Installazione del condizionatore sul lastrico solare

È lecita l’installazione del condizionatore sul lastrico solare se dal regolamento emerge l’obbligo per il condomino di installarlo sul suo balcone?

Il fatto che il regolamento condominiale obblighi il singolo condomino a installare l’impianto di climatizzazione sul proprio balcone non ne impedisce l’installazione sulle parti comuni dell’edificio, come, ad esempio, il lastrico solare.

Ciò è quanto ha stabilito la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 4099/2023.

Tizia, proprietaria di alcune unità immobiliari site nel condominio Alfa, citava in giudizio, innanzi al Giudice di Pace, l’ente di gestione per sentir dichiarare l’annullamento della delibera assunta dall’assemblea con riferimento al punto n. 3 dell’ordine del giorno che le imponeva l’immediata rimozione dei motori per il condizionamento dei suoi locali che aveva installato sul lastrico solare, nonché il ripristino dello stato dei luoghi.

L’attrice asseriva di essere legittimata all’installazione in questione, rientrando ciò nelle facoltà concesse al condomino dall’art. 1102 c.c. Resisteva il Condominio che eccepiva l’incompetenza per materia del Giudice di Pace adito e, nel merito, ne chiedeva il rigetto. Il Giudice di Pace dichiarava la propria incompetenza; la causa veniva riassunta da Tizia innanzi al Tribunale, che rigettava la domanda e condannava l’attrice al pagamento delle spese processuali.

Tizia proponeva appello asserendo la legittimità dell’installazione dei motori di condizionamento sul lastrico solare, essendo ciò perfettamente in linea con il disposto dell’art. 1102 c.c., secondo cui “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”. I giudici del gravame davano ragione a Tizia accogliendo l’appello. La Corte territoriale precisava quanto segue:

• l’art. 5 del regolamento condominiale prevede che sulle proprietà private dei condòmini è consentita l’installazione di motori per la climatizzazione esclusivamente all’interno dei balconi di proprietà a distanza di almeno cm 150 dal parapetto;

• non è contestato fra le parti che i locali di proprietà dell’appellante, ubicati al quarto piano dello stabile, siano privi di balconi, dotati esclusivamente di finestre insistenti sulla facciata;

• ai sensi dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante può servirsi della cosa comune a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto;

• il posizionamento di un impianto di condizionamento sul lastrico solare, in particolare, non esclude il pari godimento della cosa da parte degli altri condòmini e non costituisce alterazione della destinazione del bene (Cass. 10968/2014);

• l’utilizzo di una singola porzione di un bene in comproprietà fra i condòmini (ad esempio di una piccola porzione sul lastrico per installare l’impianto di condizionamento), non può considerarsi “sottrazione” di spazi comuni. Pertanto, secondo la Corte capitolina, l’intervento in questione, tenuto anche conto della esiguità dell’area occupata, doveva considerarsi legittimo e non poteva essere impedito.

Il condominio è tenuto a risarcire chi cade nel cortile a causa di una pavimentazione viscida e scivolosa

Errato parlare di imprudenza della parte lesa perché l’attore, seppur al corrente del rischio di cadere, non poteva scongiurarlo in alcun modo

Il figlio di un condomino, nel percorrere nel tardo pomeriggio con estrema cautela il cortile condominiale per fare rientro a casa, scivolava e a seguito della caduta riportava gravi lesioni personali. Per tale motivo citava in giudizio il condominio chiedendo che venisse accertata la responsabilità dello stesso in ordine all’infortunio patito con contestuale richiesta di risarcimento danni.

Un pericolo segnalato più volte

Il condominio in questione è composto da più scale, alle quali si accede esclusivamente da un cortile condominiale all’aperto pavimentato con un mattonato che, in occasione delle precipitazioni atmosferiche, diventava estremamente viscido e scivoloso costituendo, quindi, un serio pericolo. La problematica era stata segnalata più volte all’amministratore, sia per le vie brevi che in occasione delle assemblee, ma senza avere un seguito. Solo successivamente all’incidente, l’assemblea condominiale ha deliberato i lavori di manutenzione da eseguire nel cortile condominiale riguardanti la rimozione della vecchia pavimentazione. Il fatto che la scivolosità dipendesse dalla pioggia non giova al condominio, perché il problema di questo tipo di scivolosità era già noto, come chiaramente dimostrato dai verbali di assemblea. Né può giovare il fatto che, come eccepito dal condominio, la pavimentazione non idonea fosse stata scelta dai condòmini, tra cui il padre dell’infortunato.

Non si tratta di imprudenza del condomino

Resta da valutare, anche a fronte della specifica eccezione difensiva dello stabile, l’eventuale rilevanza – a sfavore del lesionato e in favore dell’ente di gestione – della conoscenza dei luoghi da parte dell’infortunato, essendo egli residente, almeno all’epoca, nel complesso immobiliare ove è caduto. L’attore, dunque, nonostante il pericolo di cadere fosse per lui prevedibile, in quanto residente nel condominio, non aveva concreta possibilità di evitare e scongiurare il rischio della caduta. Si aveva, quindi, una situazione di prevedibilità ma altresì di effettiva imprevedibilità/inevitabilità dell’evento, che esclude la ravvisabilità di un difetto di cautela e, dunque, di incidenza causale giuridicamente rilevante in capo all’attore, che si è limitato ad utilizzare il tratto di cortile condominiale secondo la sua destinazione d’uso di area per il transito pedonale.

Il condominio, durante il procedimento, chiedeva che venisse ascoltato il lesionato per capire se il tratto di pavimentazione in cui sarebbe avvenuto il sinistro fosse munito di muro laterale idoneo a proteggere l’utente e a consentirgli, se necessario, di appoggiarsi per sostenersi. La risposta dell’attore non ha confermato l’assunto, avendo egli precisato, sostanzialmente, che il muro è privo di corrimano e che il tratto di pavimentazione in cui è avvenuta la caduta è immediatamente oltre un angolo formato dal muro in questione (quindi, fuori dal possibile utilizzo del muro come appoggio). Il condominio, del resto, nella sua comparsa di costituzione ha attribuito al danneggiato una condotta imprudente e distratta, ma senza specificarla e senza offrirne alcuna prova, compromettendo la propria difesa. Pertanto, il Tribunale di Roma con sentenza 16591/2022 ha ritenuto responsabile il condominio condannandolo a pagare le lesioni subite dalla parte lesa.

