite di tempo. La questione è stata trattata dal Tribunale di Firenze in una recente decisione del 19 settembre 2022. Superbonus, bonus facciate e opposizione all’installazione dei ponteggi del condomino al piano terra: la vicenda

L’assemblea di un caseggiato aveva deliberato (delibera mai impugnata da alcuno dei condomini), all’unanimità dei partecipanti (14 condomini su 23, pari a 624 millesimi), l’esecuzione di lavori per il rifacimento delle facciate, dei balconi, dei lastrici e del vano scala, con ecobonus 110%, bonus facciate al 90% (attualmente al 60%) e cessione del credito d’imposta all’impresa incaricata per gli importi ammessi ai bonus fiscali.
Al momento del montaggio dei ponteggi da parte della ditta, cui era stata subappaltata l’installazione dei medesimi, il condomino proprietario dell’unità (ad uso non abitativo) posta al piano seminterrato ne richiedeva l’immediata rimozione, non essendogli permesso il passaggio carrabile a causa del notevole ingombro. Il condominio, pertanto, agiva in giudizio, chiedendo che il Tribunale ordinasse ex articolo 700 c.p.c. al condomino di consentire l’installazione dei ponteggi nella sua proprietà. In relazione al fumus, i condomini notavano che il resistente – condomino era obbligato a consentire tale montaggio non solo ai sensi dell’art. 843 c.c., sussistendone i requisiti, ma anche ai sensi dell’art. 1137, primo comma, c.c., atteso che le delibere prese dall’assemblea a maggioranza degli intervenuti sono obbligatorie per tutti i condomini. In relazione al periculum, il condominio faceva presente il grave danno conseguente all’eventuale non esecuzione dei lavori nei tempi stabiliti.

La decisione. Il Tribunale ha dato pienamente ragione alla collettività condominiale.

Lo stesso giudice ha notato che per quanto riguarda il requisito del fumus, l’art. 843 c.c. è applicabile al caso in esame, trattandosi di disposizione di carattere generale e, dunque, applicabile anche alla materia condominiale; del resto è emerso che i ponteggi si dovevano “necessariamente” installare proprio nel luogo indicato dalla ditta; in ogni caso il Tribunale ha sottolineato che la delibera di approvazione dei lavori (obbligatoria per tutti i condomini) non è stata impugnata dal condomino proprietario dell’unità posta al piano seminterrato. Nessun dubbio poi che fosse configurabile il periculum in mora.
Come ha notato il giudice toscano, infatti, il trascorrere del tempo necessario per agire in via ordinaria potrebbe comportare la perdita per il condominio della possibilità di avvalersi dei suddetti benefici fiscali, con conseguente grave danno per le casse dello stesso, nonché per lo stesso condomino contrario all’installazione dei ponteggi. Di conseguenza il decidente toscano ha disposto l’obbligo del condomino resistente a consentire l’accesso e il passaggio nella sua proprietà per l’installazione della ponteggiatura necessaria alla realizzazione delle opere deliberate.

Balcone aggettante e responsabilità penale del condomino

La Cassazione affronta il problema della caduta di frammenti di intonaco o muratura che si sono distaccati dal cielino e della conseguente responsabilità penale del singolo condomino, i quali sporgono dalla facciata dell’edificio, ma costituiscono solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono e non svolgono alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell’edificio.

