Non è possibile la revoca di un Amministratore se le iregolarità sono “formali” e non “sostanziali”

La legge 220/2012 ha posto particolare attenzione sulla figura dell’amministratore. A prescindere dai requisiti, personali e professionali, il legislatore ha voluto tutelare il più possibile l’interesse dei condòmini a non subire pregiudizi da gestioni poco attente e non trasparenti, stabilendo anche l’obbligo di rendere noti ai condòmini i propri dati anagrafici e professionali sia in sede di accettazione dell’incarico che di rinnovo. Proprio su questo aspetto il Tribunale di Milano con ordinanza del 1° giugno 2016, aveva revocato un amministratore che, all’atto del rinnovo dell’incarico, non aveva comunicato i propri dati anagrafici e professionali e che non aveva curato la tenuta del registro di anagrafe condominiale.

Di diverso avviso è stata la Corte d’appello, che ha respinto una valutazione formalistica dell’operato dell’amministratore (sentenza 3842/2016 del 19 luglio 2016) . La Corte, infatti, nel riformare il provvedimento, da un lato ha rilevato che, per quanto dal verbale dell’assemblea – nel corso della quale l’incarico era stato rinnovato – in effetti non figurassero indicati i dati anagrafici e professionali, essendo l’amministratore in carica da svariati anni tali dati dovevano ritenersi pacificamente noti ai condòmini oltre che desumibili dalle varie comunicazioni inviate (convocazioni, lettere eccetera); dall’altro lato, con riferimento al caso specifico, la Corte ha ritenuto che l’amministratore avesse soddisfatto l’interesse del ricorrente a conoscere i dati degli altri condomini, fornendo i nominativi in suo possesso pur in mancanza di un registro di anagrafe condominiale regolarmente tenuto(decreto 19 luglio 2016). Nella sostanza la Corte ha riaffermato un principio già noto e cioè che per la revoca giudiziale dell’amministratore è necessario che la condotta contestata sia almeno potenzialmente dannosa.

L’amministratore che non osserva gli obblighi imposti dalla legge incorre sì in inadempimento, ma non necessariamente nella revoca giudiziale. Stante la natura contrattuale del rapporto di mandato, l’inadempienza dell’amministratore autorizza i condomini, oltre che a procedere alla revoca con delibera assembleare, a sospendere legittimamente il pagamento del compenso in applicazione dei principi che regolano l’esecuzione dei contratti a prestazioni corrispettive. In tal senso diverse pronunce del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano che anche più di recente (sentenza 4038/16) ha respinto la domanda di pagamento dei compensi formulata dall’ex amministratore che non aveva presentato il rendiconto, non attribuendo alcuna rilevanza alla circostanza che gli atti della gestione nel loro complesso considerati fossero in sé regolari.

Sta al condominio provare che la spesa risale a meno di un anno prima dell’acquisto dell’appartamento

È il condominio che invoca la responsabilità solidale dell’acquirente per le spese di straordinaria manutenzione a essere gravato della prova dell’inerenza dell’esborso all’anno in corso o a quello precedente al subentro del nuovo proprietario. È quanto ha stabilito la sesta sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 7395/17, pubblicata in questi giorni.
Il collegio rigetta il ricorso di un condominio contro i proprietari di un appartamento, chiamati a partecipare, per la quota di spettanza, alle spese di straordinaria manutenzione della facciata dell’edificio. I convenuti erano “freschi” acquirenti e si opponevano alla richiesta perché l’obbligo di spesa era insorto prima del loro subentro. Pertanto, secondo il tribunale che accoglieva la loro istanza, la spesa deliberata doveva rimanere estranea all’anno antecedente entro cui operava la corresponsabilità dell’acquirente, non avendo il condominio provato che l’anno di gestione coincidesse con l’anno solare. Dello stesso avviso è la Cassazione che respinge il ricorso dell’ente di gestione.
Per l’applicazione dell’articolo 63, comma 2, Cc al caso in esame, «quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (in questo caso, la ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale), deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione». Pertanto, il compratore risponde verso il venditore solo «per le spese condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui sia divenuto condomino, mentre ha diritto di rivalersi nei confronti del suo dante causa allorché sia stato chiamato dal condominio a rispondere di obbligazioni nate in epoca anteriore all’acquisto». Il ragionamento seguito dal tribunale risulta, perciò, corretto, in quanto è il condominio, «il quale invochi in giudizio la responsabilità solidale dell’acquirente di un’unità immobiliare per contributi relativi alla conservazione o al godimento delle parti comuni, ad essere gravato della prova dei fatti costitutivi del proprio credito, fra i quali è certamente compresa l’inerenza della spesa all’anno in corso o a quello precedente al subentro dell’acquirente». In base a tali motivazioni, la Suprema corte respinge il ricorso del condominio.

