Solo se il giudice accerta una grave irregolarità contabile l’amministratore può essere revocato

In presenza di una delle ipotesi di gravi irregolarità previste dall’art. 1129 c.c., la revoca dell’amministratore non scatta automaticamente, ma può essere disposta dal giudice solo se venga ravvisato in concreto un comportamento contrario ai doveri imposti dalla legge.

Lo ha stabilito il Tribunale di Mantova che, con sentenza del 22 ottobre 2015, ha rigettato il ricorso proposto dai condomini per la revoca dell’amministratore, colpevole di aver presentato in ritardo il rendiconto condominiale e di non aver convocato l’assemblea per l’approvazione.

Nella fattispecie, l’amministratore aveva ritardato la predisposizione del rendiconto annuale e, di conseguenza, non aveva convocato l’assemblea dei condomini per l’approvazione del conto entro i termini stabiliti dal regolamento di condominio, e nemmeno entro il termine imposto dall’art. 1130 c.c. Il giudice lombardo, tuttavia, ha respinto la richiesta di revoca valutando positivamente le giustificazioni addotte dall’amministratore, che non aveva potuto adempiere ai propri doveri a causa della mancata disponibilità della documentazione contabile necessaria per predisporre il bilancio.

La sentenza esprime un interessante principio di diritto secondo il quale la sussistenza di una delle ipotesi di gravi irregolarità elencate nel nuovo art. 1129 c.c. – elenco peraltro non tassativo – non comporta automaticamente la revoca dell’amministrazione dall’incarico, spettando sempre al giudice l’ultima parola in ordine all’accertamento dell’effettivo comportamento contrario alla legge, da valutare caso per caso in relazione alle circostanze in cui l’amministratore si trova ad operare.

Si legge infatti del provvedimento: “l’art. 1129 c.c. prevede che l’Autorità Giudiziaria, in presenza di gravi irregolarità, può disporre la revoca dell’amministratore, ciò che impone al Giudice di verificare se, pur ricorrendo in astratto una ipotesi rientrante nell’ambito della previsione normativa, sussista nel caso concreto un comportamento contrario ai doveri imposti per legge, con esclusione pertanto di ogni automatismo”.

Nel caso preso in esame, la mancata predisposizione del rendiconto condominiale e la ritardata convocazione della assemblea erano state determinate dalla oggettiva impossibilità di ricostruire l’esatta contabilità delle forniture del gas, voce questa che da sola rappresentava l’80% del bilancio condominiale.

Il Condomino che si distacca dall’impianto centralizzato paga tutte le spese

Il condòmino che rinuncia al riscaldamento centralizzato, distaccandosi dall’impianto comune, è tenuto a pagare, oltre alle spese per la manutenzione straordinaria, anche quelle per la manutenzione ordinaria dell’impianto. Lo hanno deciso, a sorpresa, i giudici della Corte d’appello di Milano, con la Sentenza n.3360 del 31 luglio 2015 , che ha condannato il proprietario di un alloggio inserito in un condominio, a pagare le spese relative al funzionamento dell’impianto di riscaldamento centralizzato e alla sua manutenzione, anche dopo l’avvenuto distacco.

Una sentenza che interpreta in modo singolare l’articolo 1118 del Codice civile «Diritti dei partecipanti sulle cose comuni», sensibilmente integrato dalla Legge di riforma del 2012. La norma stabilisce, infatti, che “il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”.

Nonostante si faccia chiaramente riferimento alle sole spese di manutenzione straordinaria, per i giudici di secondo grado nelle spese per la «conservazione dell’impianto» rientrerebbero anche quelle per la manutenzione ordinaria, poiché «se non viene mantenuto in via ordinaria, il bene è destinato a deteriorarsi».

Inoltre, aggiunge la Corte, «il condomino non può certo conseguire il risultato di preservare, a spese degli altri comunisti – spese attinenti alla citata manutenzione ordinaria -, il valore della propria unità abitativa». In sostanza, anche dopo essersi distaccato dall’impianto centralizzato, il condomino deve continuare a pagare tutte le spese che riguardano lo stesso impianto, che è a tutti gli effetti una parte comune dell’edificio a cui in futuro il condomino «potrebbe sempre riallacciarsi».