Il marciapiede esterno del condominio: aspetti critici

Una decisione della Corte d’Appello di Milano

Secondo una pronuncia della Corte d’Appello di Milano – che ha confermato la sentenza di primo grado – un condominio è tenuto al risarcimento dei danni patiti da un passante caduto su una lastra di ghiaccio presente sul marciapiede antistante l’ingresso condominiale. I giudici milanesi, però, non hanno affermato che i condomini sono custodi del marciapiede ma si sono limitati a considerare che, secondo il regolamento di Polizia Urbana i condomini erano tenuti a provvedere alla pulizia dei marciapiedi. Del resto – come sottolineano i giudici milanesi – nel mansionario della Portineria del condominio si precisava che giornalmente il portiere avrebbe dovuto provvedere alla pulizia del marciapiede, mentre durante le nevicate avrebbe dovuto sgomberare la neve dallo stesso, spargendo il sale, come da regolamento comunale (App. Milano 10 gennaio 2020 n. 73). In altre parole, la Corte d’Appello sembra basarsi sulle disposizioni del regolamento comunale che (discutibilmente) hanno imposto obblighi ai condomini su uno spazio pubblico.

Una tesi contraria

Secondo il Tribunale di Torino, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 14 C.d.S., della pulizia del marciapiede, quale pertinenza della strada, deve occuparsi l’ente pubblico proprietario di quest’ultima. Conseguentemente, dei danni derivati da una caduta provocata dalla presenza di ghiaccio sul marciapiede antistante un edificio condominiale, non può esserne chiamato a risponderne ex art. 2051 c.c. il condominio frontista, in assenza di prova a carico dello stesso circa la qualità di custode o la sussistenza di obblighi di natura manutentiva o di gestione svincolati dalla titolarità del bene (Trib. Torino 5 dicembre 2012). Nel caso di specie, un passante era scivolato a causa della neve accumulatasi sul marciapiede. Successivamente si rivolgeva al Tribunale per richiedere al caseggiato antistante un risarcimento; secondo l’attore il marciapiede era di proprietà dei condomini e, quindi, gli stessi erano obbligati a spargere del sale sul camminamento davanti al palazzo.

Il condominio, però, contestava la propria legittimazione a stare in giudizio, rilevando come il marciapiede, in quanto parte della strada, appartenesse al demanio comunale. Di conseguenza, per i condomini, a prescindere da eventuali ordinanze comunali di senso contrario, era lo stesso Comune a doversi occupare della manutenzione della carreggiata, compreso lo spargimento di sale in periodo invernale. Queste considerazioni sono state pienamente condivise dal giudice torinese. In ogni caso – più recentemente – si è ribadito che gli obblighi di manutenzione dell’ente pubblico proprietario di una strada aperta al pubblico transito, al fine di evitare l’esistenza di pericoli occulti, si estendono ai marciapiedi laterali, i quali fanno parte della struttura della strada, essendo destinati al transito dei pedoni; di conseguenza si è precisato che del danno cagionato da buche sussistenti sul marciapiede non risponde il condominio dell’antistante stabile, il quale non è pertanto passivamente legittimato nel giudizio promosso ai fini del relativo risarcimento (Trib. Catania 3 marzo 2020, n.850).

Una recentissima sentenza della Cassazione

Merita di essere ricordato che secondo una recente sentenza della Cassazione penale, in linea generale, i condomini non hanno, in mancanza di una convenzione con il Comune, l’obbligo di manutenzione del suolo pubblico. Due condomini, però, sono stati condannati per il reato di lesioni colpose commesse ai danni di una passante che, transitando sul marciapiede pubblico, era caduta inciampando su un rialzo realizzato dagli stessi. Il problema era che i condomini avevano eseguito dei lavori di manutenzione dei loro box, siti al piano sottostante; in particolare avevano aggiunto, al piano stradale, cemento dello stesso colore della pavimentazione che determinava un pericoloso dislivello di 3 cm. Secondo i giudici supremi era quindi irrilevante che l’assemblea del condominio (che non era tenuto alla manutenzione del suolo pubblico) avesse deliberato di realizzare i lavori di ristrutturazione del marciapiede e l’amministratore avesse ottenuto l’autorizzazione ad eseguire opere di ripristino del suolo pubblico, opere, però, mai eseguite (Cass. civ., sez. II, 12/08/2021, n. 32905).

Sopraelevazioni in condominio

I vani ricavati sul terrazzo vanno abbattuti se violano condizioni statiche e aspetto architettonico

La realizzazione di una tettoia sul terrazzo, poi trasformata in soggiorno e cucina, è illegittima se non rispetta i limiti dell’art. 1127 c.c. (Tribunale Velletri n. 512/2024)

I vani ricavati sul terrazzo condominiale, se violano le norme statiche e architettoniche, vanno abbattuti. Necessaria la prova che il progetto rispetti la normativa antisismica: questo è quanto stabilito dalla sentenza 4 marzo 2024, n. 512 del Tribunale di Velletri.

Il caso

Un condomino, residente all’ultimo piano di un edificio, aveva inizialmente costruito una tettoia “ad elle” sul proprio terrazzo, trasformandola successivamente in due distinti vani: un soggiorno con annessa cucina e un ripostiglio.

Tali modifiche avevano portato, secondo la valutazione effettuata dal consulente tecnico d’ufficio incaricato di valutare la situazione, ad un incremento del peso sostenuto dal fabbricato, quantificato in circa 100 chili per metro quadrato.

Alla luce di tale intervento, veniva chiesta la demolizione e/o rimozione delle opere realizzate con il contestuale ripristino dei luoghi in quanto in contrasto con il regolamento condominiale e l’art. 1127 del Codice civile.

L’art. 1127 del Codice civile e i limiti sottesi

L’art 1127 del Codice civile dispone che il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano non è assoluto ma incontra alcune limitazioni. Il primo limite è che la facoltà di sopraelevazione può essere esclusa per effetto di un titolo contrario.

Il secondo limite è subordinato alla circostanza dell’idoneità statica del fabbricato a sopportare la nuova costruzione.

Infine, l’ultimo limite prescritto si concretizza nel pregiudizio all’aspetto architettonico dell’edificio e della notevole diminuzione dell’aria e/o della luce derivanti dalla sopraelevazione.

Il caso di specie, analizzato dal Tribunale di Velletri con sentenza n. 512, del 04-03-2024, si sofferma espressamente su due limiti:

  • la condizione statica dell’edificio in cui viene realizzata la sopraelevazione;
  • turbamento delle linee architettoniche.

Le condizioni statiche dell’edificio

Le condizioni statiche dell’edificio rappresentano un ostacolo al sorgere ed all’esistenza stessa del diritto di soprelevazione.

Il limite delle condizioni statiche si sostanzia nel potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione.

