Se il Condominio ostacola la mediazione paga le spese

Trib. Milano Sent. 21 /07/2016

Il condominio che non collabora allo svolgimento della mediazione, pur se in una materia nella quale non è prevista come obbligatoria, deve essere condannato al risarcimento del maggior danno pari alle spese sostenute per la procedura conciliativa che, per quanto facoltativa, appariva più che opportuna in quanto avrebbe consentito ad entrambe le parti di evitare i costi e i tempi del giudizio. La Sentenza del Tribunale di Milano del 21/7/2016 costituisce un importante precedente giurisprudenziale destinato a responsabilizzare le parti che, chiamate in mediazione (ancor più se non obbligatoria ex lege o ex officio iudicis), ritengono di eludere una effettiva partecipazione alla mediazione stessa finalizzata alla concreta definizione della lite.

Nella controversia sottoposta alla decisione del tribunale lombardo, il condominio si rendeva inadempiente al pagamento di fatture relative al servizio di riscaldamento. E, dopo alcuni solleciti, veniva preventivamente invitato in mediazione dalla ditta fornitrice al fine di pervenire ad una composizione amichevole. Al primo incontro di mediazione, il condominio non partecipava: si limitava a comunicare che vi era stata una errata notifica della convocazione e che aveva provveduto al versamento di un acconto sul dovuto.

L’organismo di mediazione provvedeva a convocare un nuovo incontro tra le parti e questa volta alla seduta partecipava anche l’amministratore del condominio. Ma ciò avveniva «al solo scopo di non incorrere nelle sanzioni di legge». Tale fallito tentativo di mediazione comportava costi per la ditta fornitrice pari a 410 euro per l’indennità di mediazione versata all’organismo, oltre a 538 euro per l’assistenza legale.

A distanza di un anno, la società creditrice procedeva giudizialmente nei confronti del condominio moroso (che peraltro restava contumace nel processo). Nel ricorso chiedeva – oltre al pagamento delle residue somme dovute per le forniture – anche il maggior danno (ex articoli 1218 e 1224, comma 2, del Codice civile) pari ai costi sostenuti per la mediazione e per la connessa assistenza legale.

Il giudice milanese, dopo aver posto in evidenza che la procedura mediativa nel caso di specie era da ritenersi facoltativa, rimarcava come nella lite in questione tale scelta appariva «maxime opportuna». Infatti, l’esito conciliativo avrebbe consentito ad entrambe le parti – incluso quindi lo stesso debitore – di evitare i costi ed i tempi del processo, «poi necessariamente incardinato a seguito della mancata collaborazione del condominio nella fase della mediazione e del pervicace inadempimento dello stesso»; il procedimento di mediazione pertanto promosso dalla parte creditrice «era a beneficio dello stesso debitore, a tacere della deflazione del carico giudiziario».

La sentenza dunque giunge a ritenere sussistente il nesso di causalità tra le spese per la mediazione ed il recupero del credito, «in quanto lo strumento della mediazione era obiettivamente funzionale ad evitare – con minimi costi per il convenuto – il presente giudizio nell’interesse di entrambe le parti e del sistema Giustizia», e pertanto condanna il condominio non solo al pagamento della sorta capitale, ma anche ai danni e alle spese processuali.

Spese per lavori urgenti

La Corte di Cassazione, con la decisione numero 2807 del 2 febbraio 2017, affronta il tema della responsabilità dell’amministratore di condominio per le opere straordinarie fatte eseguire senza la previa deliberazione assembleare.

In particolare, nel caso in oggetto, l’amministratore aveva fatto eseguire alcuni lavori straordinari ad un’impresa edile senza che questi fossero deliberati o in seguito convalidati dall’assemblea.

Il condominio, quindi, si era rifiutato di corrispondere quanto dovuto alla società appaltatrice ed aveva chiesto il pagamento del costo dei lavori all’amministratore.

La società appaltatrice, quindi, otteneva decreto ingiuntivo avverso il condominio, che proponeva opposizione.

Costituendosi in giudizio l’impresa chiamava altresì in causa l’amministratore di condominio, chiedendo in via subordinata che venisse accertata la sua responsabilità personale.