L’interpretazione dei giudici della Corte d’appello è decisa, anche rispetto alla sentenza emessa un anno prima dalla Cassazione (n. 9526 del 30 aprile 2014), che si era espressa su un condòmino che aveva rinunciato anch’egli al riscaldamento centralizzato; in quel caso specifico, però, i giudici si erano limitati ad affermare come lo stesso condòmino fosse tenuto a pagare le spese per la manutenzione ordinaria (oltre a quelle per la manutenzione straordinaria) solo nel caso in cui, a distacco avvenuto, gli altri condòmini non avessero avuto un risparmio sui consumi. Una condizione peraltro dettata dall’articolo 1118 del Codice civile, che contempla il distacco, ma solo a patto che l’operazione non comporti «aggravi di spesa per gli altri condomini».

L’antenna per i cellulari paga Ici e Imu

Le antenne di telefonia mobile sono da accatastare in categoria D e quindi sono soggette a Ici e a Imu. È questa l’importante conclusione cui è pervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24026 depositata il 25 Novembre 2015 che ha visto vincere il comune ricorrente assistito dall’Anutel.

La sentenza è importante perché, da un lato, conferma l’applicazione di principi già utilizzati in casi similari, quali gli impianti eolici, e, dall’altro lato, interviene a ridosso di pronunce di merito che non sembrano far tesoro delle pronunce della Corte. È emblematico che per un caso identico, relat la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza n.425 depositata il 9 novembre 2015 abbia ritenuto che l’antenna vada accatastata in categoria E.

La Cassazione conferma l’operato del catasto, che già con circolare 16 maggio 2006, n. 4 si era occupata in modo dettagliato dell’accatastamento delle antenne della telefonia mobile, distinguendo il caso delle antenne istallate su edifici esistenti da quello su aree di terreno all’uopo destinate.

Nel primo caso si tratta di antenne ancorate ai muri o sostenute da piccoli tralicci e dai relativi impianti elettrici ed elettronici. Se le apparecchiature elettroniche sono custodite nell’ambito di locali già esistenti, allora, ad avviso dell’Agenzia, non si configura un obbligo di accatastamento. Se, invece, le apparecchiature elettroniche vengono ospitate in specifiche aree e locali, preesistenti o di nuova costruzione, i manufatti devono essere dichiarati in catasto o in forma autonoma o come variazione della preesistente unità immobiliare.

Nel caso invece, come quello analizzato dalla Cassazione, di antenne collocate in un’area di terreno, di solito recintata, all’interno della quale è installato su platea di calcestruzzo un traliccio cui sono fissate le antenne, sussiste l’obbligo di procedere all’accatastamento.

Le puntuali indicazioni dell’agenzia del Territorio non sono state però integralmente recepite da parte della giurisprudenza di merito che ha continuato a ritenere corretto l’accatastamento in categoria E in ragione di una supposta preordinazione ad un’esigenza pubblica svolta dalle antenne. Motivazioni queste che erano state già escluse con riferimento agli impianti eolici (Cassazione n. 4030/2012; n. 4498/2012; n. 1979/2015), in quanto ininfluenti ai fini di un corretto accatastamento, anche alla luce di quanto previsto dall’art.2, comma 4 del Dl n. 262/2006, il quale prevede che nella categoria catastale E non possono essere compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale. Ad avviso della Corte, la norma stabilisce una sorta di intrinseca incompatibilità tra la destinazione ad uso commerciale o industriale di un immobile e la possibile classificabilità in categoria E.

Peraltro, la Corte aveva già scrutinato la natura dell’antenna di telefonia nella sentenza n. 25837/2008, osservando che «il traliccio in questione ed annessa cabina, alla stregua dall’art. 873 c.c. e della consolidata giurisprudenza di questa Corte, 7285/05-12045/02-2228/01, debbano considerarsi a tutti gli effetti costruzioni: ossia opere aventi caratteri di solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo».

A CHI ADDEBITARE LE SPESE POSTALI ?

In tema di ripartizione delle spese condominiali, deve considerarsi nulla e come tale impugnabile anche fuori dal termine di trenta giorni, previsto dall’articolo 1137 del Codice civile, la delibera assembleare con la quale si addebitano a un condòmino spese di gestione specifiche se questi non le abbia espressamente accettate.