L’accertamento di tale pericolo costituisce poi oggetto di un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Corte di Cassazione sentenza del  30 novembre 2012, n. 21491)

La stessa Cassazione precisa che la norma non fa riferimento ad un accertamento delle condizioni statiche, né ad opere di consolidamento, vietando pertanto la sopraelevazione quando la statica risulti inadeguata a sostenerla (Corte di Cassazione sentenza del 29.1.2020, n. 2000).

In un’ottica ancor più restrittiva rientra la sopraelevazione realizzata in violazione delle specifiche disposizioni dettate dalle leggi antisismiche: tale divieto va interpretato nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia inidonea a fronteggiare il rischio sismico (Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 12.2.1987, n. 1541Corte di Cassazione sentenza del 15.11.2016, n. 23256).

In tali casi i condomini possono opporsi alle nuove opere, incompatibili con le condizioni statiche dell’edificio, a prescindere da ogni rafforzamento o consolidamento che il sopraelevante fosse disposto ad eseguire, così rafforzando la natura di limite assoluto alla stessa esistenza del diritto riconosciuto al proprietario dell’ultimo piano (Corte di Appello Napoli, 9.3.2006).

Nel caso di specie, il Tribunale di Velletri, dando per scontato che l’intervento debba essere qualificato come sopraelevazione, evidenzia come la realizzazione dei due vani abbia incrementato il peso sul fabbricato per circa 100 chili al metro quadrato (secondo quanto riportato dalla perizia).

Il Tribunale, nel valutare la condotta della parte convenuta, sottolinea l’importanza della dimostrazione della sicurezza antisismica dell’opera eseguita e dell’edificio nel suo complesso. Tale dimostrazione avviene tipicamente attraverso la presentazione di una progettazione antisismica specifica che includa un’analisi dettagliata della struttura complessiva e delle fondamenta del fabbricato.

In questo caso, però, tale prova non è stata fornita dalla parte convenuta (come evidenziato anche dalle osservazioni del Consulente Tecnico d’Ufficio).

Il Tribunale, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, pone l’accento sulla necessità di una rigorosa aderenza alle normative di sicurezza, specialmente in contesti condominiali.

L’intervento di sopraelevazione, nel caso di specie, è stato realizzato senza una corretta progettazione antisismica e senza le dovute verifiche tecniche pregiudica la sicurezza strutturale dell’edificio, violando la normativa antisismica.

L’aspetto architettonico del fabbricato

La questione dell’impatto estetico e architettonico è il secondo limite richiamato dall’art. 1127 cod. civ. ed è stato oggetto di specifica attenzione da parte della giurisprudenza.

La sentenza del Tribunale di Velletri offre un’importante interpretazione in merito alla distinzione e al contempo alla relazione esistente tra la nozione di “aspetto architettonico” e quella di “decoro architettonico“, così come delineate all’articolo 1120 del Codice Civile italiano.

Il Tribunale chiarifica che, benché le due nozioni siano distinte, esse non possono essere considerate in modo completamente separato l’una dall’altra quando si tratta di interventi edificatori, in particolare le sopraelevazioni.

In realtà già la Corte di Cassazione con sentenza del 24 aprile 2013, n. 10048, aveva delineato la distinzione tra le nozioni di “decoro” e “aspetto architettonico“, sottolineando come il limite estetico sia rappresentato non dal mancato abbellimento, ma piuttosto dall’alterazione o dal pregiudizio arrecato al decoro e all’aspetto architettonico dell’edificio, precisando che l’analisi dell’impatto architettonico di una sopraelevazione debba concentrarsi sulle caratteristiche estetiche visivamente percepibili dell’edificio, considerato nella sua autonomia stilistica (Corte di Cassazione sentenza del 23 luglio 2020, n. 15675).

Delibera condominiale annullabile per abuso del diritto

Una delibera condominiale può essere annullata quando è stata assunta violando norme di legge o di un regolamento, questo quello che stabilisce l’art. 1137, dal marzo del 205, anche secondo quanto deliberato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sent. n. 4806. Altre delibere possono, tra l’altro, anche essere considerate nulle secondo quanto previsto dall’ art. 1117 – ter. del codice civile.

Entrando nel merito dell’ impugnazione di delibere condominiali, infatti, è opportuno precisare, che è  precluso all’Autorità Giudiziaria di sindacare sulle scelte operate dall’assemblea nelle delibere oggetto d’impugnazione, poiché il suo potere di intervento è limitato alla sola violazione della legge o del regolamento condominiale in quanto non è previsto dalle norme alcun riesame riguardante l’oggetto delle delibere, sulle opportunità delle decisioni e sulle ragioni che le hanno determinate. Ne consegue che Il giudice adito per risolvere una controversia relativa all’impugnazione di una delibera non può andare oltre ai vizi di annullabilità che riguardano gli aspetti formali delle procedure relative a convocazione, verbalizzazione e deliberazione e la nullità che riguarda quelle delibere che agiscono sui diritti dei singoli sulle parti comuni, o sulle parti di proprietà esclusiva. Questi principi sostenuti fermamente in sede giudiziaria, aprono di fatto la questione sull’eccesso di potere ed all’abuso del diritto.

Proviamo quindi a specificare cosa intendiamo per abuso del diritto

Quando parliamo di abuso comunemente intendiamo ogni forma anormale di esercizio di un diritto che, senza realizzare alcun interesse per il suo titolare, provoca un danno o un pericolo di danno per altri soggetti.  Ci si potrebbe a questo punto domandare se si possa parlare di abuso del diritto  anche in ambito condominiale e sicuramente potremmo affermare di si, almeno secondo quanto asserito sull’argomento, con una sentenza dalla Corte d’appello di Firenze in materia di abuso del diritto da parte di un condòmino, infatti, in quell’occasione i giudici fiorentini affermarono che rappresenta un abuso del diritto l’impugnazione di una delibera da parte di un condòmino non convocato correttamente, anche se presente in assemblea. (App. Firenze 19 settembre 2012 n. 1186).

Abuso del diritto e invalidazione della delibera

Secondo quanto detto sino ad ora, potrebbe sorgere spontanea una domanda, ovvero,  ma se fosse l’assemblea, cioè la maggioranza deliberante ad abusare del proprio diritto, cosa accadrebbe?

Si questo tema si è espressa la giurisprudenza (Trib. Roma 17 aprile 2019 n. 8479) che si è pronunciata sull’argomento affermando che un abuso del diritto condominiale può verificarsi quando la causa della deliberazione sia deviata dalla funzione tipica.

