Il cambio d’uso non incide sui millesimi

La revisione delle tabelle non è obbligatoria per il cambio di destinazione. Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione (sentenza 19797/2016) torna sulle problematiche della revisione delle tabelle millesimali. Queste tabelle (differenziate per tipologia di spesa) rappresentano numericamente le quote in base alle quali ciascun condomino riceve l’attribuzione dei costi di gestione e quindi costituiscono uno strumento fondamentale per l’amministrazione del fabbricato.

La legge (articolo 69 dele Disposizioni di attuazione del Codice civile) prevede anche un sistema di «aggiornamento» delle stesse, denominato «revisione», che è finalizzato a far fronte alle eventuali modifiche della consistenza dell’edificio. Tuttavia, il codice circoscrive le ipotesi in cui la revisione è obbligatoria a casi limitati a eventuali errori nella redazione originaria e/o variazioni volumetriche delle unità immobiliari.

Nel caso della sentenza si è affermato che, considerate le condizioni poste dalla legge, e anche per ragioni di certezza dei diritti/obblighi dei singoli condòmini, una diversa destinazione d’uso di un locale/magazzino (originariamente commerciale) non può incidere sull’assetto millesimale che non dipende da tale aspetto puramente soggettivo. In definitiva, le variazioni dell’immobile che non riguardano la sua consistenza non danno luogo a necessaria revisione delle tabelle.

Valido il regolamento approvato dopo la vendita se l’acquirente dà mandato di deposito presso il notaio

È valido il regolamento approvato dopo la compravendita quando l’acquirente ha conferito al costruttore la delega di depositarlo presso un notaio. Il neo proprietario dovrà quindi rimuovere dal terrazzo le fioriere vietate dal regolamento stesso.
È quanto stabilito dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 23128 del 14 novembre 2016, ha respinto il ricorso dell’acquirente di un appartamento che aveva messo dei vasi che ostruivano la vista, sul mare, dei vicini di casa.
Per la seconda sezione civile, dunque, è indubbia la natura convenzionale del regolamento in questione, data dal fatto che l’acquirente non ha assunto il generico impegno a rispettare l’emanando regolamento, ma ha dato specifico incarico di predisporre tale regolamento in nome e per conto proprio, previsione che consente di superare l’obiezione della mancanza di regolamento al momento dell’acquisto dell’unità immobiliare, posto che tale regolamento deve ritenersi dal medesimo accettato nel rispetto delle forme obbligatoriamente prescritte. Inoltre, spiegano ancora gli Ermellini, dato che ai sensi dell’art. 1388 cod. civ. gli effetti del contratto concluso dal rappresentante si perfezionano direttamente nei confronti del rappresentato e preso atto che il neo proprietario non invoca la nullità di siffatta clausola contrattuale o la successiva revoca della procura o il suo superamento da parte del costruttore, il regolamento condominiale risulta opponibile all’appellante in quanto predisposto dall’originario venditore su suo specifico incarico contrattale. È dunque evidente che l’obbligatorietà del regolamento viene immediatamente ricollegata al potere rappresentativo concesso dall’uomo alla società, restando estranea alla dinamica dei rapporti prospettati dalla parte ricorrente
Nell’ipotesi in esame non ricorre, secondo la Corte suprema, un’ipotesi di regolamento che avrebbe dovuto essere approvato dall’assemblea condominiale o l’affidamento di un mandato alla società venditrice di predisporre il regolamento condominiale ma, semplicemente, l’attribuzione di un incarico alla società venditrice di predisporre il regolamento in nome e per conto proprio delimitando le materie sulle quali sarebbe dovuto intervenire. E, il divieto di formare fioriere mobili rientrava nella materia affidata al regolamento che sarebbe stato predisposto.

Chi si oppone all’ingiunzione del condominio può contestare debito e verbale ma non la delibera

Nel giudizio di opposizione all’ingiunzione ottenuta dal condominio il proprietario esclusivo non può contestare la validità della delibera che ripartisce le spese ma solo la sussistenza del debito, la documentazione posta a fondamento del provvedimento monitorio o il verbale dell’assemblea. E ciò perché la decisione assunta dall’adunanza prova di per sé l’esistenza del credito per l’ente di gestione e l’eventuale vizio della delibera per la mancata convocazione di un condomino deve essere fatto valere in altra sede da parte del singolo proprietario con l’impugnazione ex articolo 1137 Cc. È quanto emerge dalla sentenza 22452/16, pubblicata il 4 novembre dalla sesta sezione civile della Cassazione.

Attualità ed efficacia

Respinto il ricorso del condominio che contesta l’appartenenza al supercondominio. In generale, l’ambito del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio (nella specie “super”) è ristretto alla verifica dell’esistenza e dell’efficacia della delibera con cui l’assemblea ha approvato la spesa e la relativa ripartizione fra i condomini: la decisione costituisce titolo di credito per l’ente di gestione che lo legittima non solo a ottenere il provvedimento monitorio ma anche la condanna al pagamento delle somme nel giudizio di opposizione proposto contro il decreto ingiuntivo dal condomino moroso. Inutile dunque contestare la delibera laddove l’attualità del debito del proprietario esclusivo non sarebbe comunque subordinata alla validità della decisione ma soltanto alla sua perdurante efficacia.