Questa, in sintesi,la decisione resa dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 7103, depositata in cancelleria il 9 giugno 2015 . La delibera così adottata, specifica il giudice, può essere impugnata dal diretto interessato anche se lo stesso abbia concorso all’approvazione del rendiconto e del riparto, senza con ciò assumere l’obbligazione di pagamento. In sostanza, questo si deduce dalla sentenza, un conto è approvare i conteggi di gestione, altro assumere l’impegno di pagare una spesa che, in una situazione di normalità, dovrebbe essere ripartita tra tutti i comproprietari.

Il caso che ha portato a questa decisione è di quelli molto ricorrenti: nel corso dell’anno l’amministratore intrattiene uno scambio di corrispondenza con un condòmino. Al momento della presentazione all’assemblea del rendiconto di gestione, l’amministratore pone a carico del destinatario delle sue missive le spese ad esse riferibili, pari a circa 50 euro. Il condomino non ci sta e impugna quella delibera: a suo modo di vedere la ripartizione così approvata dall’assemblea è da ritenersi nulla perché le spese postali dovevano essere considerate spese di amministrazione e come tali ripartite tra tutti i condòmini sulla base dei millesimi di proprietà.

In questo contesto, il Tribunale di Milano ha ritenuto errato l’addebito delle spese postali al singolo condomino. In primo luogo, richiamando quella giurisprudenza di Cassazione secondo la quale l’assemblea non può addebitare al singolo spese per cause che l’hanno visto come controparte del condominio, se non v’è stata dichiarazione giudiziale di soccombenza in tal senso (Cassazione, sentenza 14696/08).

In sostanza, per il giudice milanese la pronuncia in questione ha carattere generale ed incide su ogni genere di spesa asseritamente personale. Non solo: la sentenza 7103 cita un precedente del Tribunale di Napoli (sentenza 12015 del 29 novembre 2003) per la quale proprio le spese postali devono essere considerate spese generali di amministrazione e di conseguenza devono essere tra tutti i condòmini in base ai millesimi di proprietà. Per la pronuncia in esame, nel concetto di spese personali rientrano, ad esempio, le spese per le copie di documentazione dalla quale si è chiesta copia.

Ripartizione spese lastrico solare e risarcimento danni

In base a quanto disposto dall’art. 1126 c.c. le spese per la riparazione o la ricostruzione del lastrico solare sono ripartite per un terzo a carico del condomino che ne ha l’uso esclusivo e per i restanti due terzi a carico di tutti i condomini dell’edificio, o della parte di questo, a cui il lastrico funge da copertura.

Relativamente al risarcimento dei danni provocati dall’infiltrazione, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che “dei danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal terrazzo a livello deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti i condomini tenuti alla sua manutenzione, secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 cod. civ., senza che rilevi la riconducibilità delle infiltrazioni a difetti ricollegabili alle caratteristiche costruttive” (Cass. civ. Sez. III, 25-08-2014, n. 18164).

Per mera completezza espositiva, si evidenzia però anche che secondo altro orientamento della Suprema Corte, la ripartizione secondo i canoni di cui all’art. 1126 c.c. si riferisce alle riparazioni dovute a vetustà e non a quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell’opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario.

In tale ultima ipotesi, “ove trattasi di difetti suscettibili di recare danno a terzi, la responsabilità relativa, sia in ordine alla mancata eliminazione delle cause del danno che al risarcimento, fa carico in via esclusiva al proprietario del lastrico solare, ex art. 2051 cod. civ. , e non anche – sia pure in via concorrenziale – al condominio” (Cass. civ. Sez. II, 15-04-2010, n. 9084).

In conclusione si rileva, in via generale ed astratta, che qualora le infiltrazioni siano dovute a vetustà dell’opera, anche i relativi danni prodotti vanno ripartiti in base al disposto dell’art. 1126 c.c.