In questi casi,  i giudici,  in derogando al generale divieto di sindacato dell’Autorità Giudiziaria sul merito delle delibere, possono valutare le decisioni dell’assemblea,  per capire se l’esercizio del diritto è stato conforme alla legge, o se vi è stato un abuso.

In questi casi, chi ritiene una decisione un abuso del diritto può contestarlo in giudizio, ma, chiaramente, portando davanti al giudice  elementi utili a dimostrare le proprie tesi.

Rumori in condominio: quando si è assolti

Rumori durante le ristrutturazioni: quando sono reato e quando si può essere condannati penalmente.

Nel contesto condominiale, il tema dei rumori genera immancabilmente incertezze. Si può denunciare chi fa chiasso, ad esempio perché sta facendo lavori di ristrutturazione o perché la notte lascia la televisione ad alto volume? E la vicina che fa esercizi col pianoforte o quello che invece sposta i mobili proprio quando gli altri dormono?

Una recente pronuncia della Cassazione (sent. n. 7717/24) chiarisce quando, per i rumori in condomino, si è assolti dal reato di “disturbo alla quiete pubblica”. La pronuncia non fa altro che individuare la sottile linea di confine tra illecito civile e penale, Ma procediamo con ordine.

Quando i rumori molesti non comportano responsabilità penale?

Per aversi reato di disturbo alla quiete pubblica, l’articolo 659 del codice penale richiede che il rumore possa arrecare molestia a un numero indeterminato di persone e non solo a uno o a pochi vicini. Secondo la sentenza in questione, un condomino può essere assolto dalla responsabilità per i rumori generati da lavori di ristrutturazione se tali rumori disturbano esclusivamente i vicini più prossimi, senza impattare significativamente sull’intera comunità condominiale. La Corte di Cassazione ha chiarito che, affinché vi sia punibilità, è necessario che i rumori arrechino disturbo non solo agli occupanti degli appartamenti adiacenti alla fonte di emissione, ma anche a una parte considerevole dei condomini. Il fatto però che il rumore non integri il reato non significa che non possa essere punibile. Esso, se superiore alla «normale tollerabilità» costituirà un illecito civile che potrà dar vita a un giudizio per il risarcimento e per l’ottenimento di una “interdittiva” (ossia l’ordine di cessazione del rumore o di insonorizzazione dei locali).

Cosa si considera normale tollerabilità?

Come anticipato il rumore diventa reato quando arriva a un numero indeterminato di persone. Ma basta che sia semplicemente intollerabile per essere già vietato dal codice civile (art. 844 cod. civ.). Ma quando possiamo considerare che un rumore supera la “normale tollerabilità”?

La legge si riferisce unicamente a un criterio: quello geografico. In altri termini, in un contesto residenziale caratterizzato da un minore rumore di fondo, è più facile che il rumore diventi intollerabile e quindi illecito. Al contrario, in una via molto trafficata, caratterizzata dal chiasso proveniente dall’esterno del fabbricato, il rumore del vicino sarà più difficilmente distinguibile. La legge italiana non fornisce una definizione precisa di “rumore molesto”. Tuttavia, la Cassazione ha stabilito che il rumore è considerato molesto se supera la normale tollerabilità, avuto riguardo:

alla natura del rumore: rumori occasionali e di breve durata sono generalmente tollerati, mentre quelli continui e persistenti non lo sono;

all’orario in cui il rumore si verifica: la legge prevede fasce orarie di silenzio durante le quali i rumori devono essere contenuti;

alla zona in cui si trova il condominio: in zone rurali la tollerabilità è maggiore rispetto a zone urbane;

alla intensità.

Poiché i criteri appena indicati risultano molto generici, i giudici hanno provato a darsi un criterio empirico per valutare la tollerabilità dei rumori in decibel (dB). Le sentenze così prevedono dei limiti di emissione sonora differenziati per le diverse fasce orarie:

se si superano di oltre 5 decibel i rumori di fondo dalle 06:00 del mattino alle 22:00 o di oltre 3 decibel nelle ore notturne, il rumore si considera illegale;

se invece si rimane al di sotto di tali soglie di decibel, si rispettano i limiti di tollerabilità e quindi il rumore deve considerarsi consentito. Inviare una lettera di diffida al condomino responsabile dei rumori.

È rilevante il rispetto delle fasce orarie?

Un aspetto interessante emerso dalla sentenza è che il rispetto delle fasce orarie eventualmente (ma non obbligatoriamente) stabilite dal regolamento condominiale non è determinante ai fini della responsabilità penale ma solo civile. Ciò significa che, anche se i lavori vengono effettuati in orari teoricamente non consentiti, ciò non implica automaticamente la commissione del reato per il disturbo causato, a meno che non venga disturbata una consistente parte dei condomini.

Quando scatta il reato di disturbo della quiete pubblica?

Relativamente ad attività svolte in condominio, per far scattare il reato previsto dall’articolo 659 cod. pen. è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio; l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia.

Per l’articolo 659 cod. pen., non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio.

L’amministratore è responsabile se non procede al recupero forzoso dei crediti condominiali

Il decreto ingiuntivo nei confronti dei morosi è uno strumento imprescindibile di riferimento per evitare danni ai condomini in regola con i pagamenti.

Lo stato di morosità nel pagamento degli oneri condominiali è all’ordine del giorno. I condomini inadempienti non possono e non devono dormire sonni tranquilli, perché l’amministratore, che sia diligente nell’espletamento del proprio mandato, è obbligato al
recupero, senza indugio, delle somme dovute.

Questo è un punto di forza, insito nelle attribuzioni affidate al rappresentante condominiale, che è sempre stato sancito dalla normativa di settore. Ieri come oggi. I giudici di legittimità hanno ribadito questo principio, evidenziando come l’inerzia dell’amministratore potrebbe determinare un grave danno alla compagine condominiale.

Condannato l’amministratore che non abbia promosso azione ingiuntiva per riscuotere i contributi non versati.

Fatto e decisione
La Corte di cassazione, con ordinanza n.  36277 del 28 dicembre 2023 , ha dichiarato infondato il ricorso promosso dall’ex amministratore di un condominio avverso la sentenza di secondo grado, che lo aveva condannato a versare al convenuto una somma a
titolo di risarcimento dei danni conseguenti al mancato esperimento di azione ingiuntiva di pagamento nei confronti di un condomino moroso.

La controversia prendeva le mosse da un’azione intentata dall’attuale ricorrente nei confronti del condominio già amministrato ed avente ad oggetto il pagamento di compensi e rimborsi spese. Il convenuto condominio aveva proposto, a sua volta, domanda riconvenzionale, finalizzata ad ottenere il  risarcimento dei danni  per il motivo di cui sopra.