Posti auto in condominio : regolamentazione

Ordinaria regolamentazione

Si approva con la maggioranza semplice (se non modifica un regolamento contrattuale). Tra i numerosi provvedimenti legittimamenta assunti con delibera a maggioranza, volti a disciplinare il libero parcheggio nelle aree condominiali ,si può prendere qualche esempio attingendo ad una casistica molto vasta della Cassazione: uso turnario (sentenza 1421/2016); divieto di sosta se questa impedisce agli altri condòmini il pari uso dello spazio comune (sentenza 3640/2004) o rende difficoltoso il passaggio delle altre vetture (sentenza 14633/2012); divieto di parcheggio della seconda auto se i posti sono insufficienti (ordinanza 11861/2005); proibizione di lasciare autovetture nell’atrio di uno stabile di particolare pregio (sentenza 19615/2012).

Innovazioni

Quando, invece, si decide di organizzare un’area a parcheggio per il condominio, si crea una “innovazione”. Con la riforma del 2012 il Codice civile (articolo 1120) qualifica espressamente come innovazione «opere e interventi» per un parcheggio; ma la maggioranza necessaria viene abbassata a 500 millesimi dai due terzi previsti per le innovazioni in generale.

Rimane fermo, in ogni caso, il divieto delle innovazioni che rendono il bene «inservibile all’uso od al godimento anche di un solo condòmino o pregiudicano stabilità, sicurezza, decoro architettonico dell’edificio» (articolo 1120, 4° comma, del Codice civiled articolo 9 della legge “Tognoli”).

La stabilità del fabbricato potrebbe essere minata, per esempio, dai parcheggi nel sottosuolo, mentre la rilevanza per il decoro architettonico farebbe pensare, fra l’altro, a un giardino di particolare pregio e qualità ornamentali mutato in parcheggio o a una costruzione in totale disarmonia con lo stile dell’edificio.

Nuove destinazioni d’uso

Se l’innovazione muta del tutto la specifica utilizzazione dell’area (per esempio, prima adibita a parco giochi dei bimbi), si produce anche un cambiamento della destinazione d’uso del bene comune.

Con la riforma del 2012 è intervenuto il nuovo articolo 1117-ter del Codice civile, che sottopone questo cambio di destinazione d’uso alla maggioranza “aggravata” di 4/5 (dei millesimi e dei condòmini), ponendosi però in conflitto con l’articolo 1120, comma 2, che per i parcheggi prevede solo 500 anziché 800 millesimi.

Ma l’apparente contrasto dovrebbe risolversi se si considera che il 1117-ter, norma di carattere generale, non è applicabile ai parcheggi perché derogata dalla norma speciale del 1120, comma 2, perché la legge speciale prevale su quella generale.

In altri termini, se un’innovazione “ordinaria” e non specificata (cioè quella “da due terzi” di cui all’articolo 1120, comma 1) comporta anche il cambio di destinazione, oggi valgono il quorum e la procedura del 1117 ter (quindi con 4/5 dei millesimi); se invece l’innovazione è fatta espressamente «per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio» come dice il comma 2, n. 2) dello stesso articolo 1120, con maggioranza dei 2/3, il 1117-ter e la sua super maggioranza rimangono fuori causa.

Infine, il divieto di rendere “inservibile” il bene anche per un solo condòmino (che non sussisterebbe se si applicasse invece la più rigorosa, per altri versi, disciplina dell’art. 1117-ter) impone che la nuova utilità e funzione sia garantita a tutti i partecipanti, anche se non possessori di auto, perché queste potrebbero venir acquisite in un momento successivo.

Senza poi dimenticare, come sancito ancora di recente, che “l’’attribuzione esclusiva” dei posti auto ad alcuni soltanto dei condòmini richiede, a pena di nullità, una delibera unanime perché in questo modo si pregiudica l’uso e il godimento paritario del bene (Cassazione, sentenza 11034/2016).