Il giudizio di primo grado si chiudeva con la condanna del solo condominio al pagamento delle spese.

Nel corso del giudizio di appello, invece, la situazione veniva modificata e l’amministratore veniva dichiarato tenuto a manlevare il condominio dall’onere di pagare i succitati lavori straordinari.

Soccombente in grado di appello, l’amministratore ricorreva in Cassazione, dove vedeva accolte le sue ragioni. La Cassazione, infatti, ha stabilito la legittimazione passiva del solo condominio rispetto all’obbligazione del pagamento delle somme richieste dalla società che aveva effettuato i lavori straordinari.

In particolare, secondo la Suprema Corte, l’elemento chiave della vicenda era il requisito dell’urgenza dei lavori effettuati.

L’amministratore di condominio, infatti, è mandatario dello stesso e deve garantire il buono stato e la sicurezza delle strutture.

Qualora egli ravvisi la necessità di realizzare dei lavori di urgenza al fine di evitare dei danni alle cose o alle persone è legittimato (anzi: tenuto) ad agire tempestivamente.

In tale caso, chiaramente, egli non diventa responsabile per il pagamento delle opere straordinarie realizzate, in quanto sono volte alla tutela dello stabile amministrato.

La responsabilità in proprio dell’amministratore sussiste solo se, in mancanza di una delibera assembleare e di una situazione di urgenza, lo stesso impegna il condominio per spese non necessarie e non richieste.

La Corte di Cassazione ha quindi affermato nel testo della sentenza il seguente principio “in materia di lavori di straordinaria amministrazione disposti dall’amministratore di condominio in assenza di previa delibera assembleare non è infatti configurabile alcun diritto di rivalsa o di regresso del condominio, atteso che i rispettivi poteri dell’amministratore e dell’assemblea sono delineati con precisione dalle disposizioni del codice civile (artt. 1130 e 1135) che limitano le attribuzioni dell’amministratore all’ordinaria amministrazione e riservano all’assemblea dei condomini le decisioni in materia di amministrazione straordinaria, con la sola eccezione dei lavori di carattere urgente”.

Termine per l’impugnativa di una delibera assembleare da parte di condomini assenti.

Nel caso in esame, una condomina impugnava avanti al Tribunale una delibera adottata dall’assemblea del Condominio, che nel costituirsi eccepiva la tardività dell’impugnazione, chiedendone comunque il rigetto nel merito.

Il Tribunale in prima battuta sospendeva l’esecuzione della delibera, ma tale sospensione veniva successivamente revocata dal Collegio, in accoglimento del reclamo proposto dal Condominio; il Tribunale poi con sentenza dichiarava la condomina decaduta dal diritto di impugnazione della delibera per tardiva proposizione.

Alla base della suddetta decisione, il Tribunale (richiamando l’ordinanza collegiale emessa in sede di reclamo) rilevava che

– il verbale della seduta era stato spedito all’indirizzo della ricorrente il 22 luglio 2010 con lettera raccomandata, di cui l’addetto postale aveva tentato il recapito il successivo 23 luglio 2010;

– ai sensi dell’art. 1335 c.c. la dichiarazione recettizia si presume conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario e che pertanto in questo caso spettava alla ricorrente dimostrare di essersi trovata senza colpa nell’impossibilità di acquisire la conoscenza dell’atto.

La Corte d’Appello dichiarava inammissibile il gravame, rilevando che, come già affermato dal tribunale,

– l’impugnazione della delibera era stata proposta oltre il termine di trenta giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza;

– non si poteva considerare, come dies a quo per l’impugnativa della deliberazione, il momento in cui il plico era stato ritirato in ufficio.