Il Tribunale accoglieva la domanda principale in minima parte, mentre rigettava quella riconvenzionale.

La revoca dell’amministratore di condominio

La decisione, ribaltata in sede di gravame con l’accoglimento dell’appello incidentale del condominio, riconosceva l'evidente  inadempimento dell’amministratore , inerte quanto ai propri doveri volti al recupero delle spese condominiali non versate dal condomino moroso, tanto più che la debitrice era stata cancellata definitivamente dal Registro delle Imprese rendendo impossibile il recupero del credito.

Il ricorso proposto dall’ex amministratore, per quanto concerne il merito della questione e per quanto di specifico interesse, si fondava, in particolare, sull’errata pronuncia della Corte di appello in ordine alla negligenza del soggetto, dal momento che la mancata iniziativa di riscossione coattiva dei crediti si fondava su di una normativa, la legge n. 220/2012, successiva ai fatti di causa.

La Corte di cassazione ha ritenuto infondato il motivo di impugnativa dal momento che l’obbligo dell’amministratore precede l’entrata in vigore della riforma del condominio e, nella fattispecie, il comportamento negligente del rappresentante condominiale aveva impedito in via definitiva il recupero del credito vantato dal condominio.

Considerazioni conclusive
Il provvedimento emesso dalla Corte Suprema è indenne da qualsivoglia incertezza e tentativo di critica, in quanto rispetta perfettamente sia il dettato legislativo, sia la ratio ad esso sottesa.

Innanzi tutto, va evidenziato che una delle  attribuzioni affidate all’amministratore  è quella di riscuotere i contributi  ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’esercizio e per l’esercizio dei servizi comuni.

In particolare, l’attività di riscossione, che chiaramente corrisponde ad incamerare le somme dovute dai condomini in ragione delle rispettive quote millesimali, si riferisce sia ai contributi ordinari che straordinari, mentre l’erogazione delle spese non comprende gli oneri di natura straordinaria sui quali l’amministratore non ha alcun potere.

Tanto è vero che l’art. 1135, co. 1, n. 4, c.c. pone il divieto per l’amministratore di ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo il carattere urgente, con l’ulteriore obbligo di riferirne nella prima assemblea.

La norma deve essere correlata all’art. 63 disp. att. c.c., che disciplina le modalità correlate alla riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea. Tale attività è totalmente affidata alla piena disponibilità dell’amministratore, il quale può
agire in giudizio senza bisogno di autorizzazione dell’assemblea ottenendo un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo.

Il motivo è presto detto: uno stato di morosità in ambito condominiale non è ammissibile, poiché la sofferenza della cassa comune impedisce la gestione finanziaria dell’ente amministrato.

Non si può, quindi, dubitare che la discrezionalità riconosciuta all’amministratore è che può, senza autorizzazione dell’assemblea, ottenere un decreto di ingiunzione.

Tutto ciò trova conferma nell’ art. 1129, co. 9, c.c., il quale stabilisce che l’ amministratore è tenuto ad agire per la  riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito è esigibile, salvo una espressa dispensa da parte dell’ assemblea.

Da ultimo, deve essere preso in considerazione l’art. 1131 c.c. che disciplina la rappresentanza in ambito condominiale e che detta i limiti della legittimazione attiva in capo all’ amministratore alle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c. o ai maggiori poteri a lui
conferiti dall’assemblea.

Il combinato disposto di tali norme costituisce il fondamento per l'azione ingiuntiva che l’amministratore deve promuovere per evitare che il condominio patisca danni in conseguenza della morosità dei condomini. Questo non è avvenuto nel caso portato all’esame dalla Corte di cassazione, in quanto per tabulas è emersa sia l’inerzia dell’amministratore in violazione degli obblighi posti dalla
legge a suo carico, sia del danno che il suo comportamento aveva procurato al condominio in seguito alla cancellazione del debitore dal Registro delle Imprese.

Al di là di questi fatti incontestabili va evidenziato che la precedente versione di alcune delle disposizioni richiamate e che, in alcuni casi, non sanciva espressamente l’obbligatorietà dell’azione monitoria da parte dell’amministratore, che è sempre stata uno dei pilastri che ha definito il rapporto condominio/condomino in relazione al pagamento degli oneri condominiali.

In effetti, se è vero che il testo originale  dell’art. 63 disp. att. c.c.  si era semplicemente limitato a stabilire che l’amministratore, per riscuotere i contributi condominiali, poteva ottenere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, facendo cadere nell’errore di ritenere che la scelta di agire in giudizio fosse lasciata alla mera discrezionalità dell’amministratore stesso, è altrettanto vero che la giurisprudenza, in passato, aveva già superato tale ostacolo.

In effetti era stato affermato che l’amministratore poteva agire per la  riscossione forzosa dei crediti condominiali  anche senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, trattandosi di atto finalizzato a realizzare un interesse comune (Cass. 05 gennaio 2000, n.
29; Cass. 29 dicembre 1999, n. 14665) e, più genericamente, che il rappresentante condominiale era pienamente legittimato a chiedere l’emissione del decreto ingiuntivo previsto dall’art. 63 disp. att. c.c. per il recupero degli oneri condominiali una volta che l’assemblea condominiale avesse deliberato sulla loro ripartizione (Cass. 9 dicembre 2005,n. 27292; 15 maggio 1998, n. 4900).

A ben vedere, quindi, nulla di nuovo in questo senso è avvenuto con la riforma del condominio, poiché il legislatore ha solamente provveduto a rendere più chiaro, avvalendosi anche dell’aiuto della giurisprudenza, il contenuto di alcune norme sul punto.

In questo senso si ritiene che la Corte di cassazione abbia correttamente posto in rilievo l’irrilevanza della nuova normativa in relazione ad un problema che, in realtà, non vi è mai stato.

Condominio: nulla la delibera sui lavori straordinari senza costituzione del fondo speciale

L’allestimento anticipato del fondo speciale è un’ulteriore condizione di validità della delibera di approvazione dei lavori di manutenzione straordinaria (Cassazione n. 9388/2023)

Il proprietario di un appartamento sito in Condominio riceve un decreto ingiuntivo relativo al pagamento delle spese di manutenzione straordinaria. L’uomo si oppone al provvedimento monitorio ed eccepisce la nullità della delibera. Infatti, la decisione assembleare riguarda una spesa cospicua (circa 487 mila euro) ma non prevede la costituzione del fondo speciale, indicata come obbligatoria dalla legge.