Il condomino moroso paga le spese anche se la delibera non gli è stata notificata

In tema di condominio le decisioni prese dall’assemblea, a norma dell’articolo 1136 Cc, sono obbligatorie e produttive di effetti per tutti i condomini, compresi gli assenti, i dissenzienti e gli astenuti salvo che la loro esecuzione sia sospesa per ordine dell’autorità giudiziaria in sede di ricorso ai sensi dell’articolo 1137 Cc. Quindi «la mancata comunicazione delle delibere dell’assemblea condominiale non esime il condomino del conseguente pagamento delle quote di spettanza che tali risultino dai verbali, ferma la possibilità di impugnare tali delibere». A sancirlo è la sentenza 723/15 della terza sezione civile della Corte d’appello di Milano che ha rigettato il ricorso di una condomina volto a ottenere la nullità delle delibere condominiali relative all’approvazione dei bilanci consuntivi e preventivi di diversi anni perché non convocata alle varie assemblee. Verbali dai quali risultava una sua morosità di oltre 6 mila euro nei confronti del condominio. La donna, per ottenere l’annullamento avrebbe però dovuto esperire azione di impugnazione delle delibere ai sensi dell’art. 1137 Cc. In caso contrario, come è il caso di specie, le delibere non sono state impugnate e quindi sono valide ed eseguibili.

L’incarico dell’amministratore dura due anni salvo revoca

Il 2 ottobre 2015 il Tribunale di Milano ha ribadito il convincimento già emerso in altre occasioni e ha osservato che la nuova disciplina del condominio prevede «sostanzialmente la durata in carica dell’amministratore per un anno tacitamente prorogabile per un altro anno, salvo delibera di revoca assunta dall’assemblea medesima. Nel caso di specie un condomino aveva lamentato il fatto che, arrivati al compimento della prima annualità dell’incarico, il suo l’amministratore non avesse inserito l’argomento della nuova nomina dell’amministratore. La presa di posizione dei giudici milanesi è stata chiara e deriva dal principio già sopra ricordato: l’incarico dell’amministratore dura un anno e la prima volta si rinnova per altro anno senza che occorra passaggio assembleare. La tesi combacia perfettamente con il dettato del nuovo decimo comma dell’articolo 1129 del Codice civile, che ha previsto che essa abbia durata annuale come in precedenza, con la precisazione che l’incarico «si intende rinnovato per eguale durata» salva l’eventuale revoca ad opera dei condomini da assumere con la stessa maggioranza di legge prevista per la sua nomina. La disposizione, alquanto innovativa, ha suscitato vivace dibattito. Una prima tesi ha sostenuto che non ci sarebbe più bisogno di conferma specifica non solo allo scadere della prima annualità, ma neppure in seguito: il mandato si intenderebbe così rinnovato per l’anno successivo di anno in anno senza alcuna soluzione di continuità. Secondo tale opinione sarebbe venuto l’istituto della “prorogatio” dei poteri gestòri dell’amministratore. Non occorrerebbe la riconferma dell’amministratore, che rimarrebbe in carica sino a revoca, possibile in ogni tempo con la stessa maggioranza prevista per sua la nomina (voto favorevole dei condomini che rappresentano la maggioranza degli intervenuti all’assemblea ed almeno la metà del valore dell’edificio). La tesi prevalente in dottrina è però di avviso contrario. Molti commentatori hanno ritenuto che, fermo il rinnovo automatico dopo i primi dodici mesi, l’assemblea debba provvedere a confermare espressamente l’amministratore uscente, pena l’applicazione dell’istituto della “prorogatio” di chi non sia stato riconfermato o sia stato riconfermato in assenza del necessario quorum di legge. La tesi è stata condivisa dal Tribunale di Milano, che ha precisato come l’omesso inserimento all’ordine del giorno dell’assemblea successiva alla scadenza del primo anno di mandato dell’amministratore di condominio, della nomina di quest’ultimo, sia conforme alla nuova disciplina del condominio proprio sul presupposto di fatto che l’incarico si intende prorogato per l’esercizio successivo senza bisogno che intervenga una nuova votazione sul punto e salvo il sopraggiungere della revoca. Tale pronuncia è da salutare con favore in quanto chiarisce un aspetto che sinora era stato oggetto di discussione assai vivace.

Accertamenti bancari anche per gli amministratori

Le indagini finanziarie espletate dall’Agenzia delle entrate, in sede di controllo delle posizioni fiscali dei contribuenti, costituiscono un importante strumento di verifica che viene utilizzato soprattutto quando le altre metodologie di controllo non riescono a cogliere l’effettiva “dimensione fiscale” del contribuente.

