La morosità idrica

Cosa è e quando si parla di morosità idrica?

Passa per il condominio il Ddl 2343 del Senato , che esamina in prima lettura l’iter delle nuove norme su «Princìpi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque». Ma quello che interessa maggiormente i condomini di uno stabile è l’articolo 7 quando specifica che «È assicurata, quale diritto fondamentale di ciascun individuo, l’erogazione gratuita di un quantitativo minimo vitale di acqua necessario al soddisfacimento dei bisogni essenziali, che deve essere garantita anche in caso di morosità; tale quantitativo è individuato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri nel limite massimo di 50 litri giornalieri per persona, tenendo conto dei valori storici di consumo e di dotazione pro capite».

Morosità idrica: come stabilire chi è in ritardo con i pagamenti?

Spetta all’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico il compito di stabilire come i gestori debbano individuare i soggetti con una morosità idrica “incolpevole”,basandosi sull’indicatore dell’Isee. Secondo Marco Manunta, presidente della XIII Sezione del Tribunale di Milano, “sarebbe già applicabile il principio della contabilizzazione diretta in applicazione del Dpcm del 4 marzo 1996, richiamato dall’articolo 146 lettera f) del Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006) dove al punto 8.2.8 si legge che «È fatto obbligo al gestore di offrire agli utenti l’opportunità di fare eseguire a sua cura, dietro compenso e senza diritto di esclusività, le letture parziali e il riparto fra le sottoutenze e comunque proporre procedure standardizzate per il riparto stesso». Questa norma permetterebbe quindi di attivare anche la riscossione tramite l’acquedotto. In questo modo si eviterebbero la conseguenze che le morosità di alcuni, magari incolpevoli, causino la sospensione dell’erogazione all’intero edificio“.

Questo Ddl, in discussione al Senato, potrebbe finalmente dare le risposte, che da tanto si aspettano, relative al problema della morosità delle spese idriche.

Infiltrazioni per lavori fatti male: Chi ne paga le conseguenze?

Secondo l’art. 2051 c.c., “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.
Ma cosa accade quando il danno non è accidentale, ma diretta conseguenza della poca accortezza di ditte maldestre, come per esempio infiltrazioni per lavori fatti male?
In materia di condominio degli edifici, solitamente il custode delle parti comuni è l’amministratore nominato dall’assemblea il quale, ex art. 1130 c.c., deve compiere tutti “gli atti conservativi” di tutti i beni condominiali comuni.
Inoltre, l’amministratore, che fra le altre cose è il rappresentante del condominio, può e deve rispondere direttamente degli eventuali danni cagionati dai beni comuni sia in sede civile che, ove il caso lo richieda, in sede penale.
Invero, ex art. 40 c.p.non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Chi paga i danni causati da infiltrazioni per lavori fatti male?

Una volta precisato ciò, è necessario evidenziare come “anche nel caso in cui i lavori di manutenzione non siano stati effettuati a regola d’arte, e quindi salva la possibilità del condominio stesso di rivalersi successivamente nei confronti dell’impresa appaltatrice e/o nei confronti della compagnia di assicurazione di quest’ultima, il condominio resta comunque il diretto responsabile dei danni causati dalle parti comuni ai singoli condomini“.
Ciò è stato o recentemente ribadito dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale “Il condominio, quale custode delle parti comuni, risponde in via autonoma, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal condomino a causa di infiltrazioni d’acqua provenienti dalle pareti perimetrali comuni, salva la prova del caso fortuito.” (cfr. Trib. Monza, 07/05/2013).
Pertanto, il singolo condomino che abbia subito un danno causato da  infiltrazioni per lavori fatti male in una parte comune dello stabile, come per esempio il tetto dell’edificio, può affidare al condominio, in persona dell’amministratore, al risarcimento di tutti i danni subiti.
Nel caso in cui, alla diffida presentata dal condomino, l’amministratore non dovesse dare alcun riscontro, questi potrà agire rivolgendosi alle sedi giudiziarie competenti. A sua volta, l’amministratore, in qualità di rappresentante del condominio, potrà rivalersi sull’impresa che ha eseguito male i lavori causando i danni al singolo condomino.