Di conseguenza non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani e ad essi non può applicarsi il disposto dell’articolo 1125 c.c. Alla luce di quanto sopra si può affermare che le opere di manutenzione dei balconi aggettanti competono esclusivamente al proprietario dell’appartamento dal quale protendono. Così nel caso in cui il cattivo stato di manutenzione degli elementi di finitura dell’estradosso delle solette del balcone (da individuarsi nelle mattonelle della pavimentazione) comportino problemi di infiltrazioni all’appartamento sottostante, è onere del proprietario del balcone ripristinare lo stato di salubrità e sanare il danno. Soltanto i rivestimenti e gli elementi della parte frontale e di quella inferiore (cielino o sotto-balcone) si debbono considerare beni comuni a tutti, ma solo quando si inseriscono, nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole. Se il sotto-balcone del balcone aggettante non è decorativo la manutenzione spetta al singolo condomino che fruisce di tale manufatto. Quest’ultimo perciò è anche responsabile dei danni cagionati dalla caduta di frammenti di intonaco o muratura, che si siano staccati dal cielino. Questo fenomeno, se trascurato, può portare il singolo condomino ad essere condannato per il reato di cui all’art. 677 c.p., comma 3 (Omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina). Tale figura di reato, attualmente costruita nei primi due commi come illecito amministrativo a seguito di depenalizzazione D. Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 ex art. 52, mantiene nel comma 3 rilevanza penale nel caso in cui dalla situazione di rovina dell’immobile derivi pericolo per la persona (deve trattarsi di un pericolo concreto). A tale proposito merita di essere segnala la sentenza della Cassazione n. 31592 del 24 agosto 2022. Balcone aggettante e responsabilità penale del condomino: la vicenda La vicenda prendeva l’avvio quando il Tribunale in composizione monocratica, condannava alcuni condomini alla pena di euro 400,00 di ammenda in ordine al reato di cui all’art. 677 c.p., comma 3. Il Tribunale riteneva evidente la responsabilità degli imputati per avere omesso di provvedere ai lavori necessari al ripristino dei balconi negli appartamenti di loro rispettiva proprietà al fine di rimuovere il pericolo alle persone. In ogni caso evidenziavano che i proprietari di immobili rivestono una posizione di garanzia non delegabile totalmente ad altre figure, quali l’amministratore di un condominio, con cui necessariamente condividono l’obbligo di agire anche su cose non di loro esclusiva proprietà, pur in via sussidiaria e in caso di inerzia di quest’ultimo. I condomini ricorrevano in cassazione facendo presente che si erano sempre preoccupati di segnalare la situazione della facciata condominiale all’amministratore e avevano sempre partecipato alle assemblee nelle quali però non si era mai raggiunto il numero legale; di conseguenza non ritenevano di avere una colpa specifica, sottolineando come la responsabilità dovesse ricadere su tutti i condomini o comunque su quelli con abitazioni servite dalla loro scala, essendosi l’intonaco distaccato da una parte condominiale della facciata. La decisione La Cassazione ha pienamente condiviso il ragionamento del Tribunale. Secondo i giudici supremi, in tema di omissione di lavori in costruzioni che minacciano rovina negli edifici condominiali, nel caso di mancata formazione della volontà assembleare e di omesso stanziamento di fondi necessari per porre rimedio al degrado che dà luogo al pericolo, non può ipotizzarsi la responsabilità per il reato di cui all’art. 677 c.p. a carico dell’amministratore del condominio per non aver attuato interventi (su parti private dei balconi aggettanti) che non sono in suo materiale potere, ricadendo in tale situazione su ogni singolo proprietario (del balcone aggettante) l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa. Come ha notato la Cassazione gli imputati sono rimasti inerti anche se erano consapevoli da tempo della necessità di eseguire lavori di manutenzione e della sussistente minaccia di rovina di cui soffrivano parti dei propri balconi. Inevitabile, quindi, affermare la penale responsabilità degli imputati con riferimento al reato in questione, per non essersi gli stessi attivati al fine di evitare l’evento. Del resto, ai fini dell’integrazione del reato in parola, è sufficiente la colpa e non è, quindi, necessario che la condotta omissiva sia motivata da una specifica volontà di sottrarsi ai dovuti adempimenti, essendo al contrario sufficiente a tanto anche un atteggiamento negativo dovuto a colpa.

Efficienza energetica degli impianti di climatizzazione invernale ed estiva

A seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 55 del 7 marzo 2014 del decreto 10 febbraio 2014, sono stati resi disponibili gli strumenti che consentono la completa attuazione, da parte del cittadino, di quanto prescrive il  decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 74 (di seguito: D.P.R. 74/2013) recante la definizione dei criteri generali in materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione dell’acqua per usi igienici e sanitari. Al fine di fornire le risposte ai quesiti pervenuti da amministrazioni locali, imprese, installatori, manutentori e privati cittadini, si riportano le risposte alle domande più frequenti.

 

IMPIANTO TERMICO

  1. Cosa si intende per “impianto termico”?

Il decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 e ss.mm.ii. (di seguito d.lgs. 192/2005) regolamenta la progettazione e la realizzazione dei nuovi edifici e degli impianti in essi installati, dei nuovi impianti installati in edifici esistenti nonché le opere di ristrutturazione degli edifici e degli impianti esistenti. Regolamenta infine l’esercizio, il controllo, la manutenzione e le ispezioni degli impianti termici e la certificazione energetica degli edifici.

A tali fini assume particolare importanza la definizione di “impianto termico” che è connessa a tutta la materia regolamentata dal D.lgs. 192/05. L’ultima definizione di impianto termico, introdotta dal decreto legislativo 48/2020 che ha modificato il D.lgs. 192/05 (art. 2, comma 1, l-tricies), recita:

(l-tricies)  “impianto  termico”:  impianto  tecnologico fisso destinato ai servizi di  climatizzazione  invernale  o  estiva  degli ambienti,  con  o  senza  produzione  di  acqua  calda  sanitaria,  o destinato  alla   sola   produzione   di   acqua   calda   sanitaria, indipendentemente dal  vettore  energetico  utilizzato,  comprendente eventuali  sistemi   di   produzione,   distribuzione,   accumulo   e utilizzazione  del  calore  nonché’  gli  organi  di  regolazione   e controllo, eventualmente combinato con impianti di ventilazione.  Non sono considerati impianti termici i sistemi  dedicati  esclusivamente alla produzione di acqua  calda  sanitaria  al  servizio  di  singole unità immobiliari ad uso residenziale ed assimilate;

Tenuto conto delle finalità del D.lgs. 192/05, e quanto specificato nella definizione aggiornata, l’impianto termico deve essere costituito da apparecchi, dispositivi e sottosistemi installati in modo fisso caratterizzanti il sistema edificio/impianto, senza limiti di potenza. La definizione di impianto termico comprende anche l’insieme di più apparecchi indipendenti tra loro, installati in modo fisso, al servizio della stessa unità immobiliare.