Negozi in condominio e spese di manutenzione scala

Quando si pensa ad un condominio tipicamente si pensa ad un palazzo formato da varie parti comuni e appartamenti privati. In realtà, però, una gran parte delle unità immobiliari nei palazzi italiani è utilizzato a fini non abitativi.

Nel rapporto del 28 maggio 2015 sul mercato immobiliare, l’agenzia delle Entrate ha censito ben 4.239.886 unità immobiliari di tipologia non residenziale, intese come uffici, negozi, banche, edifici commerciali e alberghi.

Sovente, infatti, specie nelle grandi città, il piano terra dello stabile è occupato da negozi e locali, con vetrine che si affacciano sulla pubblica via.

Sebbene queste unità possano dare l’impressione di essere autonome rispetto al condominio, queste non lo sono e i proprietari degli immobili sono condòmini a tutti gli effetti.

I problemi di convivenza con i condòmini residenti sono generalmente di tre tipologie: i condòmini che lamentano l’invasività del negozio, i cui clienti parcheggiano in modo selvaggio davanti allo stabile e le cui insegne sono istallate sulla facciata del palazzo, e i proprietari dei negozi, che lamentano di dovere pagare spese condominiali per servizi quasi mai utilizzati.

Per quanto riguarda la questione dei clienti invasivi è chiaro come essi non possano parcheggiare i veicoli al di fuori dei parcheggi ufficialmente delimitati dal comune, neanche per i pochi minuti necessari per svolgere la commissione in negozio.

E’ chiaro infatti che l’abitudine di lasciare l’automobile di traverso in prossimità del portone condominiale è contraria alle norme stradali, prima ancora che alle norme interne del palazzo.

Starà quindi al proprietario del negozio di sensibilizzare i propri clienti abituali invitandoli a tenere condotte stradali che non impediscano ai condomini il libero accesso allo stabile.

Nel caso di reiterazione della sosta selvaggia, comunque, oltre ad avvertire la polizia stradale per ottenere la rimozione dei veicoli, si potrà domandare all’amministratore di condominio l’istallazione (compatibilmente con le regole comunali) di dissuasori di sosta da realizzare di fronte all’ingresso del palazzo di modo da rendere impossibile il parcheggio delle autovetture.

La questione dell’insegna del negozio apposta sulla facciata del palazzo, invece, deve essere considerata alla luce dell’articolo 1102 del Codice Civile, che afferma al primo comma che “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

Il negoziante potrà quindi, chiesti i permessi necessari alla pubblica amministrazione e a sue spese, fare apporre una insegna al fine di promuovere il proprio negozio.

Un espresso limite al quale andrà incontro il negoziante sarà quello della necessità di tutelare il decoro architettonico del palazzo per cui un’insegna non conforme alle regole estetiche e storiche del palazzo sarà certamente considerata come innovazione vietata (si pensi all’insegna di un’autofficina apposta sulla facciata di un palazzo costruito in stile liberty).

L’ultimo comma dell’articolo 1120 del Codice Civile afferma infatti che “sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico”.

I condomini, tuttavia, potranno all’unanimità modificare il regolamento contrattuale vietando l’apposizione di insegne o targhe nel condominio e in particolare “con il consenso unanime i condomini, possono derogare od integrare la disciplina legale e, in particolare, possono dare del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’articolo 1120 del Cc, estendendo il divieto di immutazione sino a imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva” (Cassazione, sentenza n. 12582 del 17 giugno 2015 ).

Ulteriore problema di frequente sollevato nella difficile convivenza tra negozi e condomìni è la questione del pagamento delle spese condominiali da parte degli immobili ad uso non residenziale.

Sovente, infatti, il negoziante si sente parte estranea rispetto al condominio, dato che magari non partecipa alle assemblee, non utilizza scale e ascensori e vi si reca solamente durante le ore di apertura.

Di conseguenza può capitare che il commerciante veda come un’ingiustizia il fatto di dovere pagare spese come la manutenzione dell’ascensore, la pulizia delle scale o il riscaldamento anche nelle parti comuni.

Tale ragionamento, tuttavia, non pare corretto.

Il negozio, pur se apparato commerciale, è a tutti gli effetti parte integrante del condominio.