Collaborazione tra ‘visuristi’ e amministratori

Con la modifica dell’art. 1130 c.c. si è stabilito che “l’amministratore deve curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali questa “dettagliata banca dati” mira non solo a delineare l’identikit dei condomini e delle relative unità abitative, ma anche a scoprire eventuali evasioni“. In poche parole, l’introduzione di questo nuovo registro fa sì che l’amministratore possa stabilire con certezza il titolare dell’immobile, ovvero di capire chi è il soggetto che successivamente dovrà essere convocato in assemblea. Ciò significa che deve venirsi a creare una collaborazione tra ‘visuristi’ e amministratori. Scopriamo insieme come e perché.

Creare una collaborazione tra ‘visuristi’ e amministratori

L’individuazione dei titolari dei diritti reali e dei diritti personali di godimento avviene attraverso la consultazione delle banche dati dei pubblici registri immobiliari presso le Conservatorie o attraverso la banca dati telematica dell’Agenzia delle Entrate. Strumenti, questi, che possono tranquillamente essere consultati da tutti i cittadini compresi quindi gli amministratori di condominio“. Ma non è tutto così semplice come può sembrare, visto che c’è una difficoltà ad individuare il vero soggetto titolare dei diritti reali che, fra le altre cose, è rappresentata dalla capacità di leggere e interpretare proprio questi documenti. Inoltre, non sempre c’è una precisa ed esatta comunicazione delle reali generalità del titolare dell’immobile. Quindi, visto lo stato dei fatti, “l’amministratore, per ovviare a questo spiacevole inconveniente, può ricorrere alla collaborazione dell’esperto visurista in quanto è in grado di fornire la certezza dei dati attraverso ispezioni ipocatastali e conseguente relazione tecnico giuridica sulla reale disponibilità dell’immobile. In questo modo, con questa certezza di dati, l’amministratore di condominio può mettere in sicurezza l’anagrafica condominiale e conseguentemente convocare in assemblea le persone giuste, ovvero quelle che possono disporre, immediatamente e senza condizioni, l’approvazione dei bilanci e delle spese condominiali , sia ordinarie che straordinarie“.

Il rapporto di collaborazione tra ‘visuristi’ e amministratori

Il rapporto di collaborazione che viene a crearsi tra l’esperto visurista e l’amministratore di condominio può anche avere altri sbocchi. Per esempio, nel caso in cui si dovesse necessariamente procedere al recupero di eventuali spese non pagate da un condòmino, questa collaborazione tra le due figure potrebbe portare ad una fotografia con i dati certi su eventuali gravami insistenti sugli immobili (ad esempio ipoteche, sequestri e così via). Cosa questa che permetterebbe all’amministratore di iniziare la sua azione di recupero del credito dovuto, mediante azioni legali, quali per esempio il pignoramento immobiliare. “Altre cose che l’esperto visurista è in grado di fornire all’amministratore di condominio riguardano l’individuazione delle parti comuni, delle pertinenze e di aggiornamento dell’ intestazione della scheda catastale“.

Stop agli abusi dell’area destinata al parcheggio!

Stop agli abusi dell’area destinata a parcheggio: il comproprietario di un’area di parcheggio che blocca l’accesso o l’uscita alle altre automobili commette una «molestia possessoria», anche se questi lascia sempre le chiavi nel cruscotto per consentire agli altri di spostare tranquillamente la sua macchina. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 10624/2016 , respingendo il ricorso di una condòmina che, da più di un anno, era solita lasciare la sua macchina parcheggiata in modo da impedire le manovre ad un’altra comproprietaria che precedentemente aveva costruito nell’area comune una tettoia sotto la quale lasciava l’auto.