Non sono impianti termici i sistemi dedicati esclusivamente alla produzione di acqua calda sanitaria al servizio di singole unità immobiliari ad uso residenziale ed assimilate. Tra le singole unità immobiliari ad uso residenziale ed assimilate sono da intendersi comprese anche:

Gli edifici residenziali monofamiliari.

le singole unità immobiliari utilizzate come sedi di attività professionali (ad esempio studio medico o legale) o commerciale (ad esempio agenzia di assicurazioni) o associativa (ad esempio sindacato, patronato) che prevedono un uso di acqua calda sanitaria comparabile a quello tipico di una destinazione puramente residenziale.

Sono assimilati agli impianti termici quegli impianti ad uso promiscuo nei quali la potenza utile dedicata alla climatizzazione degli ambienti sia superiore a quella dedicata alle esigenze tecnologiche e/o a fini produttivi, comprendenti anche la climatizzazione dei locali destinati ad ospitare apparecchi o sostanze che necessitano di temperature controllate.

CONTROLLO E MANUTENZIONE AI FINI DELLA SICUREZZA

  1. Chi stabilisce quali sono gli interventi di controllo e manutenzione da effettuare sugli impianti termici e la relativa frequenza?

Il responsabile dell’impianto termico o per esso un terzo che ne assume la responsabilità, ai sensi dell’art. 7 del D.lgs. 192/05 e s.m.i. e dell’art. 7 del D.P.R. 74/2013, provvede affinché siano eseguite le operazioni di controllo e di manutenzione secondo le prescrizioni della normativa vigente. L’Allegato A al D.lgs. 192/05 definisce il responsabile dell’impianto termico come “l’occupante, a qualsiasi titolo, in caso di singole unità immobiliari residenziali; il proprietario, in caso di singole unità immobiliari residenziali non locate; l’amministratore, in caso di edifici dotati di impianti termici centralizzati amministrati in condominio; il proprietario o l’amministratore delegato in caso di edifici di proprietà di soggetti diversi dalle persone fisiche”.

La predisposizione di istruzioni relative al controllo periodico degli impianti ai fini della sicurezza, con l’indicazione sia dei singoli controlli da effettuare che della loro frequenza, è compito dell’installatore, per i nuovi impianti, e del manutentore, per gli impianti esistenti, i quali devono tenere conto delle istruzioni fornite dai fabbricanti dei singoli apparecchi e componenti, ove disponibili. La vigente legislazione non contiene prescrizioni o indicazioni su modalità e frequenza dei controlli e degli eventuali interventi manutentivi sugli impianti di climatizzazione estiva e/o invernale né sui singoli apparecchi e componenti che li costituiscono.

I modelli di rapporto di controllo di efficienza energetica, pur prevedendo alcuni controlli di sicurezza sull’impianto e sui relativi sottosistemi di generazione di calore o di freddo, non sono rapporti di controllo o manutenzione ai fini della sicurezza e pertanto non sono esaustivi in tal senso.

Gli interventi di controllo e manutenzione devono essere eseguiti a regola d’arte, da  operatori abilitati a dette operazioni, nel rispetto della normativa vigente. L’operatore, al termine delle medesime operazioni, con la cadenza prevista dall’allegato del D.P.R. 74/2013, ha inoltre l’obbligo di effettuare un controllo di efficienza energetica i cui esiti vanno riportati sulle schede 11 e 12 del libretto di impianto e sul pertinente rapporto di controllo di efficienza energetica allegato al D.M. 10 febbraio 2014 da rilasciare al responsabile dell’impianto che ne sottoscrive copia per ricevuta e presa visione. Sui modelli di rapporto di controllo di efficienza energetica devono essere annotate, nel campo osservazioni, le manutenzioni effettuate, e nei campi raccomandazioni e prescrizioni quelle da effettuare per consentire l’utilizzo sicuro dell’impianto. Sullo stesso modello il manutentore riporterà la data prevista per il successivo intervento.

  1. In occasione degli interventi di controllo e manutenzione di cui all’art. 7 del DPR n.74/2013, quale documentazione deve essere rilasciata dal manutentore al responsabile dell’impianto?