È valida la delibera sui lavori di manutenzione straordinaria che non preveda la costituzione del fondo speciale?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 5 aprile 2023, n. 9388, risponde negativamente. Infatti, il preventivo allestimento del fondo speciale è obbligatorio e costituisce una condizione di validità della delibera di approvazione delle opere.
La norma (ex art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.) tutela l’interesse collettivo al corretto funzionamento della gestione del Condominio e l’interesse del singolo condomino ad evitare il rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi.

Gli ermellini ricordano, altresì, che nell’opposizione a decreto ingiuntivo per la riscossione di contributi condominiali il giudice può sindacare sia la nullità (dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio) della delibera posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità della stessa (a patto che venga dedotta con domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione (ex art. 1137 c.c.). La nullità della delibera impugnata può essere rilevata d’ufficio o esaminata su eccezione di parte anche dal giudice d’appello, come avvenuto nella fattispecie oggetto di scrutinio.

La vicenda

Il proprietario di un immobile sito in uno stabile condominiale riceve un decreto ingiuntivo per il pagamento di circa 2.600 euro a titolo di spese per la manutenzione straordinaria delle facciate e dei balconi, come deliberate dall’assemblea condominiale nel settembre del 2017. L’uomo propone opposizione e, per quanto qui di interesse, il giudice accoglie l’eccezione di nullità della delibera assembleare sollevata dal debitore-opponente. La delibera in questione, infatti, ha approvato i lavori straordinari per circa 490 mila euro ma non ha previsto la costituzione del fondo speciale (ex art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.). Secondo il giudice del gravame, tale mancanza comporta la declaratoria di nullità della decisione assembleare.

Si giunge così in Cassazione.

Premessa: l’obbligatorietà del fondo speciale

L’art. 1135 c. 1 n. 4 c.c. dispone quanto segue: “l’assemblea dei condomini provvede […] alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, costituendo obbligatoriamente un fondo speciale”.

Il suddetto fondo può avere:

  • un importo pari all’ammontare dei lavori;
  • oppure, può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti, se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne preveda il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento.

L’art. 1135 c. 1 n. 4 è stato modificato dalla legge di riforma del condominio (legge 220/2012). Il testo originario prevedeva la costituzione del fondo come facoltativa, infatti, l’espressione impiegata dal legislatore era “se occorre”. La modifica ha introdotto l’avverbio “obbligatoriamente” prevedendo, dunque, la necessità di allestire previamente il fondo. Successivamente, è intervenuta un’altra modifica ad opera del d.l. 145/2013 grazie alla quale il fondo speciale non deve necessariamente essere di importo equipollente al costo delle opere ma, se il contratto prevede un pagamento rateale, è possibile l’allestimento del fondo in relazione ai singoli pagamenti dovuti.

La delibera su spese per lavori di manutenzione straordinaria

Il Condominio, con la delibera del 2017, ha affidato i lavori per il rifacimento delle facciate ad una ditta ed ha conferito all’amministratore l’incarico di ottenere un finanziamento bancario, al fine di coprire la metà dell’esborso. La delibera ha previsto il frazionamento della riscossione delle spese in tre rate iniziali da 18 mila euro ciascuna e successive 57 rate da circa 7 mila euro l’una. Successivamente, la rateazione è stata confermata con la delibera del gennaio del 2018, in cui l’assemblea ha preso atto del fatto che l’istituto di credito interpellato ha rifiutato il finanziamento.

Secondo le difese svolte dal Condominio, il giudice di merito ha omesso di considerare che la delibera aveva disposto il pagamento rateale e che l’appaltatore aveva acconsentito. Inoltre, il ricorrente sostiene che la norma sul fondo speciale non vada interpretata restrittivamente come, invece, ha fatto il giudice di merito

La Suprema Corte considera infondate le doglianze: la sentenza gravata non ha omesso la disamina dei fatti né ha male interpretato l’art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.

Prima di analizzare il decisum, ricordiamo che la delibera assembleare che approvi un intervento di ristrutturazione sulle parti comuni (come la facciata) reca un duplice oggetto:

  1. l’approvazione della spesa di manutenzione straordinaria, consistente nel fatto che l’assemblea riconosca la necessità di un intervento nella misura deliberata e avente valore costitutivo dell’obbligazione di contribuzione alle spese (Cass. 25839/2019);
  2. la ripartizione della spesa tra i condomini, che indica la misura del contributo dovuto da ciascuno in ragione del valore della proprietà e ha valore dichiarativo, «in quanto serve solo ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore, secondo i criteri di calcolo stabiliti dalla legge» (Cass. 15696/2020).

Per completezza espositiva, si ricorda che la ripartizione della spesa (sub 2) rappresenta la condizione indispensabile ai fini della concessione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi (ex art. 63 c. 1 disp. att. c.c.). Pertanto, nel caso in cui non sia stata approvata la ripartizione, l’amministratore, pur rimanendo dotato di legittimazione all’azione per il recupero degli oneri condominiali promossa nei confronti del condomino moroso (ex art. 1130 n. 2 c.c.), può:

 

  • agire in sede di ordinario processo di cognizione,
  • oppure ottenere un decreto ingiuntivo senza esecuzione provvisoria.

Torniamo, ora, alla decisione.

Opposizione a decreto ingiuntivo: il giudice può sindacare la validità della delibera

Nell’opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento delle spese condominiali, il creditore ingiungente – ossia il Condominio – soddisfa l’onere probatorio producendo il verbale dell’assemblea con cui le spese oggetto dell’ingiunzione sono state deliberate nonché i relativi documenti (Cass. 15696/2020; Cass. 7569/1994). Il giudice, pronunciando nel merito, emette una sentenza favorevole (o meno) a seconda che l’amministratore abbia dimostrato l’esistenza del credito, la sua esigibilità e la titolarità dello stesso in capo al Condominio. La delibera assembleare di approvazione della spesa:

  • costituisce titolo sufficiente del credito,
  • legittima la concessione del decreto ingiuntivo,
  • legittima, altresì, la condanna del condomino a pagare le somme nel processo di opposizione piena.

Nel giudizio di opposizione, il giudice deve verificare la perdurante esistenza ed efficacia della delibera di approvazione della spesa e di ripartizione dell’onere (Cass. SS. UU. 26629/2009; Cass. 4672/2017).

In quella sede, il giudice può sindacare:

  • la nullità della delibera – posta a fondamento dell’ingiunzione – dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio,
  • l’annullabilità della delibera, purché sia dedotta con apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione ex art. 1137 c. 2 c.c. nel termine perentorio di 30 giorni ivi previsto, e non in via di eccezione (Cass. SS. UU. 9839/2021).