Non sono immuni da questa tipologia di accertamento gli amministratori di condominio, i quali anzi sono facilmente soggetti a controllo bancario da parte del Fisco, come dimostra una recente pronuncia della CTR di Milano, sezione staccata di Brescia. In particolare, i giudici tributari, con la sentenza 3420/2015 del 20 luglio scorso , hanno ribadito due importanti aspetti: uno a favore del Fisco e l’altro del contribuente.

Prima di evidenziare tali aspetti, è opportuno tuttavia ricordare brevemente la normativa di riferimento e la sua evoluzione, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, che, come si vedrà, con un intervento dell’anno scorso ha inciso sostanzialmente su di essa.

Quadro normativo

L’attività accertativa fondata sui risultati delle indagini finanziarie è disciplinata dall’articolo 32, comma 1, n. 2), del Dpr 600/1973 e, ai fini IVA, dall’articolo 51, comma 2, n. 2), del Dpr 633/1972. Tali disposizioni prevedono che gli Uffici possano accertare i contribuenti, ponendo a base delle rettifiche i dati e gli elementi relativi ai rapporti finanziari, dei quali i soggetti controllati non dimostrino di averne tenuto conto nella determinazione del reddito soggetto a imposta e che non si riferiscano a operazioni imponibili. Anche i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti sono altresì posti come ricavi o compensi, qualora i contribuenti non ne indichino il beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili.

Le norme poc’anzi illustrate integrano una presunzione che la giurisprudenza di legittimità, con un orientamento ormai ampiamente consolidato, ha ritenuto legale relativa. In ragione di ciò, l’Amministrazione finanziaria è esonerata da qualsivoglia ulteriore prova, essendo sufficiente che essa abbia verificato l’esistenza di movimentazioni finanziarie non considerate per la determinazione del reddito o dell’IVA dovuta da parte dei contribuenti; su questi ultimi invece è ribaltato l’onere della prova, dovendo dimostrare l’estraneità di dette operazioni finanziarie alla formazione del reddito e a operazioni imponibili poste in essere nell’ambito dell’attività d’impresa o professionale.

L’ambito applicativo dello strumento d’indagine e del meccanismo presuntivo in oggetto è stato sempre più esteso, trovando spazio non soltanto nei confronti del contribuente sottoposto a controllo, ma anche nei riguardi di coloro che con esso hanno avuto rapporti più o meno stretti, familiari e/o lavorativi.

L’intervento della Consulta

Prima della modifica introdotta dall’articolo 1 della legge 311/2004, che ha aggiunto il riferimento ai “compensi” al predetto articolo 32 del Dpr 600/1973, quest’ultimo prevedeva nella sua formulazione testuale il solo termine “ricavi”, per cui si riteneva che la presunzione riguardante i prelevamenti fosse applicabile soltanto ai titolari di reddito d’impresa. Con la novella legislativa del 2004, però, era stato aggiunto il riferimento ai compensi e pertanto si era giunti alla conclusione che detta presunzione fosse applicabile anche ai lavoratori autonomi.

La Corte di Cassazione ha sempre sostenuto, con un orientamento consolidato, che la presunzione che assiste i prelevamenti trova applicazione nei confronti dei lavoratori autonomi anche prima della modifica operata dalla legge 311/2004, atteso che il legislatore, nel prevedere che le movimentazioni finanziarie non giustificate e non contabilizzate integrano «ricavi», secondo il testo previgente, ha inteso designare con tale termine non solo i redditi d’impresa, ma anche i «compensi» professionali e di lavoratore autonomo (ex plurimis: Cassazione, sentenze n. 19692 e n. 802 del 2011; n. 11750 e n. 22179 del 2008.).

La Corte Costituzionale, però, con la sentenza 228/2014, ha stabilito che la figura del lavoratore autonomo, pur avendo talune caratteristiche in comune con quella dell’imprenditore, conserva delle specificità che conducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dall’articolo 32, secondo cui anche per il lavoratore autonomo, come per l’imprenditore, il prelevamento dal conto corrente corrisponde a un costo da cui a sua volta si origina un ricavo. Se quindi la presunzione che involge i prelevamenti risulta congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, caratterizzata dalla necessità di continui investimenti al fine di ottenere ricavi, diversamente, per i lavoratori autonomi, tale presunzione è irragionevole, atteso che l’attività di tali figure è caratterizzata dal preminente apporto del lavoro proprio e dalla marginalità dell’apparato organizzativo, ben emergendo ciò soprattutto nelle professioni liberali.