L’art. 7 del D.lgs. 192/2005 e s.m.i. impone all’operatore, dopo aver eseguito a regola d’arte le operazioni di controllo e eventuale manutenzione, di redigere e sottoscrivere un rapporto di controllo tecnico conforme agli allegati F e G allo stesso decreto legislativo. Tali allegati sono stati sostituiti dal DM 10/02/2014 con i rapporti di efficienza energetica, tipo 1, 2, 3 e 4, pubblicati in allegato allo stesso DM. Pertanto i suddetti rapporti di efficienza energetica devono essere utilizzati come rapporto di controllo tecnico al termine delle operazioni di controllo ed eventuale manutenzione di cui all’art. 7 del DPR n. 74/2013. Sugli stessi rapporti di efficienza energetica il manutentore dichiara in forma scritta ai sensi del comma 4 lettera a) dell’art.7 del DPR n.74/2013 le operazioni di controllo e manutenzione di cui necessita l’impianto per garantire la sicurezza delle persone e delle cose nelle sezioni “raccomandazioni” e “prescrizioni”, e la relativa frequenza, ai sensi del comma 4 lettera b) dello stesso articolo, alla voce: “si raccomanda un intervento manutentivo entro il ……..”.

Per quanto riguarda l’esecuzione del controllo di efficienza energetica del sottosistema di generazione (che nel caso del rapporto di controllo di efficienza energetica tipo 1 si identifica con la misurazione in opera del rendimento di combustione), che negli allegati F e G non era previsto obbligatoriamente ad ogni compilazione del rapporto di controllo tecnico, si ritiene che, ferma restando obbligatoria tale esecuzione:

In occasione degli interventi di cui all’art. 8 comma 3 del DPR n. 74/2013;

con la periodicità di cui alla tabella dell’allegato A del DPR n. 74/2013, con contestuale invio all’indirizzo indicato dalla Regione o Provincia autonoma competente per territorio;

nei restanti casi la scelta sia demandata alla professionalità del manutentore, previa valutazione dello stato del generatore.

LIBRETTO DI IMPIANTO

  1. Quando si compila il libretto di impianto, quale modello bisogna usare e chi compila questo documento?

Ai sensi del D.P.R. 74/2013, art. 7, c. 5 – gli impianti termici per la climatizzazione o produzione di acqua calda sanitaria devono essere muniti di un “Libretto di impianto per la climatizzazione”. Il modello da usare è quello previsto dal D.M. 10/02/2014 (G.U. n. 55 del 07/03/2104) che sostituisce i preesistenti modelli di “libretto di impianto” e “libretto di centrale” e comprende anche gli impianti di condizionamento, finora esenti da tale adempimento. Esso è stato concepito in modo modulare per tenere conto delle diverse possibilità di composizione dell’impianto termico. L’installatore, cui compete la prima compilazione del libretto per i nuovi impianti, o il responsabile dell’impianto, per gli impianti esistenti, provvede a compilare soltanto le schede pertinenti al caso e nel numero necessario a descrivere tutti i componenti dell’impianto termico. Per gli impianti esistenti la compilazione del nuovo libretto, a cura del responsabile dell’impianto, va fatta in occasione e con la gradualità dei controlli periodici di efficienza energetica previsti dal D.P.R. n. 74/2013 o di interventi su chiamata di manutentori o installatori. Con decreto del Ministro dello Sviluppo economico 20 giugno 2014, pubblicato in Gazzetta Ufficiale 153 del 4 luglio 2014, è stata introdotta una proroga agli adempimenti di cui agli articoli 1 e 2 del DM 10 febbraio 2014. La proroga comporta di fatto che, a partire dal 15 ottobre 2014, a seguito di nuove installazioni di impianti termici o in occasione di controlli periodici di efficienza energetica previsti dal D.P.R. n. 74/2013 o degli interventi su chiamata di manutentori o installatori, sarà obbligatorio l’uso dei nuovi modelli di libretto introdotti con DM 10 febbraio 2014.

Per ogni sistema edificio/impianto, di norma, va compilato un solo libretto di impianto in modo da stabilire un legame univoco tra edificio e codice di impianto che sarà attribuito dal catasto regionale degli impianti termici. Solo nel caso di impianti centralizzati nei quali l’impianto di climatizzazione invernale è distinto (impianti che in comune hanno soltanto il sistema di rilevazione delle temperature nei locali riscaldati e raffreddati) dall’impianto di climatizzazione estiva è possibile compilare due diversi libretti di impianto.

Nel caso in cui uno dei servizi sia centralizzato (riscaldamento o raffrescamento) e all’altro, si provveda in modo autonomo, vanno anche compilati i libretti degli impianti autonomi.

  1. Il DM 10 febbraio 2014 consente al responsabile dell’impianto di selezionare, fare compilare e aggiornare le sole schede del libretto pertinenti alla tipologia dell’impianto termico e, nel caso di successive aggiunte di componenti o apparecchi, di aggiornare il libretto mediante compilazione delle sole schede pertinenti agli interventi eseguiti. Nell’ottica di adattare ancora meglio il libretto all’effettiva composizione dell’impianto, è consentito, nel libretto in formato elettronico e, conseguentemente, nella copia conforme stampata su carta, aggiungere ulteriori campi nel caso di un numero di componenti maggiore di quelli riportati nella versione pubblicata in allegato al decreto, e/o eliminare parti di schede non pertinenti all’impianto, che, se lasciate non compilate, potrebbero essere interpretate come omissioni?