La condomina propone quindi ricorso per cassazione, lamentando la violazione ed erronea applicazione dell’art. 1137 c.c., in correlazione con gli artt. 1334 e 1335 c.c. e art. 66 disp. att. c.c.: per la ricorrente infatti, nella specie non è applicabile il principio della presunzione di conoscenza degli atti recettizi ex art. 1335 c.c, al fine di stabilire la data di comunicazione, nonchè, con essa, la decorrenza del dies a quo per l’impugnazione delle delibere condominiali: tale data deve viceversa farsi coincidere, nel caso di specie, col 27 luglio 2010, data in cui essa ha ritirato il plico presso l’Ufficio che lo aveva ricevuto in deposito dopo il tentativo di consegna.

La Suprema Corte, nel ritenere fondato il motivo di impugnazione, osserva quanto segue:

  1. a) a norma dell’art. 1137 c.c., il termine decadenziale di trenta giorni per impugnare le delibere dell’assemblea decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti e “dalla data di comunicazione per gli assenti”;
  2. b) la prova dell’avvenuto recapito della lettera raccomandata contenente il verbale dell’assemblea condominiale all’indirizzo del condomino assente comporta l’insorgenza della presunzione “iuris tantum” di conoscenza, in capo al destinatario, posta dall’art. 1335 c.c nonchè, con essa, la decorrenza del “dies a quo” per l’impugnazione della deliberazione, ai sensi dell’art. 1137 c.c.;
  3. c) il suddetto principio, di carattere generale, è condivisibile ove lo si colleghi effettivamente “all’avvenuto recapito dell’atto all’indirizzo del condomino assente”;
  4. d) nel caso di specie, è stato compiuto solo un tentativo di recapito stante l’assenza del destinatario o delle persone abilitate alla ricezione: all’indirizzo è stato lasciato solo l’avviso di tentativo di consegna, mentre il plico contenente il verbale è stato depositato nell’ufficio postale per mancato reperimento del destinatario;
  5. e) in tale ipotesi appare davvero arduo estendere la suddetta regola perchè il presupposto è ben diverso: manca il presupposto essenziale per l’applicabilità della presunzione di conoscenza posta dal’art. 1335 c.c, cioè l’arrivo dell’atto all’indirizzo del destinatario;
  6. f) per gli Ermellini – in caso di spedizione a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno e di mancato reperimento del destinatario da parte dell’agente postale – si deve fare applicazione analogica della regola dettata nella L. n. 890 del 2002, art. 8, comma 4, secondo cui:

“la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”; peraltro, poichè il citato regolamento del servizio di recapito adottato non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza, ma soltanto, all’art. 25, il “rilascio dell’avviso di giacenza”, la regola da applicare per individuare la data di perfezionamento della comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, in caso di mancato recapito della raccomandata all’indirizzo del destinatario, è quella che la comunicazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore.”

Esito del ricorso: accoglimento con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello.

Sent. Cassazione civile n. 25791 del 14-12-2016

Decreto ingiuntivo nullo se non sono diffidati tutti i comproprietari

Il GdP di Taranto chiarisce che il nominativo indicato nelle tabelle millesimali vale solo sino al momento in cui i pagamenti avvengono bonariamente

Prima di procedere al recupero delle spese condominiali nei confronti di un condomino moroso, l’amministratore di condominio è tenuto a diffidare anche tutti i suoi eventuali comproprietari. Se non lo fa, il decreto ingiuntivo eventualmente ottenuto deve considerarsi nullo.

Così, con sentenza del 1° marzo 2016 (qui sotto allegata), il Giudice di Pace di Taranto ha accolto l’opposizione avverso un’ingiunzione di pagamento notificata unitamente al precetto, presentata dal comproprietario di un’unità immobiliare che contestava, tra le altre cose, l’avventatezza dell’azione giudiziale dell’amministratore, avviata senza essersi prima accertato dell’interessamento degli altri proprietari al pagamento delle quote richieste.

Per il giudicante, prima di procedere al recupero giudiziale, in presenza di più proprietari l’amministratore avrebbe dovuto dare prova di aver messo in mora tutti gli aventi diritto e comproprietari.

In assenza di tale adempimento, insomma, non è possibile chiedere validamente un decreto ingiuntivo nei confronti di uno solo di essi.