Stop agli abusi dell’area destinata al parcheggio: Il caso

Inizialmente, la signora che era solita abusare dello spazio destinato al parcheggio, aveva avuto partita vinta. Infatti, il Tribunale aveva respinto la richiesta di una delle due contendenti di “essere reintegrata nel possesso dei due posti auto sotto la pensilina“, ritenendo “non provato il possesso esclusivo dello spazio posto nell’area comune“. Per la Corte d’Appello, invece, il punto centrale non era tanto il possesso dei posti sotto la tettoia, bensì il parcheggio “selvaggio” che impediva le manovre a chiunque volesse parcheggiare la propria auto sotto la tettoia, e dello stesso avviso sono stati i giudici della Cassazione. Nella fattispecie, secondo i giudici della seconda sezione “la molestia possessoria era nell’impedire l’entrata e l’uscita da parte degli altri comproprietari. L’aver disposto la cessazione della turbativa anziché la reintegrazione del possesso rientra – sottolinea la Suprema corte – nell’esercizio del potere di interpretazione della domanda che spetta al giudice. La mera turbativa costituisce, infatti, un minus rispetto allo spoglio e nella domanda di reintegrazione del possesso è ricompresa o implicita quella di manutenzione dello stesso”. I giudici ricordano che in base all’articolo 1102, comma 2 il partecipante alla comunione non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri. Il comune possesso trova dunque una tutela contro tutte le attività con le quali “uno dei compossessori comproprietari, introduca una modificazione che sopprima o turbi il compossesso degli altri”. Invece, è del tutto ininfluente la giustificazione della signora di lasciare le chiavi nel cruscotto.

Inviare una lettera offensiva all’amministratore è diffamazione

Inviare una lettera offensiva all’amministratore è diffamazione. Inutili tutti i tentavi dell’imputato per far dichiarare questo comportamento un reato di ingiuria, sperando, fra le altre cose, di poter godere della depenalizzazione che ha avuto questo reato, a seguito dell’entrata in vigore del Dlgs 7 /2016 che ha cancellato questo reato penale, trasformandolo in un illecito civile.
Ma procediamo con ordine. Tutto è iniziato con una lettera che un tecnico (l’imputato) aveva scritto, dando del “mentecatto” all’amministratore di una multiproprietà, anche la sua intenzione era quella di fare delle precisazioni in ordine al pagamento dei suoi onorari e in risposta ad una lettera della persona offesa (amministratore) che ne pretendeva la gratuità. Inoltre, la missiva era stata inviata, non solo all’amministratore, ma anche ad altri soggetti residenti nel condominio.
Per questo motivo, sia i giudici di primo che quelli di secondo grado hanno dichiarato l’imputato colpevole di diffamazione ai danni dell’amministratore, e pertanto lo hanno condannato al pagamento di una multa nonché al risarcimento dei danni causati alla parte civile.
Ritenendo ingiusta la condanna, però, l’imputato ha deciso di  inoltrare ricorso per cassazione, invitando i giudici a pensare che potesse trattarsi di  ingiuria aggravata in quanto lo scritto, contente l’offesa alla reputazione dell’amministratore, era stato indirizzato anche,e non soltanto, al medesimo.

Inviare una lettera offensiva all’amministratore costituisce diffamazione: anche la Corte di cassazione lo conferma

Anche i supremi giudici, richiamando precedenti pronunce, con la sentenza n. 18919/2016 che nel caso «l’offesa sia contenuta in una missiva diretta ad una pluralità di destinatari, oltre l’offeso, non può considerarsi concretata la fattispecie dell’ingiuria aggravata dalla presenza di altre persone, proprio per la non contestualità del recepimento delle offese medesime per la conseguente maggiore diffusione delle stesse».
Nella fattispecie in esame, non sussiste. a loro avviso,  “il delitto di ingiuria ma quello di diffamazione in quanto la lettera era stata indirizzata ad altri due condomini ed era stata letta anche da altre persone che facevano parte dell’amministrazione in quanto la lettera era stata inviata impersonalmente all’amministratore di condomino (senza aver precisato riservata-personale) e, quindi, nella piena consapevolezza che la stessa poteva essere posta a conoscenza anche di altre persone e che comunque sarebbe stata protocollata agli atti dell’amministrazione a disposizione di chiunque vi potesse accedere» (Cassazione, sentenza 18919/2016 ).
Così è stato condannato per il reato di diffamazione l’amministratore che, in una lettera inviata a tutto il condominio, riportava le espressioni ingiuriose pronunciate durante l’assemblea nei confronti di due condomini.
Secondo i giudici di legittimità «il diritto-dovere dell’amministratore di informare il Condominio dei fatti avvenuti nel corso dell’assemblea deve accordarsi con l’interesse delle persone offese a che le frasi contro la propria reputazione non vengano ulteriormente diffuse” (Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sentenza n 44387/2015).
Inoltre, sempre secondo i Supremi Giudici, anche affiggere nel portone del condominio i nominativi dei morosi è diffamazione poiché, si legge in sentenza, “non vi è alcun interesse da parte di terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri” (Cassazione, sentenza 39986/2014).