La risposta è affermativa: se, ad esempio, sono presenti nell’impianto quattro vasi di espansione e due pompe di circolazione, è possibile inserire sotto le righe relative ai tre vasi di espansione VX1, VX2 e VX3 una quarta riga eguale alle preesistenti contrassegnandola con VX4, e duplicare la parte di scheda di cui al punto 6.4 creando un campo per la situazione iniziale e le eventuali successive sostituzioni per la seconda pompa di circolazione. Analogamente, se l’impianto non fornisce un servizio di climatizzazione estiva, o se questo è presente ma non necessita di un sistema di trattamento dell’acqua di raffreddamento, è possibile eliminare la parte 2.5 della scheda 2 che altrimenti, non compilata, darebbe adito a dubbi sulla completa compilazione del libretto (richiesta alla voce B del rapporto di controllo di efficienza energetica tipo 2).

TRATTAMENTO DELL’ACQUA DI RAFFREDDAMENTO DELL’IMPIANTO DI CLIMATIZZAZIONE ESTIVA

  1. Nel nuovo modello del libretto di impianto nel riquadro 2.5, cosa si intende per “senza recupero termico”, “ a recupero termico parziale” e “ a recupero termico totale”?In relazione al punto 2.5 del nuovo libretto di impianto si precisa che:

il termine “senza recupero termico” individua i circuiti con acqua a perdere;

il termine “a recupero termico parziale” individua i circuiti in cui l’acqua viene parzialmente riciclata (es. torri evaporative);

il termine “a recupero termico totale ” individua circuiti chiusi.

CONTROLLI DI EFFICIENZA ENERGETICA

  1. Quando e su quali impianti si eseguono i controlli di efficienza energetica?

I controlli di efficienza energetica, si eseguono, ai sensi dell’art.8, comma 1 del D.P.R. 74/2013 “in occasione degli interventi di controllo ed eventuale manutenzione di cui all’articolo 7 su impianti termici di climatizzazione invernale di potenza termica utile nominale maggiore di 10 kW e sugli impianti di climatizzazione estiva di potenza termica utile nominale maggiore di 12 kW, si effettua un controllo di efficienza energetica riguardante:
a) il sottosistema di generazione come definito nell’Allegato A del decreto legislativo;
b) la verifica della presenza e della funzionalità dei sistemi di regolazione della temperatura centrale e locale nei locali climatizzati;

  1. c) la verifica della presenza e della funzionalità dei sistemi di trattamento dell’acqua, dove previsti.”

La cadenza da rispettare è quella dell’allegato A del D.P.R. 74/2013.

L’art. 8, comma 3 del D.P.R. 74/2013, prevede che i controlli di efficienza energetica devono essere inoltre realizzati:

  1. a) all’atto della prima messa in esercizio dell’impianto, a cura dell’installatore;
  2. b) nel caso di sostituzione degli apparecchi del sottosistema di generazione, come per esempio il generatore di calore;
  3. c) nel caso di interventi che non rientrino tra quelli periodici, ma tali da poter modificare l’efficienza energetica.”

Per quanto riguarda le macchine frigorifere e/o pompe di calore, in accordo con la tabella dell’allegato A del D.P.R. 74/2013, si procede al controllo di efficienza energetica solo quando la potenza utile, in una delle modalità di utilizzo (climatizzazione invernale/estiva), è maggiore o uguale a 12 kW.

Per quanto riguarda i limiti degli intervalli di potenza di cui alla nota “1” dell’allegato A del D.P.R. 74/2013 che recita “I limiti degli intervalli sono riferiti alla potenza utile nominale complessiva dei generatori o delle macchine frigorifere che servono lo stesso impianto”, si precisa che per “stesso impianto” si intende che la somma delle potenze va effettuata solo quando le macchine siano al servizio dello stesso sottosistema di distribuzione. Per i singoli apparecchi con potenza inferiore ai valori limite riportati sul suddetto allegato A non si compilano, pertanto, i rapporti di controllo di efficienza energetica.

Circa i limiti delle potenze, (maggiore o uguale o semplicemente maggiore e segni adottati) citati nel comma 1 dell’art. 8 e nell’allegato A del D.P.R. 74/2013, vanno interpretati nel senso di “maggiore o uguale” in accordo con l’art. 9 del D.P.R. 74/2013 che stabilisce i limiti di potenza per gli accertamenti e le ispezioni. Non si possono, infatti, fare gli accertamenti e/o le ispezioni se non sono previsti i controlli di efficienza energetica.

L’articolo 2, comma 2, del DM 10 febbraio 2014, prevede che “gli impianti termici alimentati esclusivamente con fonti rinnovabili” siano esclusi dai controlli di efficienza energetica di cui all’articolo 2, comma 1.