Per di più, se si considera che l’apparato contabile previsto per tali soggetti è di tipo semplificato, con frequenti commistioni di entrate e spese tra sfera privata e professionale, è evidente “la non ragionevolezza della presunzione”, per cui i prelievi ingiustificati dai conti correnti di un lavoratore autonomo possano essere considerati dal Fisco come investimenti nell’ambito professionale da cui derivi un reddito.

In conclusione, la Consulta ha stabilito che la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza e di capacità contributiva e quindi incostituzionale.

La decisione del giudice delle leggi ha già determinato l’inversione di rotta, rispetto al consolidato orientamento pregresso, della Cassazione, tanto che quest’ultima, con la sentenza 4585/2015, per la prima volta, ha stabilito l’irrilevanza dei prelevamenti ai fini dell’accertamento fondato sulle indagini finanziarie nei confronti dei lavoratori autonomi.

Irrilevanza dei prelevamenti per gli amministratori di condominio

I giudici di merito lombardi, con la già citata sentenza 3420/2015, hanno esaminato un avviso di accertamento notificato a un amministratore di condominio e formato sulla base dei risultati delle indagini finanziarie.

La Commissione regionale – ed è questo l’aspetto positivo a favore del contribuente di cui si accennava in premessa – ha confermato la decisione di primo grado per cui la presunzione che assiste le indagini finanziarie, a seguito della sentenza 228/2014 della Corte Costituzionale, vale «solo per i depositi effettuati sui conti correnti, per i quali il ricorrente non aveva fornito un’analitica riconciliazione con la sua contabilità, non per i prelievi».

In sostanza, il collegio del riesame, confermando la decisione di primo grado, ha stabilito che gli amministratori di condominio, essendo produttori di reddito di lavoro autonomo (come è pacifico in dottrina e confermato dalla stessa Agenzia delle entrate in alcuni suoi documenti di prassi), non sono tenuti a giustificare i prelevamenti dai conti correnti, perché questi non possono più essere contestati dal Fisco, stante il decisum della Consulta.

Resta invariata invece la presunzione che assiste le indagini finanziarie sul fronte dei versamenti: in tale caso infatti, il Fisco può contestare le relative operazioni e l’amministratore di condominio è tenuto a fornire giustificazione, a pena della loro rilevanza ai fini dell’accertamento di un maggiore reddito.

Giustificazione analitica dei versamenti

L’altro importante punto confermato dal collegio regionale lombardo – questa volta a favore dei Fisco – riguarda le modalità di assolvimento dell’onere probatorio poste a carico dell’amministratore di condominio, in relazione ai versamenti sui conti correnti contestati dall’ufficio.

Nella sentenza si legge, a tale riguardo, che non è sufficiente, al fine di soddisfare detto onere probatorio, che l’amministratore produca la sua contabilità completa e riconduca genericamente a essa le operazioni bancarie contestate. Non basta quindi che l’amministratore affermi che le movimentazioni bancarie in oggetto sarebbero «ricollegabili al pagamento da parte dei condomini degli oneri di gestione condominiale».

Per giustificare i versamenti contestati, invece, è necessario che l’amministratore fornisca «una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili».

Nel caso di specie, però, l’amministratore si era limitato a fornire una copiosa documentazione in fotocopia della sua contabilità senza operare «quella analitica riconciliazione tra singolo movimento bancario … e annotazione nei libri contabili, che la norma richiede». I versamenti contestati così sono risultati non giustificati e quindi il collegio giudicante ha confermato l’accertamento del Fisco in relazione a essi.

Le conclusioni dei giudici di merito del resto sono in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità. Gli Ermellini infatti proprio recentemente hanno stabilito che la presunzione secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti correnti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono a operazioni imponibili, ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime IVA e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti (questi ultimi solo per i titolari di reddito d’impresa).

Tale presunzione può essere vinta dal contribuente, quindi, solo qualora il medesimo offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, ovvero che questi non si riferiscono a operazioni imponibili. Ai fini della prova contraria, non è peraltro sufficiente una dimostrazione generica circa ipotetiche causali dell’affluire di somme sui conti correnti, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero della loro estraneità alla sua attività, con conseguente non rilevanza fiscale delle stesse (Cassazione, sentenza 6969/2015; in senso conforme: Cassazione, sentenze 2781/2015 e 26855/2014).