L’articolo 1118 del Codice Civile prevede in punto gestione e utilizzo delle parti comuni che “il condòmino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni” e che “il condòmino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali”.

Di conseguenza anche il proprietario del negozio dovrà contribuire, in base ai millesimi di competenza, al pagamento delle spese condominiali.

Quelli sopra tratteggiati sono i conflitti statisticamente più rilevanti tra i condomini e i negozianti dello stabile, esistono tuttavia svariate ulteriori problematiche che possono cagionare attriti.

Per dirimere tali conflitti è necessario avere regole ben precise, definite puntualmente dal regolamento condominiale, e un amministratore in grado di farle rispettare.

In ogni caso le norme del regolamento condominiale e l’opera dell’amministratore possono essere utili e necessari per dirimere i conflitti più macroscopici mentre per le questioni più secondarie e meno evidenti è consigliabile esercitare buon senso e moderazione, anche al fine di evitare lunghe e costose liti giudiziarie.

Condominio: balconi, si dividono solo le spese per gli elementi decorativi

Cassazione sentenza n. 6652/2017

La Cassazione fa chiarezza sulla ripartizione delle spese per il rifacimento dei balconi in condominio

Su chi gravano le spese per il rifacimento dei balconi di proprietà esclusiva dei condomini? A fare chiarezza è la Cassazione, con la recentissima sentenza di marzo n. 6652/2017, spiegando che i condomini sono chiamati a condividere le spese relative agli elementi decorativi, in quanto rientranti nelle parti comuni dell’edificio, mentre non devono sostenere quelle relative al rifacimento della pavimentazione (o soletta) che rimangono a carico del proprietario dell’appartamento.

Nella vicenda, una condomina impugnava innanzi al tribunale di Roma una delibera condominiale, chiedendo che venisse dichiarata nulla giacchè poneva a carico di tutti i condomini il costo dei lavori di rifacimento “dei frontalini e dei sottobalconi dell’edificio, quali elementi statici dei balconi, le cui opere necessarie dovevano gravare a totale carico dei proprietari dei balconi stessi, tra cui non vi era l’istante”.

Il condominio obiettava che si trattava di lavori inerenti l’estetica del fabbricato e il giudice di primo grado gli dava ragione, ritenendo “che i frontalini e i sottobalconi si inserivano nel prospetto dell’edificio, avevano una chiara funzione decorativa e artistica e dovevano, quindi, essere considerati parti comuni dell’edificio medesimo, contribuendo a renderlo esteticamente gradevole”.

La Condomina non si dava per vinta e proponeva appello ribadendo che i lavori nulla “avevano a che vedere con l’estetica e l’aspetto architettonico dell’edificio” ma la corte territoriale riteneva inammissibile l’impugnazione, giacchè era stato “ampliato il thema decidendum”.

A questo punto si appella alla Corte di Cassazione innanzi alla quale la donna riesce ad ottenere vittoria.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato, e la corte di merito ha erroneamente ritenuto “che la contestazione della delibera condominiale, in ordine all’inerenza dei lavori disposti anche all’impermeabilizzazione e rifacimento dei pavimenti dei balconi, fosse fatto nuovo inammissibile, perché dedotto per la prima volta in sede di gravame, mentre in realtà già nel giudizio di prime cure era stato precisato che dovevano porsi a totale carico delle unità immobiliari dalle quali si accede ai balconi i lavori diretti a preservare e conservare l’area di calpestio”. Solo la richiesta in appello della declaratoria di nullità per un motivo diverso da quello dedotto in primo grado, hanno precisato infatti i giudici, “costituisce, atteso il mutamento dell’iniziale “causa petendi”, una domanda nuova, vietata dall’art. 345 c.p.c.”.

Deve ritenersi, inoltre, precisa la Corte che “poiché l’assemblea condominiale non può validamente assumere decisioni che riguardino i singoli condomini nell’ambito dei beni di loro proprietà esclusiva, salvo che non si riflettano sull’adeguato uso delle cose comuni, nel caso di lavori di manutenzione di balconi di proprietà esclusiva degli appartamenti che vi accedono, è valida la deliberazione assembleare che provveda al rifacimento degli eventuali elementi decorativi o cromatici, che si armonizzano con il prospetto del fabbricato, mentre è nulla quella che disponga in ordine al rifacimento della pavimentazione o della soletta dei balconi, che rimangono a carico dei titolari degli appartamenti che vi accedono”.