Infatti, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è un ordinario giudizio di cognizione, pertanto, il giudice dell’opposizione non può confermare il decreto ingiuntivo senza verificare la validità del titolo (nel nostro caso, il titolo è rappresentato dalla deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione).

Inoltre, la nullità della delibera impugnata può essere rilevata d’ufficio o esaminata su eccezione di parte anche dal giudice d’appello (Cass. 26243/2014).

Costituzione del fondo speciale come condizione di validità

Il previo allestimento del fondo speciale – «”di importo pari all’ammontare dei lavori”, ovvero la costituzione progressiva del medesimo fondo per i pagamenti man mano dovuti, “in base a un contratto”, correlati alla contabilizzazione dell’avanzamento dei lavori» – rappresenta una condizione di validità della delibera di approvazione delle opere, la cui sussistenza deve essere verificata dal giudice in sede di impugnazione ex art. 1137 c.c. La disposizione è posta a presidio:

  • sia dell’interesse collettivo al corretto funzionamento della gestione del Condominio,
  • sia dell’interesse del singolo condomino ad evitare «il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, secondo quanto ora dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c.» (si ricorda che i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini).

La delibera assunta a maggioranza non può avere un contenuto contrario alla disposizione in parola (art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.) né può decidere di non provvedere alla costituzione del fondo o modificare le modalità di costituzione previste dalla legge. Ciò neppure nel caso in cui l’appaltatore vi consenta, in quanto una simile decisione risulta pregiudizievole per tutti i condomini e per le esigenze di gestione condominiale. Pertanto, una simile delibera è nulla.

Costituzione del fondo speciale come condizione di validità

Il previo allestimento del fondo speciale – «”di importo pari all’ammontare dei lavori”, ovvero la costituzione progressiva del medesimo fondo per i pagamenti man mano dovuti, “in base a un contratto”, correlati alla contabilizzazione dell’avanzamento dei lavori» – rappresenta una condizione di validità della delibera di approvazione delle opere, la cui sussistenza deve essere verificata dal giudice in sede di impugnazione ex art. 1137 c.c. La disposizione è posta a presidio:

  • sia dell’interesse collettivo al corretto funzionamento della gestione del Condominio,
  • sia dell’interesse del singolo condomino ad evitare «il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, secondo quanto ora dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c.» (si ricorda che i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini).

La delibera assunta a maggioranza non può avere un contenuto contrario alla disposizione in parola (art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.) né può decidere di non provvedere alla costituzione del fondo o modificare le modalità di costituzione previste dalla legge. Ciò neppure nel caso in cui l’appaltatore vi consenta, in quanto una simile decisione risulta pregiudizievole per tutti i condomini e per le esigenze di gestione condominiale. Pertanto, una simile delibera è nulla.

Conclusioni: delibera nulla e ricorso rigettato

Gli ermellini rilevano come la delibera del 2017 approvata dai condomini, avente ad oggetto spese di manutenzione straordinaria per 487 mila euro (importo ripartito in tre rate da 18 mila e successive 57 rate da circa 7 mila), non indica:

  • né la costituzione del fondo speciale per l’intera somma,
  • né che il contratto di appalto preveda il pagamento graduale in relazione allo stato di avanzamento dei lavori e che il fondo sia stato costituito in relazione ai singoli pagamenti.

Pertanto, dal momento che le censure svolte dal Condominio non smentiscono l’invalidità della delibera, il ricorso viene rigettato con condanna al pagamento delle spese per il giudizio di legittimità.

Necessaria l’unanimità di tutti i condomini per la rimozione di una siepe su area condominiale

E’ nulla la delibera condominiale che approva a maggioranza la rimozione di una siepe situata in area condominiale. In tal senso ha deciso il Tribunale di Tivoli con la sentenza n. 1513 del 2 novembre 2022.

Il caso: Mevia, nel chiedere la nullità e/o annullamento di una delibera condominiale, deduceva che:

– di essere proprietaria di una villa facente parte del condominio convenuto;

– l’assemblea condominiale convocata in data 17.1.2019 aveva deliberato positivamente per la rimozione, per ragioni di sicurezza, di una siepe situata nella zona inferiore del condominio, di fronte ad alcune ville, tra le quali la sua;

– di essersi già in precedenza opposta a tale ipotizzato lavoro evidenziando il grave pericolo che sarebbe derivato dalla suddetta rimozione (abbassamento livello terreno, importante fuoriuscita di acqua, difficoltà di drenaggio della stessa, cedimento terreno, ecc);

–  riguardando l’eliminazione di un bene comune, avrebbe dovuto essere assunta all’unanimità.

Si costituiva il Condominio, il quale, nel chiedere il rigetto della domanda, eccepiva, tra l’altro, che:

– l’abbattimento della siepe non poteva essere considerata come innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c.

– in ogni caso, la delibera era stata adottata con la maggioranza qualificata di cui al quinto comma dell’art. 1136 c.c. che consente di disporre ogni innovazione diretta al miglioramento o all’uso più comodo dei beni comuni.

Per il tribunale la domanda deve essere accolta sulla base della seguente motivazione:

La Corte d’Appello di Roma con sentenza numero 478/2008 ha avuto modo di affermare che è l’abbattimento di alberi, comportando la distruzione di un bene comune, deve considerarsi un’innovazione vietata e in quanto tale richiede l’unanime consenso di tutti i partecipanti al condominio, né può ritenersi che la delibera di approvazione a maggioranza della spesa relativa all’abbattimento possa costituire valida ratifica dell’opera fatta seguire di propria iniziativa dall’amministratore.

Inammissibile l’istanza di revoca giudiziale per l’amministratore in proroga post scadenza

L’amministratore che cessi dalle sue funzioni dopo un anno dalla nomina oltre un anno di prorogatio, non ha più obblighi gestori, né diritto a compensi, per cui non può esserne richiesta la revoca.

Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza del 19 aprile 2023, pubblicata il 2 maggio 2023, torna ad affrontare la sempre delicata questione della possibilità di procedersi alla revoca giudiziale, nel caso di amministratore in prorogatio. Lo fa, confermando la tesi della inammissibilità dell’istanza di revoca giudiziale ex articolo 1129 Codice civile, nel caso in cui l’amministratore sia in prorogatio.
Il provvedimento in esame illustra in modo chiaro ed ampio, il quadro un cui si colloca la procedura azionata per ottenere la rimozione (revoca) dell’amministratore. L’ordinanza richiama la norma di riferimento, spiegando l’importanza della volontà assembleare, quale vera “dominus” nella decisione da assumere. Il regime di prorogatio, tuttavia, non è privo di conseguenze negative per lo stesso amministratore non ancora rimosso ed ancora, solo formalmente, in carica. Ne consegue, infatti, la perdita del diritto alla percezione del
compenso.