Solo se il giudice accerta una grave irregolarità contabile l’amministratore può essere revocato

In presenza di una delle ipotesi di gravi irregolarità previste dall’art. 1129 c.c., la revoca dell’amministratore non scatta automaticamente, ma può essere disposta dal giudice solo se venga ravvisato in concreto un comportamento contrario ai doveri imposti dalla legge.

Lo ha stabilito il Tribunale di Mantova che, con sentenza del 22 ottobre 2015, ha rigettato il ricorso proposto dai condomini per la revoca dell’amministratore, colpevole di aver presentato in ritardo il rendiconto condominiale e di non aver convocato l’assemblea per l’approvazione.

Nella fattispecie, l’amministratore aveva ritardato la predisposizione del rendiconto annuale e, di conseguenza, non aveva convocato l’assemblea dei condomini per l’approvazione del conto entro i termini stabiliti dal regolamento di condominio, e nemmeno entro il termine imposto dall’art. 1130 c.c. Il giudice lombardo, tuttavia, ha respinto la richiesta di revoca valutando positivamente le giustificazioni addotte dall’amministratore, che non aveva potuto adempiere ai propri doveri a causa della mancata disponibilità della documentazione contabile necessaria per predisporre il bilancio.

La sentenza esprime un interessante principio di diritto secondo il quale la sussistenza di una delle ipotesi di gravi irregolarità elencate nel nuovo art. 1129 c.c. – elenco peraltro non tassativo – non comporta automaticamente la revoca dell’amministrazione dall’incarico, spettando sempre al giudice l’ultima parola in ordine all’accertamento dell’effettivo comportamento contrario alla legge, da valutare caso per caso in relazione alle circostanze in cui l’amministratore si trova ad operare.

Si legge infatti del provvedimento: “l’art. 1129 c.c. prevede che l’Autorità Giudiziaria, in presenza di gravi irregolarità, può disporre la revoca dell’amministratore, ciò che impone al Giudice di verificare se, pur ricorrendo in astratto una ipotesi rientrante nell’ambito della previsione normativa, sussista nel caso concreto un comportamento contrario ai doveri imposti per legge, con esclusione pertanto di ogni automatismo”.

Nel caso preso in esame, la mancata predisposizione del rendiconto condominiale e la ritardata convocazione della assemblea erano state determinate dalla oggettiva impossibilità di ricostruire l’esatta contabilità delle forniture del gas, voce questa che da sola rappresentava l’80% del bilancio condominiale.

Il Condomino che si distacca dall’impianto centralizzato paga tutte le spese

Il condòmino che rinuncia al riscaldamento centralizzato, distaccandosi dall’impianto comune, è tenuto a pagare, oltre alle spese per la manutenzione straordinaria, anche quelle per la manutenzione ordinaria dell’impianto. Lo hanno deciso, a sorpresa, i giudici della Corte d’appello di Milano, con la Sentenza n.3360 del 31 luglio 2015 , che ha condannato il proprietario di un alloggio inserito in un condominio, a pagare le spese relative al funzionamento dell’impianto di riscaldamento centralizzato e alla sua manutenzione, anche dopo l’avvenuto distacco.

Una sentenza che interpreta in modo singolare l’articolo 1118 del Codice civile «Diritti dei partecipanti sulle cose comuni», sensibilmente integrato dalla Legge di riforma del 2012. La norma stabilisce, infatti, che “il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”.

Nonostante si faccia chiaramente riferimento alle sole spese di manutenzione straordinaria, per i giudici di secondo grado nelle spese per la «conservazione dell’impianto» rientrerebbero anche quelle per la manutenzione ordinaria, poiché «se non viene mantenuto in via ordinaria, il bene è destinato a deteriorarsi».