Il nominativo indicato nelle tabelle millesimali vale infatti solo sino al momento in cui i pagamenti avvengono bonariamente, mentre quando diviene necessario procedere coattivamente non può prescindersi dal tenere in debito conto gli atti di proprietà dei condomini e/o catastali.

Per evitare l’atto del tutto annullabile, sarebbe in altre parole bastato eseguire una visura degli atti catastali e acquisire in tal modo le intestazioni delle diverse unità immobiliari.

Senza considerare che l’amministratore ha anche un preciso dovere di istituire e aggiornare un’anagrafe condominiale in cui raccogliere le generalità dei proprietari e dei titolari dei diritti reali e personali di godimento sui beni in condominio.

Una leggerezza non da poco, insomma, che pone nel nulla il decreto ingiuntivo e il precetto.

Regolamento di condominio e casa famiglia

Nel caso in cui il regolamento condominiale preveda che un appartamento possa essere destinato esclusivamente ad abitazione, studio professionale o ufficio privato, non è possibile adibirlo ad altre destinazioni, neanche a una casa-famiglia.

Non importa che il proprietario, unico interessato, abbia già ottenuto tutte le autorizzazioni amministrative necessarie a tal fine: per il Tribunale di Catania la residenza per anziani può essere aperta solo con l’autorizzazione aggiuntiva dei condomini.

La casa-famiglia, del resto, non può essere in nessun modo paragonata a una civile abitazione: le sue caratteristiche e la necessità aggiuntiva di un ambulatorio specializzato incrementano, infatti, l’affluenza sia nell’edificio che, soprattutto, nei parcheggi.

A precisarlo è la sentenza numero 4976/2015 della terza sezione civile: l’attività del proprietario dell’appartamento deve essere necessariamente approvata dall’assemblea condominiale con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 del codice civile, ovverosia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.

Il giudice siciliano, a sostegno delle sue conclusioni, sottolinea, peraltro, che il regolamento condominiale che dispone la limitazione della destinazione dell’edificio ha natura contrattuale in quanto è stato allegato al rogito e richiamato in esso.

Esso, poi, non può essere sottoposto ad alcuna interpretazione estensiva, nonostante non ponga alcun espresso divieto di casa-famiglia.

Insomma: il condomino deve rassegnarsi. La sua iniziativa non può proseguire se gli altri condomini non sono d’accordo.

Termine per impugnare la delibera condominiale

Il termine per impugnare la delibera scatta dopo dieci giorni dall’avviso di giacenza della raccomandata.

Deve ritenersi che la regola da applicare per individuare la data di perfezionamento della comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, in caso di mancato recapito della raccomandata all’indirizzo del destinatario, sia che la comunicazione si deve considerare per eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza ovvero dalla data del ritiro della raccomandata se anteriore.
Ne consegue che da tale data decorre il termine di decadenza di trenta giorni per proporre impugnazione contro la delibera condominiale da parte del singolo proprietario esclusivo.

Sentenza 25791 del 14-12-2016

Passaggio di consegne e risvolti di carattere penale

La Cassazione con sentenza n. 31192/14 ha condannato penalmente in primo grado ed in appello un amministratore di condominio per essersi rifiutato di restituire i documenti contabili inerenti all’amministrazione. La Cassazione II sez. penale con la sentenza sopra citata ha confermato la responsabilità dell’amministratore per entrambi i reati contestati, ossia appropriazione indebita aggravata (artt. 646 e 61 n. 7 cod. pen.) e mancata esecuzione di un provvedimento giurisdizionale (art. 388 co. 2 cod. pen.).

Innanzitutto appropriazione indebita, poiché la mancata restituzione dei documenti relativi all’amministrazione di un condominio, come più volte ricordato dai Giudici di Legittimità (su tutte Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 29451 del 10/07/2013 e Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 40906 del 18/10/2012), integra appunto gli estremi di tale reato. Per di più nella forma aggravata di cui all’art.61 cod. pen., perché commessa con “abuso di relazioni originate da prestazione d’opera” (Cass. Penale, Sez. VI, sent. n. 36022 del 05/10/2011).

Ma nel caso in questione al reato di cui all’art. 646 cod. pen. se ne aggiunge un’altro: quello previsto e punito con la reclusione fino a 3 anni dall’art. 388 co. 2 cod. pen.