Ai fini della applicazione del DM 10 febbraio 2014, la definizione di “impianti termici alimentati esclusivamente con fonti rinnovabili” resta valida anche in presenza di eventuali consumi elettrici degli ausiliari.

 

PERIODICITÀ DELL’INVIO DEL RAPPORTO DI CONTROLLO DI EFFICIENZA ENERGETICA

  1. Quando deve essere trasmesso il rapporto di controllo di efficienza energetica all’autorità competente?

I commi 1 e 2 dell’art. 8 del D.P.R 74/2013 prevedono l’obbligo di compilazione del rapporto di controllo di efficienza energetica in occasione dell’esecuzione dei controlli ed eventuale manutenzione secondo le indicazioni fornite dall’installatore o dal manutentore ai sensi dell’art. 7 dello stesso decreto.

Il comma 5 dell’art.8 del D.P.R. 74/2013, circa la cadenza di trasmissione del rapporto di controllo di efficienza energetica alla Regione o Provincia autonoma o alle autorità da queste all’uopo designate, rimanda all’allegato A dello stesso decreto. Le suddette cadenze devono, comunque, essere rispettate.

 

REQUISITI MANUTENTORI

  1. Quali sono i requisiti che devono avere i manutentori degli impianti termici e come li devono dimostrare?

Le operazioni di controllo e  manutenzione dell’impianto devono essere eseguite da ditte abilitate ai sensi del decreto del Ministro dello sviluppo economico 22 gennaio 2008, n. 37 (D.M. 37/08), per le tipologie impiantistiche pertinenti. Le tipologie impiantistiche riguardanti gli impianti termici degli edifici sono quelle previsti dalle lettere c) ed e) del suddetto D.M. 37/08. In particolare esse sono:

lettera c) impianti di riscaldamento, di climatizzazione, di condizionamento e di refrigerazione di qualsiasi natura o specie, comprese le opere di evacuazione dei prodotti della combustione e delle condense, e di ventilazione ed aerazione dei locali;

lettera e) impianti per la distribuzione e l’utilizzazione di gas di qualsiasi tipo, comprese le opere di evacuazione dei prodotti della combustione e ventilazione ed aerazione dei locali.
Nella maggior parte dei casi, impianti termici alimentati a gas, occorrono entrambe le abilitazioni che la ditta manutentrice dimostra attraverso un documento rilasciato dalla Camera di Commercio.

Nel caso di impianti con macchine frigorifere contenenti gas serra occorre, inoltre, che l’impresa sia inscritta al registro nazionale delle persone e delle imprese ai sensi del DPR 43/2012.

 

MACCHINE FRIGORIFERE

  1. Per gli impianti con macchine frigorifere e/o pompe di calore è sufficiente compilare e tenere aggiornato il libretto di impianto?

Per le macchine frigorifere, contenenti gas HFC (F-gas) in quantità uguale o superiore a 3 kg, oltre al libretto di impianto, occorre tenere aggiornato il Registro dell’apparecchiatura pubblicato sul sito del Ministero dell’Ambiente. Entro il 31 maggio di ogni anno, anche in assenza di modifiche o interventi sulle apparecchiature, va presentata, inoltre, al Ministero dell’ambiente, per il tramite dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), una dichiarazione contenete informazioni riguardanti la quantità di emissioni in atmosfera di gas fluorurati relativi all’anno precedente sulla base dei dati contenuti nel relativo registro dell’apparecchiatura.

  1. All’articolo 8 comma 9 del DPR 16 aprile 2013, n. 74, è prescritto che le macchine frigorifere e le pompe di calore per le quali nel corso delle operazioni di controllo sia stato rilevato che i valori dei parametri che caratterizzano l’efficienza energetica sono inferiori del 15 per cento rispetto a quelli misurati in fase di collaudo o primo avviamento riportati sul libretto di impianto, devono essere riportate alla situazione iniziale, con una tolleranza del 5 per cento. Manca però una norma tecnica che prescriva le procedure operative e le condizioni di prova. Come garantire l’affidabilità e la ripetibilità dei risultati ottenuti?

Attualmente è disponibile solo una norma tecnica che consente di effettuare il controllo del sottosistema di generazione previsto all’articolo 8 comma 9 del DPR 16 aprile 2013, n. 74 – la UNI 10389-1, per gli impianti con generatore di calore a fiamma. Per le altre tipologie di impianti, in attesa che l’UNI pubblichi le pertinenti norme tecniche o prassi di riferimento, si provvede a redigere e sottoscrivere il relativo rapporto di controllo di efficienza energetica, e le relative pagine del libretto di impianto, senza effettuare il controllo del sottosistema di generazione.

Condominio parziale: Commento a Cass. II, Ord. n. 13229 del 16 maggio 2019

Condominio parziale: il riparto delle spese di ricostruzione di un solo corpo di fabbrica e di condanna al risarcimento dei danni sono a carico dei soli condomini proprietari di immobili cui il bene comune serve anche se la sentenza è emessa nei confronti del condominio generalmente inteso.