Nessun riconoscimento automatico di costi

Per completezza, si segnala infine che, secondo il consolidato orientamento di legittimità, a fronte dei maggiori ricavi o compensi accertabili, non esiste alcuna presunzione di costi deducibili, giacché è onere del contribuente fornire la dimostrazione di una simile circostanza, attestando la ricorrenza di specifici costi deducibili con concreti elementi di prova e non mediante affermazioni di carattere generale, semplici presunzioni o il richiamo all’equità (Cfr. Cassazione, sentenze 6425/2011, 7813/2010, 2821/2008, 14675/2006).

Più precisamente i Giudici di piazza Cavour hanno stabilito che soltanto in caso di accertamento induttivo puro ex articolo 39, comma 2, del Dpr 600/1973, il Fisco deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione di quel maggiore reddito, mentre, in ipotesi di accertamento analitico o analitico-presuntivo, è il contribuente che deve dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità di costi afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio “possa o debba” procedere al riconoscimento percentuale forfettario di componenti negativi (Cassazione, sentenza 4314/2015).

In sostanza, quando gli accertamenti dell’Ufficio sono fondati sulle indagini finanziarie, ma senza disattendere integralmente la contabilità del contribuente, come di solito avviene, allora nessun costo può essere automaticamente riconosciuto dal Fisco in relazione ai maggiori componenti positivi accertati e derivanti dalle movimentazioni bancarie contestate, che il contribuente non è riuscito a giustificare.

Al condomino moroso non si può sospendere l’acqua

La riforma del condominio, legge 11 dicembre 2012 n. 220, ha modificato, tra l’altro, il comma 3 dell’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice civile che prevedeva i casi in cui l’amministratore poteva sospendere i servizi ai condòmini in mora con i pagamenti delle spese condominiali.

Il nuovo testo dispone ora che « In caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l’amministratore può sospendere il condòmino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato. »

La possibilità di sospensione del servizio è possibile quindi al verificarsi contemporaneo delle seguenti condizioni: a) che ci sia una mora del condòmino; b) che la mora si sia protratta per almeno sei mesi; c) che il servizio da sospendere sia un servizio comune; d) che il servizio sia suscettibile di godimento separato.

Le ipotesi concrete che si possono fare sono comunemente quelle relative al servizio di fornitura di acqua ai singoli attraverso un unico contatore con contratto unico intestato al condominio, quello del servizio centralizzato di riscaldamento ed altri simili.

La nuova formulazione del testo dell’articolo 63 sembrava aver semplificato la procedura ampliando la possibilità di sospensione dei servizi al verificarsi delle sole condizioni indicate al comma 3.

Le varie ordinanze, salvo rarissime eccezioni, emesse dai tribunali a seguito di ricorsi presenti dagli amministratori di condominio, nelle ipotesi in cui non era possibile procedere alla chiusura del servizio senza accedere alla unità immobiliare privata, avevano confermato la pienezza di tale potere.

Ma con l’ordinanza n. 15600 del 29 settembre 2014 il Tribunale di Brescia in sede collegiale ha negato all’amministratore il potere di sospendere l’erogazione dell’acqua al condòmino moroso con considerazioni che sembrerebbero in contrasto con un’interpretazione letterale del testo normativo.

Il Tribunale ha ritenuto che l’erogazione dell’acqua non possa essere sospesa nonostante la morosità in quanto: a) il servizio di fornitura attraverso un unico contratto condominiale non è un servizio erogato dal condominio, ma dalla società erogatrice, instaurandosi tra il condominio e l’ente «un contratto di mera intermediazione economica»; b) i condomini virtuosi possono evitare di farsi carico delle morosità stipulando contratti individuali autonomi diretti con l’ente fornitore; c) dalla mancata erogazione dell’acqua ne deriverebbe un pregiudizio diretto ed immediato alle condizioni di vita e salute con pregiudizio di valori di rilievo costituzionale.

È chiaro che se tale interpretazione trovasse conferma in altre pronunce si renderebbe inutile la nuova formulazione dell’articolo 63 e la sua forza deterrente.