Il Giudice civile aveva infatti ordinato in via di urgenza la restituzione dei documenti, ma tale ordine cautelare era stato volutamente disatteso, con la conseguente commissione di un reato. La Cassazione, infatti, ribadendo un orientamento costante e risalente sino al 1987, ha ricordato come “rientrano tra i provvedimenti cautelari del giudice civile la cui dolosa inottemperanza dà luogo a responsabilità penale tutti i provvedimenti cautelari previsti nel libro IV del codice di procedura civile, e quindi non soltanto quelli tipici, ma anche quello atipico adottato ex art. 700 c.p.c. (Case. Pen., Sez. II, sent. n. 31192 del 16/07/2014)”.

Disobbedire ad un provvedimento giurisdizionale è un reato, ma solo quando la mancata esecuzione spontanea renda ineseguibile quel provvedimento come nel caso di specie, dal momento che l’obbligo di restituzione dei documenti non poteva essere diversamente eseguito, neppure coattivamente, senza la spontanea collaborazione dell’ex amministratore (Cass. Pen., SS.UU., sent. n. 36692 del 27/09/2007).

Va ricordato che i documenti contabili sono indispensabili a tutelare la proprietà o il possesso di un condominio, “…pacifico essendo che l’ordine (non osservato) di consegna della documentazione Contabile inerente all’amministrazione di un condominio incide sulla proprietà condominiale, impedendone la corretta amministrazione (Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 31192 del 16/07/2014).

Reato di appropriazione indebita

E’ reato di appropriazione indebita depositare somme sul proprio conto corrente

Integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell’amministratore di condominio che trasferisce sul proprio conto corrente le somme depositate dai condomini per ottenere un tasso di interesse migliore.

Lo precisa la Cassazione con Sentenza n. 3354/2016 che non accoglie il ricorso dell’amministratore secondo cui la somma era stata depositata su altro conto a titolo di investimento nell’interesse esclusivo del condominio amministrato, pur non essendo destinata a fare fronte a spese condominiali

Il condominio risarcisce condomini o terzi che cadono accidentalmente nel viale condominiale

L’utilizzo del viale condominiale da parte dei condòmini, ma anche dei terzi, non risulta affatto imprevedibile od eccezionale, gli stessi, pertanto, non possono non fare affidamento circa la transitabilità e la sicurezza dell’anzidetto camminamento in assenza di limitazioni di transito, o segnali di pericolo, che avvisano della pavimentazione scivolosa. In tali condizioni, nondimeno, non risulta possibile neppure ipotizzare la concorrente, o esclusiva, responsabilità del terzo, atteso l’intrinseco stato di pericolosità in cui versa il viale, altrimenti sicuro.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25483 pubblicata in data 13 dicembre 2016.

Il familiare di un condomino conveniva in giudizio il condominio per ottenere il risarcimento del danno subito a seguito di una caduta sul vialetto di accesso allo stabile in condominio, reso viscido dalla formazione di muschio creatosi per la presenza di alcune piante in vasi posti al lato del vialetto.

In primo, ma anche in secondo grado, il condominio veniva condannato al risarcimento del danno essendo stati accertati i presupposti di cui all’art. 2051 Cc, tanto perché, a seguito di consulenza tecnica d’ufficio, veniva evidenziata l’intrinseca pericolosità della cosa in dipendenza di formazioni muschiose sull’intero viale e, di converso, l’assenza di elementi tali da far ritenere una qualche (co)responsabilità nel sinistro da parte del danneggiato.

Propone ricorso per cassazione il condominio, che affida lo stesso a tre motivi implicanti vizi per errori di diritto e vizio di omesso esame di un fatto decisivo per la controversia, quest’ultimo teso a dimostrare che: «a) non tutto il vialetto era coperto dal muschio b) il fenomeno muschioso originava da alcune piante in vasi posti al lato del vialetto» e, conseguentemente, la condotta colposa del danneggiato nonché l’omesso avvertimento da parte del condomino familiare della vittima.