Commento a Cass. II, Ord. n. 13229 del 16 maggio 2019. [Prof. Avv. Rodolfo Cusano – Avv. Amedeo Caracciolo]

Premessa

Al fine di analizzare l’interessante arresto giurisprudenziale cui giunge la II sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13229 del 16 maggio 2019 in tema di condominio parziale, è opportuno prendere le mosse dal dato normativo. Premesso il disposto di cui all’art. 1117 c.c. che elenca, salvo titolo contrario, le parti comuni dell’edificio, la norma-cardine in tema di condominio parziale è l’art. 1123 c.c. 3 comma.

Tale norma, pur intitolata alla “ripartizione delle spese” stabilisce espressamente:

Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.

Quindi, il presupposto per l’attribuzione in proprietà comune a tutti i condomini viene meno se le cose, gli impianti e i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei condomini (cfr. Trib. Salerno sent. 1517/2015; Cass. civ. II, n. 1680/2015).

Le conseguenze di ciò si riverberano anche nella gestione del fabbricato, nella ripartizione delle spese e consistono nel fatto che ogni atto ed ogni attività di amministrazione e/o di utilizzazione devono essere compiuti all’interno del condominio parziale, escludendo dai partecipanti quelli che sono proprietari di immobili che non godono di quel servizio o impianto, non ricevendo dallo stesso alcuna utilità.

A conferma di quanto sopra anche l’art. 1136 c.c. (“costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni”), che al penultimo comma, stabilisce: “l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati”. Mentre, antecedentemente alla Riforma, si faceva riferimento ai “condomini”, oggi attraverso la dicitura degli “aventi diritto” il legislatore ha adeguato l’impianto finendo così per riconoscere anche legittimità delle assemblee del “condominio parziale”.

La previsione di cui all’art. 1117 c.c. ed il suo coordinamento con l’art. 1123, 3 comma c.c.

In primo luogo si deve constatare che la legge si riferisce esplicitamente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto. Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio.

Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui, se ci fermassimo nella nostra analisi, tali beni sarebbero comuni a tutti a prescindere dal loro utilizzo ed anche nel caso vi fosse un utilizzo solo da parte di alcuni.

In realtà è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressamente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal collegamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano».

La Cassazione (sent. n. 7885/1994) determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà se si legge il comma in questione1 non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui ad un primo esame, sembrerebbe che questa norma non disciplini affatto la parzialità della titolarità. Infatti, ben potrebbe intendersi nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta comunque in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di sui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde al quesito sottolineando come il terzo comma dell’art. 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddividono tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente» tanto è vero che: «Posto che l’art. 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’art. 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: « In realtà, l’art. 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. III comma, la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito divieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

Il caso affrontato dalla Cassazione

La fattispecie oggetto di analisi da parte della Suprema Corte attiene al riparto delle spese di risanamento di alcuni pilastri di un complesso immobiliare costituito da tre corpi di fabbrica separati da giunti tecnici. Siamo, quindi, in presenza di tre fabbricati distinti tra di loro per tipologia costruttiva e che a loro volta danno luogo a tre distinti condomini. Invero, il nesso di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive sia estese in verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (cd. “condominio orizzontale”).

Ora, con riferimento al caso in commento, veniva impugnata una delibera assembleare che approvava la ripartizione delle spese – effettuata in base ai millesimi di proprietà generale dell’intero complesso edilizio – per il risanamento di alcuni pilastri posti al di sotto di in solo corpo di fabbrica.

La Cassazione, dopo aver delineato caratteri, presupposti, contenuto e limiti dell’istituto del condominio parziale, conferma la validità, per questo singolo caso concreto, della ripartizione effettuata per tabella generale di proprietà relativa a tutte e tre i fabbricati.

Ed infatti, seguendo gli accertamenti cui si era pervenuti in sede dei giudizi di merito, a dare prova della corretta ripartizione era proprio la circostanza che i pilastri pur risultando strutturalmente portanti per un solo corpo di fabbrica essi sostenevano non solo l’edificio sovrastante ma anche altri elementi comuni a tutti gli altri edifici (nel caso de quo un camminamento su porticato esterno condominiale). Diversamente, ove detti pilastri avessero avuto la funzione di servire solo il relativo corpo di fabbrica, il riparto delle spese per gli interventi di consolidamento avrebbe dovuto essere improntato al differente criterio di cui al terzo comma dell’art. 1123 c.c. 3° comma. Ciò in ossequio al principio di cui all’istituto del condominio parziale.

Oneri condominiali – Prescrizione

La mancata impugnativa del rendiconto comporta il pagamento anche degli oneri condominiali arretrati ivi indicati e già prescritti –  Commento a Cass n.  27849/2021

La fattispecie esaminata dal Supremo Consesso ha notevole importanza nell’ambito delle obbligazioni condominiali, ed ha a riferimento una causa di opposizione a Decreto ingiuntivo per oneri condominiali,  approvati  su rendiconto che riportava anche i crediti relativi ad anni pregressi e  per i quali a dire dell’opponente era già maturata la prescrizione.