Trasformazione del balcone in veranda

Per ampliare il balcone trasformandolo a veranda, bisogna rispettare lr regole circa l’uso delle parti comuni. E’ quanto afferma la Suprema Corte (Cass.Civ. II sez. 28 febbraio 2017 n. 5196) nel giudizio di legittimità al termine di una vicenda processuale nata in terra siciliana: un condomino provvede ad ampliare il proprio balcone e a trasformarlo in veranda, con chiusura sui tre lati, con ciò occupando in maniera significativa la colonna d’aria soprastante una chiostrina a servizio dell’unità immobiliare sottostante.

in primo grado il Tribunale di Palermo aveva ritenuto sussistente unicamente la violazione delle norme sulle distanze e ordinato la rimozione degli spuntoni di appoggio del balcone, che aggettavano sulla chiostrina.

La Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, introduce il concetto di utilizzo non consentito della facciata dell’edificio ai sensi dell’art. 1102 cod.civ., ordinando tuttavia la sola demolizione della veranda, ritenendo che l’attore – pur avendo lamentato anche l’ampliamento del balcone – avesse concluso solo per tale richiesta.

La Cassazione conferma la lettura del giudice di appello “ Il consolidato orientamento di questa Corte (ribadito anche con riguardo ad ipotesi analoghe a quella per cui è causa, nella quale, per quanto in specie accertato, un condomino ha trasformato il proprio balcone in veranda, altresì debordando dal suo perimetro originario) afferma che, allorché il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere nella sua proprietà esclusiva facendo uso di beni comuni, indipendentemente dall’applicabilità delle norme sulle distanze nei rapporti tra le singole proprietà di un edificio condominiale, è comunque necessario verificare che il condomino stesso abbia utilizzato le parti comuni dell’immobile nei limiti consentiti dall’art. 1102 c.c. (arg. da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10563 del 02/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4844 del 04/08/1988; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 682 del 28/01/1984)”

Il giudice territoriale aveva accertato, tramite consulenza tecnica, che l’ampliamento del balcone, la costruzione della veranda e il mancato rispetto dell’allineamento con gli altri balconi avevano cagionato una riduzione spazio sovrastante la chiostrina nella misura dell’8,1 % e che “ciò ha comportato un danno per la funzionalità della chiostrina come essenziale dispositivo di aerazione ed illuminazione dei locali ad essa prospicienti”

Osserva la Corte che il giudice di appello, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, “nell’accogliere la domanda di riduzione in pristino della veranda dal balcone di proprietà esclusiva, ha affermato che le opere denunciate, in violazione dell’art. 1102 c.c., comportassero proprio una sensibile riduzione all’ingresso di luce ed aria nella proprietà inferiore G. conseguibile dalla facciata esterna comune dell’edificio (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10704 del 14/12/1994; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1132 del 11/02/1985).”

La Suprema Corte ritiene anche che la domanda dell’attore riguardi l’intero manufatto realizzato e non solo il balcone: “Deve, al contrario, ritenersi che, come allega il ricorso incidentale, avendo il G. espressamente dedotto l’illegittimità dell’aumento di superficie del balcone realizzato dalla controparte e comunque richiesto il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione altresì di tale opera era da intendersi contenuta in modo implicito in detta domanda di riduzione in pristino, trovandosi con essa in rapporto di necessaria connessione”

La sentenza di merito è cassata e il processo rinviato ad altra sezione della corte di Palermo, che dovrà attenersi ai principi esposti.

Tabelle millesimali da modificare e non da rifare

Le tabelle millesimali quando vanno cambiate per modificazioni intervenute nel fabbricato? Anzitutto importante chiarire che il testo dell’articolo 69 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile premette al primo capoverso che i millesimi condominiali possono essere rettificati all’unanimità; ma anche che possono essere modificati o rettificati dall’assemblea condominiale con la maggioranza prevista dall’articolo1136, comma 2, del Codice civile quando risulta che: 1) sono conseguenza di un errore; 2) sono mutate le condizioni dell’edificio per più di un quinto (tassativamente solo per avvenute sopraelevazioni, incremento di superfici, o incremento o diminuzione di unità immobiliari).