Ma la cosa ben più grave è il rischio, con risvolti penali, in cui incorrerebbe l’amministratore là dove, potendolo tecnicamente fare, procedesse direttamente alla sospensione del servizio.

Azioni di risarcimento e rimedi per umidità nell’edificio

Negli edifici condominiali può risultare particolarmente evidente il fenomeno dell’umidità che, senza dubbio, è tra le principali cause di degrado degli immobili.

Tale fenomeno, infatti, porta alla formazione di muffe, alterazioni di pitture e, nei casi più gravi, al distacco dell’intonaco e alla disgregazione dei muri.

Queste manifestazioni spesso si sviluppano all’interno delle abitazioni dei condomini, in ambienti dove normalmente fenomeni di condensazione non dovrebbero svilupparsi (camere da letto, saloni, eccetera).

Il problema nasce da vizi costruttivi ma non si può escludere che le condizioni per una condensa superficiale siano favorite dall’introduzione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione.

Umidità e vizi costruttivi delle parti comuni: la responsabilità

L’umidità che interessa gli edifici condominiali può essere causata dalla mancata od errata costruzione di vespai ma anche da un’inadeguata coibentazione delle strutture perimetrali o delle coperture dell’edificio condominiale o dalla presenza di ponti termici in corrispondenza degli infissi.

A fronte di tali problemi si rende necessaria un’azione di responsabilità per gravi difetti nei confronti del costruttore, al quale è abilitato, oltre ai condomini, l’amministratore del condominio.

Infatti, secondo la normativa condominiale, l’amministratore può chiedere non soltanto misure cautelari ma anche atti diretti a conservare le parti comuni.

Di conseguenza è legittimato a proporre l’azione contro l’appaltatore diretta a rimuovere i gravi difetti della costruzione che possano porre in pericolo la sicurezza del caseggiato, anche senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea dei condomini (ma il passaggio in assemblea è assolutamente consigliato).

In ogni caso i fenomeni di condensazione possono essere denunciati solo se si verificano entro il decennio dal compimento dell’opera.

Inoltre il termine di un anno per la denuncia, previsto dall’art.1669 c.c. a pena di decadenza, decorre dal giorno in cui il condominio consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti, che può aversi solo con un’indagine tecnico–peritale.

Vizi delle parti comuni ed danni da umidità al singolo condomino

Qualora una porzione di proprietà esclusiva, all’interno di edificio condominiale, risulti danneggiata a causa della presenza di vizi relativi a parti comuni (vizi, seppure imputabili all’originario costruttore-venditore), deve comunque riconoscersi al titolare di detta porzione di proprietà esclusiva la facoltà di esperire azione risarcitoria anche nei confronti del condominio.

Ne consegue che se l’umidità delle parti comuni è causa di danni ad un singolo condomino o ad un ristretto gruppo di condomini, il condominio è responsabile in via autonoma nei loro confronti (c.d. responsabilità da custodia)

Ma non si tratta di una responsabilità a titolo derivativo bensì di una autonoma fonte di responsabilità che ricorre anche se l’umidità negli appartamenti risulta causato da anomalie o vizi insorti nelle parti comuni prima dell’inizio del rapporto di custodia.

È evidente però che, laddove vi sia la presenza dei presupposti indicati, al condomino danneggiato conviene, sempre e comunque, agire sia nei confronti del costruttore, sia nei confronti del condominio (essendo la responsabilità di quest’ultimo autonoma, e quindi concorrente con quella dell’appaltatore), al fine di individuare comunque un soggetto solvibile.

Tuttavia il condominio può sollevarsi da ogni responsabilità dimostrando che i danni da umidità sono sicuramente riconducibile allo stesso danneggiato.

Così, ad esempio, il comportamento del proprietario che cambia la destinazione d’uso dell’immobile e/o la mancata areazione del locale sono fenomeni idonei ad interrompere qualsiasi collegamento tra la cosa in custodia (i muri comuni) e il danno (la muffa nei muri).

In ogni caso il risarcimento è escluso se le infiltrazioni provenienti da parti comuni dell’edificio, da cui scaturisce l’umidità del locale di proprietà esclusiva, sono riconducibili alle tecniche in uso all’epoca della costruzione dell’edificio.