L’appello era stato già respinto perché il Tribunale di Genova aveva rilevato: che era pur vero che la delibera di approvazione delle spese era riferita a gestioni precedenti al 2017, ma che essa non era stata impugnata. Secondo detta sentenza (di II grado) in mancanza di impugnativa nessuna contestazione poteva più essere mossa al consuntivo che conteneva l’indicazione delle causali delle spese anche con riferimento alle gestioni pregresse.

Quasi pedissequamente ha avuto a disporre la sentenza in rassegna. Essa ha, quindi, il notevole pregio da un lato di aver dato certezza alla problematica non certo facile, dall’altro di costituire una vera e propria arma in mano agli amministratori che, a scanso di proprie responsabilità, potranno semplicemente riportare ogni anno nel rendiconto anche il dovuto per ogni moroso indicandone la causale.

La sentenza della Suprema Corte ha anche il pregio di  aver precisato le caratteristiche che deve avere questa approvazione: “ Va ribadito che il consuntivo per successivi periodi di gestione che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative ad annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’art. 1137 c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti del singolo partecipante, pur costituendo “un nuovo fatto costitutivo del credito” stesso (cfr. Cass. 4489/2014; Cass. 20006/2020).

In tale caso vige il principio che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, concernente il pagamento dei contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su di esso gravante con la produzione del verbale di assemblea condominiale con cui siano state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. 7569/1994).”

Ciò porta a ritenere, in armonia con quanto indicato nella sentenza, che la delibera di approvazione costituisce il titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo ma anche la condanna del condomino a pagare le somme: laddove l’ambito dell’opposizione è ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza e validità della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. SS.UU. 26629/2009; Cass. 5254/2011; Cass. 4672/2017).

SUGGERIMENTO

Un consiglio molto utile agli amministratori diventa conseguenzialmente quello di riportare in ogni consuntivo l’indicazione di tutte morosità (anche quelle pregresse) con le relative causali e l’imputazione al singolo condomino. Si suggerisce anche di indicare nella relazione illustrativa che: “per detti crediti si fa espressamente richiesta di pagamento e che la presente richiesta è valida anche ai fini interruttivi della prescrizione”.

 L’indirizzo, ormai costante potremmo dire anche per l’applicazione che oggi ne danno i giudici di merito (per tutti vedi il Tribunale di Roma di seguito meglio indicato), è quello che la delibera di approvazione del rendiconto è munita della forza propria degli atti collegiali ai sensi del I comma dell’art. 1137 c.c. (Cass. 4306/2018) per cui da ciò discende l’insorgenza e quindi anche la prova dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni dell’edificio (Cass. 11981/1992).

A dare conferma a tale indirizzo è stato il Tribunale di  Roma con la recente sentenza n. 8724 del 17.6.2020, con cui si è ritenuto che: se è evidente che non può ritenersi viziato un rendiconto che riporti un credito verso un condominio di cui non è già maturata la prescrizione, non può dirsi altrettanto se la prescrizione sia già maturata ed il condomino interessato intenda farla valere: altrimenti il rendiconto riporterebbe, in modo oggettivamente inveritiero, un credito non più esistente”.

Per completezza di disamina dobbiamo anche ricordare che il rendiconto condominiale ” funge contemporaneamente da atto riepilogativo della situazione finanziaria del condominio e da elemento di un vero e proprio “negozio con funzione ricognitiva della situazione preesistente, cioè dell’esecuzione del mandato, e costitutiva di un’attuale obbligazione diretta a definire un regolamento d’interessi” collegato con il preesistente rapporto gestorio. Sotto il primo aspetto, la deliberazione assembleare di approvazione ha un valore ricognitivo e conformativo, mentre, sotto il secondo aspetto, costituisce approvazione del rendiconto, reso dal mandatario amministratore, del proprio operato gestorio (Trib. Roma sez. V, 30/04/2019, n. 9011).

Se a ciò si aggiunge che come già prima abbiamo detto, nulla vieta all’amministratore, entro il termine di prescrizione delle spese condominiali, di convocare l’assemblea per l’approvazione di un nuovo stato di riparto, comprensivo di tutte le quote scadute pregresse dovute dai condomini, tale che anche i saldi degli esercizi precedenti entrano a far parte di un unico rendiconto che qualora riporti anche crediti prescritti, se contestato dal singolo condomino, va impugnato nei termini di cui all’art. 1137 c.c. (Trib. Napoli sez. IV, 03/10/2019, n. 8712), altrimenti esso stesso rendiconto costituisce la prova del dovuto per tutti gli anni ivi indicati.

Una possibilità in meno di sottrarsi al pagamento per i condomini morosi.