C’è chi pensa che a fronte della necessità di intervenire con una variazione delle tabelle, la metodologia non potesse essere altra che quella di elaborare integralmente nuove tabelle ex novo. Nulla di più sbagliato: «rettificare o modificare» i millesimi non può affatto significare «rifare» le tabelle, dimenticando ed annullando totalmente i criteri con cui siano state redatte le precedenti tabelle. Altro errore è quello di ricalcolare i valori delle unità immobiliari (specialmente esercizi commerciali) sulla base di intervenute modificazioni dei loro valori immobiliari perché, al di là di ogni possibile e ragionevole interpretazione, le condizioni poste dall’articolo 69 richiamato non ricomprendono affatto una simile fattispecie.

In questo senso possono leggersi due interessanti decisione: una della Corte di Cassazione (n.3001/2010) e l’altra del Tribunale di Milano (n.8416 /2015) . La prima ha precisato che «non comportano la revisione o la modifica di tali tabelle né gli errori nella determinazione del valore, che non siano indotti da quelli sugli elementi necessari al suo calcolo, né i mutamenti successivi dei criteri di stima della proprietà immobiliare, pur se abbiano determinato una rivalutazione disomogenea delle singole unità dell’edificio o alterato, comunque,il rapporto originario fra il valore delle singole unità e tra queste e l’edificio», mentre la seconda, disponendo la «revisione delle tabelle millesimali di proprietà e delle tabelle di gestione in quanto le tabelle di proprietà vi influiscano», ha espressamente previsto che siano «tenuti comunque fermi i criteri convenzionali ricavabili dalle tabelle in uso».

Il meccanismo di adeguamento è peraltro semplicissimo, e consiste nel calcolare i nuovi valori (ai fini del calcolo delle tabelle millesimali) delle sole unità variate, secondo i criteri già adottati, aggiungerli ai precedenti valori e rapportare il tutto nuovamente a 1000 con una elementare operazione di proporzione.

Il costruttore non può imporre per regolamento limiti sulle parti comuni

Nella sentenza numero 5336 del 2 marzo 2017 la Corte di Cassazione esprime alcuni importanti principi in materia di diritto condominiale e in particolare in tema di regolamento condominiale e di parti comuni.

La vicenda viene posta all’attenzione della Suprema Corte tramite il ricorso presentato da alcuni condomini i quali, impugnando una sentenza della Corte d’Appello che li aveva visti soccombenti, lamentava diverse condotte poste in essere da altri condomini.

Nella doppia veste di venditori dell’immobile e di condomini, infatti, le controparti avrebbero a detta dei ricorrenti posto in essere svariati comportamenti degni di censura.

In particolare queste condotte, espresse in quattro motivi di ricorso, erano raggruppabili in due categorie: in prima battuta i ricorrenti lamentavano come le controparti non avessero provveduto a redigere il regolamento di condominio e non avessero “individuato, chiarito e concesso agli attori di utilizzare le parti comuni in quota proporzionale, come stabilito nei rogiti”.

In secondo luogo, i ricorrenti lamentavano come le controparti avessero, in seguito alla vendita dell’appartamento, provveduto a realizzare delle opere sulle parti comuni, ledendo il loro diritto di godimento.

La Corte di Cassazione, nel pronunciare la sentenza, tratta singolarmente le questioni.

Con riguardo alla prima doglianza, la Cassazione rigetta il ricorso proposto.

In particolare secondo i giudici i ricorrenti avevano chiesto di condannare i venditori degli immobili per non avere rispettato l’obbligo di redigere il regolamento di condominio, mentre in sede di appello avevano domandato la loro condanna per non avere individuato chiarito e concesso agli attori il diritto di utilizzare le parti comuni.

La domanda effettuata in grado di appello era considerata nuova e quindi, ai sensi dell’articolo 345 del Codice di Procedura Civile, questa veniva dichiarata inammissibile.

La Cassazione specificava inoltre il principio in ragione del quale “l’obbligo del venditore di un’unità immobiliare, compresa in un condominio edilizio, di individuare e concedere al compratore l’utilizzazione delle parti comuni dell’edificio non discende affatto dall’assunzione di un apposito ed autonomo vincolo negoziale, avendo piuttosto i singoli condomini di un edificio il diritto di utilizzare direttamente, per il miglior godimento della porzione di loro proprietà esclusiva, tutte quelle parti del fabbricato che, per la loro destinazione ad un uso comune, si presumono di proprietà condominiale a norma dell’articolo 1117 c.c.”.