Inoltre, aggiunge la Corte, «il condomino non può certo conseguire il risultato di preservare, a spese degli altri comunisti – spese attinenti alla citata manutenzione ordinaria -, il valore della propria unità abitativa». In sostanza, anche dopo essersi distaccato dall’impianto centralizzato, il condomino deve continuare a pagare tutte le spese che riguardano lo stesso impianto, che è a tutti gli effetti una parte comune dell’edificio a cui in futuro il condomino «potrebbe sempre riallacciarsi».

L’interpretazione dei giudici della Corte d’appello è decisa, anche rispetto alla sentenza emessa un anno prima dalla Cassazione (n. 9526 del 30 aprile 2014), che si era espressa su un condòmino che aveva rinunciato anch’egli al riscaldamento centralizzato; in quel caso specifico, però, i giudici si erano limitati ad affermare come lo stesso condòmino fosse tenuto a pagare le spese per la manutenzione ordinaria (oltre a quelle per la manutenzione straordinaria) solo nel caso in cui, a distacco avvenuto, gli altri condòmini non avessero avuto un risparmio sui consumi. Una condizione peraltro dettata dall’articolo 1118 del Codice civile, che contempla il distacco, ma solo a patto che l’operazione non comporti «aggravi di spesa per gli altri condomini».

L’antenna per i cellulari paga Ici e Imu

Le antenne di telefonia mobile sono da accatastare in categoria D e quindi sono soggette a Ici e a Imu. È questa l’importante conclusione cui è pervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24026 depositata il 25 Novembre 2015 che ha visto vincere il comune ricorrente assistito dall’Anutel.

La sentenza è importante perché, da un lato, conferma l’applicazione di principi già utilizzati in casi similari, quali gli impianti eolici, e, dall’altro lato, interviene a ridosso di pronunce di merito che non sembrano far tesoro delle pronunce della Corte. È emblematico che per un caso identico, relat la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza n.425 depositata il 9 novembre 2015 abbia ritenuto che l’antenna vada accatastata in categoria E.

La Cassazione conferma l’operato del catasto, che già con circolare 16 maggio 2006, n. 4 si era occupata in modo dettagliato dell’accatastamento delle antenne della telefonia mobile, distinguendo il caso delle antenne istallate su edifici esistenti da quello su aree di terreno all’uopo destinate.

Nel primo caso si tratta di antenne ancorate ai muri o sostenute da piccoli tralicci e dai relativi impianti elettrici ed elettronici. Se le apparecchiature elettroniche sono custodite nell’ambito di locali già esistenti, allora, ad avviso dell’Agenzia, non si configura un obbligo di accatastamento. Se, invece, le apparecchiature elettroniche vengono ospitate in specifiche aree e locali, preesistenti o di nuova costruzione, i manufatti devono essere dichiarati in catasto o in forma autonoma o come variazione della preesistente unità immobiliare.

Nel caso invece, come quello analizzato dalla Cassazione, di antenne collocate in un’area di terreno, di solito recintata, all’interno della quale è installato su platea di calcestruzzo un traliccio cui sono fissate le antenne, sussiste l’obbligo di procedere all’accatastamento.

Le puntuali indicazioni dell’agenzia del Territorio non sono state però integralmente recepite da parte della giurisprudenza di merito che ha continuato a ritenere corretto l’accatastamento in categoria E in ragione di una supposta preordinazione ad un’esigenza pubblica svolta dalle antenne. Motivazioni queste che erano state già escluse con riferimento agli impianti eolici (Cassazione n. 4030/2012; n. 4498/2012; n. 1979/2015), in quanto ininfluenti ai fini di un corretto accatastamento, anche alla luce di quanto previsto dall’art.2, comma 4 del Dl n. 262/2006, il quale prevede che nella categoria catastale E non possono essere compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale. Ad avviso della Corte, la norma stabilisce una sorta di intrinseca incompatibilità tra la destinazione ad uso commerciale o industriale di un immobile e la possibile classificabilità in categoria E.

Peraltro, la Corte aveva già scrutinato la natura dell’antenna di telefonia nella sentenza n. 25837/2008, osservando che «il traliccio in questione ed annessa cabina, alla stregua dall’art. 873 c.c. e della consolidata giurisprudenza di questa Corte, 7285/05-12045/02-2228/01, debbano considerarsi a tutti gli effetti costruzioni: ossia opere aventi caratteri di solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo».