I fatti di causa
Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza in commento, infine, si sofferma sulla natura del procedimento (volontaria giurisdizione), ricordando la possibilità, anche parallela se non addirittura autonoma, che innanzi al Tribunale, in un giudizio cosiddetto a cognizione piena, si chieda l’accertamento dell’inadempimento nell’operato dell’amministratore. Nel caso trattato dal Tribunale campano, un condomino chiedeva la revoca dell’amministratrice, lamentando molteplici inadempienze della stessa la quale, peraltro, si costituiva in
giudizio contestando quanto dedotto dal ricorrente. All’esito dell’udienza di comparizione delle parti, emergeva che l’amministratrice della quale era stata richiesta la revoca, operasse in regime di prorogatio. Richiamando l’orientamento della sezione del medesimo Tribunale, il collegio riteneva che dovesse «escludersi che sia consentito chiedere in via giudiziaria la revoca dell’amministratore giunto alla scadenza del mandato e operante in regime di mera prorogatio imperii».

La norma di riferimento
La norma di riferimento è certamente l’articolo 1129 comma 10 Codice civile, secondo cui «l’incarico di amministratore di condominio ha la durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata. L’assemblea convocata per la revoca o le dimissioni delibera in ordine alla nomina del nuovo amministratore». Orbene, l’espressa indicazione del termine durante il quale l’incarico può essere rinnovato è stata introdotta dalla legge 220/2012 che ha riscritto il testo del previgente articolo 1129 Codice civile, il quale si limitava a stabilire la
durata annuale dell’incarico di amministratore di condominio. Tale previsione del termine di rinnovo, si legge nell’ordinanza, è evidentemente frutto della volontà del legislatore di considerare l’amministratore di condominio, in caso di sua mancata revoca, ancora in carica in regime di prorogatio per un solo anno durante il quale soltanto si ritiene, in virtù di una presunzione semplice, che l’amministratore – la cui nomina non sia stata confermata dall’assemblea – continui a porre in essere atti gestori in forza della volontà dei condòmini e nel loro interesse.

Cessazione incarico il secondo anno
«Decorso il secondo anno, invece, l’amministratore cessa dal suo incarico automaticamente, ossia senza la necessità di un’espressa manifestazione di volontà dell’assemblea, perdendo immediatamente i poteri rappresentativi dei condòmini e quelli gestori in precedenza a lui attribuiti». In tale situazione l’unico potere dovere che residua in capo all’amministratore è dunque quello, previsto dall’articolo 1129 comma 8 Codice civile, di compiere gli atti urgenti necessari ad evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto a compensi ulteriori.

La volontà assembleare
Per effetto di tali disposizioni il legislatore ha dunque valorizzato la volontà assembleare stabilendo che i condòmini, «quanto meno allo scadere di un biennio dalla nomina dell’amministratore, debbano necessariamente valutare se la gestione da lui posta in essere sia stata corretta e adottare una delibera con cui espressamente decidono se confermare o meno l’incarico al soggetto precedentemente nominato o nominare un nuovo amministratore». Solo in tal modo si possono infatti evitare situazioni di protrazione della gestione
condominiale da parte di un amministratore il quale continua ad agire in rappresentanza dei condòmini senza un’investitura assembleare.

Nessun obbligo, nessun compenso
Una volta cessato il rapporto contrattuale non sarà dunque più possibile richiedere, con una procedura di volontaria giurisdizione, la revoca dell’amministratore. Al ricorrere di una tale evenienza l’esigenza di sostituire l’amministratore, qualora il condominio abbia più di otto condòmini, dovrà invece essere soddisfatta attraverso la proposizione di un ricorso per la nomina di un amministratore giudiziario ex articolo 1129 comma 1 Codice civile, sempre che venga dimostrata l’inerzia dell’assemblea dei condòmini che, seppur
convocata a tal fine, non abbia raggiunto il previsto quorum costitutivo o deliberativo. In contrario non varrebbe obiettare che, aderendo a tale interpretazione del quadro normativo, non è più possibile valutare l’operato dell’amministratore cessato dall’incarico ed applicare la sanzione di cui all’articolo 1129 comma 13 Codice civile.

La natura del procedimento di revoca
Il procedimento di volontaria giurisdizione volto alla revoca giudiziale dell’amministratore mira infatti ad ottenere, in caso di accertate inadempienze, la risoluzione anticipata del rapporto di mandato ed è improntato a requisiti di rapidità, informalità ed ufficiosità dal momento che il decreto emesso al suo esito, ai sensi dell’articolo 64 comma 1 disposizioni attuative Codice civile, deve essere adottato omettendo ogni formalità, eccettuata quella di instaurare il contraddittorio con l’interessato, come si evince dalla sintetica formula
normativa «sentito l’amministratore».

Anche la giurisprudenza di legittimità ha del resto affermato che il procedimento in questione:

  • riveste un carattere eccezionale ed urgente nonché sostitutivo della volontà assembleare;
  • è ispirato all’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela del diritto ad una corretta gestione condominiale a
    fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore;
  • è di conseguenza improntato a celerità, informalità ed ufficiosità ma non riveste efficacia decisoria
    lasciando ferma la facoltà del mandatario revocato di chiedere la tutela del diritto provvisoriamente inciso dal
    decreto facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (1237/2018).

Quando l’interesse viene meno
Qualora non vi sia più interesse ad ottenere una pronuncia di carattere urgente, perché l’amministratore di cui è stata chiesta la revoca è già cessato dalla carica oppure perché nelle more del procedimento è stata adottata una delibera di nomina di un nuovo amministratore, la procedura di volontaria giurisdizione non può dunque essere più proposta o coltivata. Sempre possibile la devoluzione al Tribunale per la valutazione dell’inadempimento. «Nulla però osta a che venga attivato un giudizio a cognizione piena diretto a valutare le pregresse inadempienze poste in essere dall’amministratore nell’espletamento dell’incarico, con conseguente operatività della sanzione di cui all’articolo 1129 comma 13 Codice civile, oppure la correttezza della sua condotta ed il pregiudizio conseguito all’erronea attivazione del procedimento di volontaria giurisdizione». Alla luce di quanto emerso e, quindi, in considerazione del regime di prorogatio in cui operava l’amministratrice, il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso, contenendo la richiesta di revoca di un amministratore che, per stessa ammissione del ricorrente, era già cessato dalla carica.