Per quanto riguarda la seconda parte del ricorso, invece, la Cassazione accoglieva le argomentazioni dei ricorrenti.

Contabilità in disordine, il compenso non spetta all’amministratore

La prova del compenso dell’amministratore deve essere fornita anche mediante l’esibizione della contabilita’ condominiale. La Corte di Cassazione puntualizza, con la sentenza numero 3892 del 14 febbraio 2017 , alcuni principi in materia di amministrazione condominiale e di retribuzione dell’amministratore di condominio.

In particolare, la vicenda in commento principia quando un amministratore condominiale al termine del proprio mandato domanda allo stabile il saldo delle proprie spettanze.

Al rifiuto del condominio, l’amministratore risponde ricorrendo alle sedi giudiziali competenti.

La domanda di pagamento degli emolumenti viene rigettata sia in primo grado che in grado di appello, ove il giudice afferma che “dalla espletata ctu era risultata la mancanza di un giornale di contabilità che avesse registrato cronologicamente le operazioni riguardanti il condominio, onde non era possibile ricostruire l’andamento delle uscite e dei pagamenti effettuati”.

L’amministratore, quindi, ricorreva in Cassazione, domandando la revisione della predetta sentenza di merito.

La Cassazione, tuttavia, si associava alle considerazioni mosse dalla Corte d’Appello e specificava come nei doveri dell’amministratore vi sia quello di tenere una corretta contabilità condominiale.

Tale contabilità deve essere tenuta mediante la redazione da parte dell’amministratore di rendiconti periodici e del giornale di cassa.

In particolare, sottolinea la Suprema Corte la contabilità condominiale deve essere tenuta in modo preciso e regolare, di modo tale da consentire ai condomini di verificare le uscite, le entrate e la ripartizione delle spese.

Nel caso in oggetto, quindi, viene specificato che la mancata tenuta della regolare contabilità non costituisce necessariamente un danno per il condominio, tuttavia questa fa parte dei doveri dell’amministratore e quindi può comportare il mancato riconoscimento degli emolumenti dell’amministratore qualora questi non possa dare prova del mancato pagamento degli stessi.

Per quanto riguarda gli onorari dell’amministratore, infatti, l’avere mancato di tenere una precisa e regolare contabilità non consente di fornire la prova della spettanza degli onorari e comporta un possibile esito negativo in giudizio.

Nel caso in commento, inoltre, l’amministratore aveva omesso di ottenere le delibere dei rendiconti da parte dei condomini ai sensi dell’articolo 1130 bis del Codice Civile i quali , qualora approvati, avrebbero rappresentato un vero e proprio riconoscimento di debito in favore dell’amministratore.

Si può quindi concludere che la prova del credito dell’amministratore può essere provata solamente tramite una corretta documentazione dell’”ammontare complessivo dei versamenti effettuati dai condomini e dalle uscite per spese condominiali, con relativi documenti giustificativi”.

Al fine di vedersi riconoscere i propri emolumenti quindi, l’amministratore deve avere cura di tenere una contabilità precisa e aggiornata e ottenere periodicamente l’approvazione dei rendiconti come previsto dagli articoli 1130 e 1130 bis del Codice Civile.

Spese su balconi. Rifiuto di un condomino a far effettuare i lavori dall’impresa del Condominio,sostenendo che i farà fare i lavori a ditta di propria fiducia.

Per quanto concerne la sistemazione dei balconi a spese dei condomini, vi è una Sentenza di Cassazione n. 21343/14 del 9.10.2014 per la quale l’Assemblea, anche all’unanimità, non può imporre ad un condomino di eseguire dei lavori nella proprietà privata, il balcone in questo caso.

Ma attenzione. Qualora il condominio non possa provvedere all’esecuzione dei lavori relativi ai balconi, sostituendosi al loro proprietario esclusivo (es. pavimento del balcone) e qualora l’omessa manutenzione da parte del proprietario dovesse determinare un pregiudizio all’altrui proprietà esclusiva (ovvero anche alla proprietà comune, vedasi frontalino) non resterà che agire in giudizio facendo valere la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia (ex art. 2051 c.c.) onde ottenere il risarcimento degli stessi da parte dei proprietari che abbiano rifiutato di eseguire, o far eseguire, la manutenzione.

Saluti, dr. Giuseppe Cinà