A CHI ADDEBITARE LE SPESE POSTALI ?

In tema di ripartizione delle spese condominiali, deve considerarsi nulla e come tale impugnabile anche fuori dal termine di trenta giorni, previsto dall’articolo 1137 del Codice civile, la delibera assembleare con la quale si addebitano a un condòmino spese di gestione specifiche se questi non le abbia espressamente accettate.

Questa, in sintesi,la decisione resa dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 7103, depositata in cancelleria il 9 giugno 2015 . La delibera così adottata, specifica il giudice, può essere impugnata dal diretto interessato anche se lo stesso abbia concorso all’approvazione del rendiconto e del riparto, senza con ciò assumere l’obbligazione di pagamento. In sostanza, questo si deduce dalla sentenza, un conto è approvare i conteggi di gestione, altro assumere l’impegno di pagare una spesa che, in una situazione di normalità, dovrebbe essere ripartita tra tutti i comproprietari.

Il caso che ha portato a questa decisione è di quelli molto ricorrenti: nel corso dell’anno l’amministratore intrattiene uno scambio di corrispondenza con un condòmino. Al momento della presentazione all’assemblea del rendiconto di gestione, l’amministratore pone a carico del destinatario delle sue missive le spese ad esse riferibili, pari a circa 50 euro. Il condomino non ci sta e impugna quella delibera: a suo modo di vedere la ripartizione così approvata dall’assemblea è da ritenersi nulla perché le spese postali dovevano essere considerate spese di amministrazione e come tali ripartite tra tutti i condòmini sulla base dei millesimi di proprietà.

In questo contesto, il Tribunale di Milano ha ritenuto errato l’addebito delle spese postali al singolo condomino. In primo luogo, richiamando quella giurisprudenza di Cassazione secondo la quale l’assemblea non può addebitare al singolo spese per cause che l’hanno visto come controparte del condominio, se non v’è stata dichiarazione giudiziale di soccombenza in tal senso (Cassazione, sentenza 14696/08).

In sostanza, per il giudice milanese la pronuncia in questione ha carattere generale ed incide su ogni genere di spesa asseritamente personale. Non solo: la sentenza 7103 cita un precedente del Tribunale di Napoli (sentenza 12015 del 29 novembre 2003) per la quale proprio le spese postali devono essere considerate spese generali di amministrazione e di conseguenza devono essere tra tutti i condòmini in base ai millesimi di proprietà. Per la pronuncia in esame, nel concetto di spese personali rientrano, ad esempio, le spese per le copie di documentazione dalla quale si è chiesta copia.

Ripartizione spese lastrico solare e risarcimento danni

In base a quanto disposto dall’art. 1126 c.c. le spese per la riparazione o la ricostruzione del lastrico solare sono ripartite per un terzo a carico del condomino che ne ha l’uso esclusivo e per i restanti due terzi a carico di tutti i condomini dell’edificio, o della parte di questo, a cui il lastrico funge da copertura.

Relativamente al risarcimento dei danni provocati dall’infiltrazione, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che “dei danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal terrazzo a livello deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti i condomini tenuti alla sua manutenzione, secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 cod. civ., senza che rilevi la riconducibilità delle infiltrazioni a difetti ricollegabili alle caratteristiche costruttive” (Cass. civ. Sez. III, 25-08-2014, n. 18164).

Per mera completezza espositiva, si evidenzia però anche che secondo altro orientamento della Suprema Corte, la ripartizione secondo i canoni di cui all’art. 1126 c.c. si riferisce alle riparazioni dovute a vetustà e non a quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario.

In tale ultima ipotesi, “ove trattasi di difetti suscettibili di recare danno a terzi, la responsabilità relativa, sia in ordine alla mancata eliminazione delle cause del danno che al risarcimento, fa carico in via esclusiva al proprietario del lastrico solare, ex art. 2051 cod. civ. , e non anche – sia pure in via concorrenziale – al condominio” (Cass. civ. Sez. II, 15-04-2010, n. 9084).

In conclusione si rileva, in via generale ed astratta, che qualora le infiltrazioni siano dovute a vetustà dell’opera, anche i relativi danni prodotti vanno ripartiti in base al disposto dell’art. 1126 c.c.