Premette la Suprema Corte, richiamando i noti principi giurisprudenziali, che la responsabilità per cose in custodia, ex art. 2051 Cc, impone all’attore l’onere di fornire la prova «del nesso causale fra la cosa in custodia e l’evento lesivo nonché dell’esistenza di un rapporto di custodia relativamente alla cosa», viceversa, il convenuto, nel caso di specie il condominio, è tenuto a provare l’esistenza di un fattore esterno che abbia quei requisiti di imprevedibilità e di eccezionalità tali da interrompere il predetto nesso di causalità.

In altri termini, il condominio, per andare esente dalla responsabilità tipica del custode, deve dimostrare il caso fortuito o l’evento eccezionale ovvero la responsabilità concorrente o esclusiva del danneggiato che, nel primo caso, imporrebbe una riduzione del risarcimento.

A tale riguardo, una volta tenuto conto del fatto che l’utilizzo da parte dei condòmini, o di loro familiari, del viale di accesso allo stabile condominiale appare circostanza assolutamente normale e, quindi, di certo un evento niente affatto imprevedibile o eccezionale, gli stessi «non possono che fare affidamento sulla sicurezza dello stesso in assenza di specifiche limitazioni di transito o segnalazioni di pericolo od altri presidi diretti a limitarne l’uso dall’altro difetta la prova di quale fosse la effettiva dimensione della copertura muschiosa che rendeva viscido il vialetto; neppure è ipotizzabile il “fatto del terzo” così come prospettato dal ricorrente, in quanto, indipendentemente dal rinvenimento del fondamento giuridico dell’obbligo di preventiva informazione circa le condizioni del vialetto posto a carico dei familiari accompagnatori, è appena il caso di osservare come la condotta omissiva viene a collocarsi al di fuori della fattispecie illecita individuata dalla norma dell’art. 2051 c.c., nella quale il fatto del terzo -sempre che imprevedibile ed eccezionale- produce invece direttamente la pericolosità della res (altrimenti inerte) ipotesi che non ricorre nella specie».

La Corte, infine, prima di respingere il ricorso, non manca di sottolineare come nella vicenda giudiziaria non è stata posta all’attenzione dei giudici di merito – evenienza che precluderebbe qualsiasi statuizione sul punto da parte del Giudice di legittimità – una diversa e importante questione, quella relativa alla visibilità del pericolo.

In tali casi, infatti, allorquando il pericolo risulta visibile con l’ordinaria diligenza, l’utente, nell’usufruire del bene in custodia, deve prestare quel minimo di attenzione necessaria ad evitare il danno, in mancanza, il risarcimento potrebbe venire parzialmente o totalmente escluso in virtù del “fatto del terzo”.

Il cambio d’uso non incide sui millesimi

La revisione delle tabelle non è obbligatoria per il cambio di destinazione. Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione (sentenza 19797/2016) torna sulle problematiche della revisione delle tabelle millesimali. Queste tabelle (differenziate per tipologia di spesa) rappresentano numericamente le quote in base alle quali ciascun condomino riceve l’attribuzione dei costi di gestione e quindi costituiscono uno strumento fondamentale per l’amministrazione del fabbricato.

La legge (articolo 69 dele Disposizioni di attuazione del Codice civile) prevede anche un sistema di «aggiornamento» delle stesse, denominato «revisione», che è finalizzato a far fronte alle eventuali modifiche della consistenza dell’edificio. Tuttavia, il codice circoscrive le ipotesi in cui la revisione è obbligatoria a casi limitati a eventuali errori nella redazione originaria e/o variazioni volumetriche delle unità immobiliari.

Nel caso della sentenza si è affermato che, considerate le condizioni poste dalla legge, e anche per ragioni di certezza dei diritti/obblighi dei singoli condòmini, una diversa destinazione d’uso di un locale/magazzino (originariamente commerciale) non può incidere sull’assetto millesimale che non dipende da tale aspetto puramente soggettivo. In definitiva, le variazioni dell’immobile che non riguardano la sua consistenza non danno luogo a necessaria revisione delle tabelle.