Nullità e annullabilità

Va detto poi che l’eventuale omessa convocazione di un condomino costituisce motivo di annullamento e non di nullità della delibera approvata dall’assemblea. E quindi non si tratta di un vizio che può essere dedotto nella fase dell’opposizione a decreto ingiuntivo. Va invero ricordato che sono nulle solo le delibere: prive degli elementi essenziali; con oggetto impossibile o illecito oppure che non rientra nella competenza dell’assemblea; che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini; comunque invalide in relazione all’oggetto. Non resta allora che pagare le spese di giudizio e il contributo unificato aggiuntivo

Chi installa l’impianto fotovoltaico sul tetto non deve pagare un terzo delle spese per il rifacimento

Altro che uso esclusivo. Chi installa l’impianto fotovoltaico sul tetto comune dell’edificio condominiale non deve pagare un terzo delle spese in caso di rifacimento delle coperture: la possibilità di montare pannelli solari sul lastrico è infatti da ricondurre alla facoltà ex articolo 1102 Cc che consente un miglior godimento della cosa comune. È quanto emerge dalla sentenza 23206/15, pubblicata dalla quinta sezione civile del tribunale di Roma (giudice unico Guido Berri).

Utilizzo paritetico

Niente da fare per il singolo condomino che vorrebbe far annullare o comunque dichiarare inefficace la delibera adottata dall’assemblea sul riparto dei costi per i lavori alle coperture dell’edificio. Il giudice del merito, in effetti, deve limitarsi a riscontrare la legittimità della decisione assunta dall’adunanza senza poter entrare nel merito o controllare il potere discrezionale esercitato dall’insieme dei proprietari esclusivi. Non giova all’attore invocare il regolamento condominiale: la norma “incriminata”, contenuta nell’articolo 11, si riferisce soltanto alle riparazioni parziali del lastrico in corrispondenza delle singole scale che compongono l’edificio. Ed è escluso che montare i pannelli solari privati sul tetto comune configuri un uso esclusivo del lastrico perché l’installazione non impedisce di fare altrettanto ad altri singoli proprietari o allo stesso condominio né di utilizzare per altri scopi le coperture del fabbricato: non si applica allora il criterio ex articolo 1226 Cc che prevede l’obbligo di pagamento del 33 per cento delle spese. L’impianto fotovoltaico, d’altronde, non lede il decoro architettonico del palazzo né può risultare dannoso per la sicurezza e la stabilità della costruzione. Al condominio riottoso non resta che pagare le spese di lite al condominio. Sentenza esecutiva per legge.

Il condomino torna al centralizzato se il suo distacco costa di più agli altri e riduce il calore nelle case

Se il distacco dall’impianto centralizzato comporta un aggravio di costi per tutti gli altri proprietari e uno squilibrio di funzionamento, il condomino sarà tenuto al ripristino della situazione originaria. Né tanto meno il proprietario potrà pensare semplicemente di concorrere alle spese per manutenzione straordinaria, messa a norma e conservazione dell’impianto. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 22285/16, pubblicata il 3 novembre dalla sesta sezione civile.
Il collegio rigetta il ricorso del proprietario di un appartamento che decideva di distaccarsi dall’impianto centralizzato. Il condominio, però, con una delibera, non concedeva al ricorrente tale possibilità perché avrebbe danneggiato le altre unità sia da un punto di vista economico che di rendimento del riscaldamento. A dare credito al condominio è il tribunale che rigetta l’istanza del proprietario. La Cassazione è dello stesso avviso: al ricorrente non può essere concessa tale facoltà. È ammessa la possibilità del singolo di distaccarsi dall’impianto comune, a patto però che non ci siano aggravi di costi per gli altri condomini e che dal distacco non derivino notevoli squilibri di funzionamento.
L’onere della prova in capo al condomino che intenda esercitare tale facoltà viene meno «soltanto nel caso in cui l’assemblea condominiale abbia effettivamente autorizzato il distacco dall’impianto comune sulla base di una propria autonoma valutazione della sussistenza dei presupposti citati». Va fatta un’ulteriore precisazione: chi intende distaccarsi dovrà, «in presenza di squilibri nell’impianto condominiale e/o aggravi per i restanti condomini, rinunciare dal porre in essere il distacco perché diversamente potrà essere chiamato al ripristino dello status quo ante».

Né il soggetto interessato potrà effettuare il distacco e ritenere di essere tenuto solo «a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma», perché tale opportunità è prevista solo per i proprietari che abbiano potuto distaccarsi e che abbiano dimostrato che dal loro distacco non derivano conseguenze spiacevoli per gli altri condomini.

I cinque giorni di preavviso al condomino si contano dall’avviso di giacenza della convocazione

Conta la data dell’avviso di giacenza alla posta ai fini del preavviso di cinque giorni necessario per la convocazione del condomino all’assemblea condominiale: la raccomandata non recapitata per momentanea assenza del destinatario, infatti, deve ritenersi entrata nella sfera di conoscibilità dell’interessato nel momento in cui è rilasciato l’avviso secondo cui il plico deve essere ritirato all’ufficio postale. È quanto emerge dalla sentenza 22311/16, pubblicata il 3 novembre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Presunzione e disponibilità

Accolto il ricorso del condominio nella controversia con il proprietario esclusivo che vorrebbe fosse dichiarata la nullità della delibera per non essere stato informato dell’assemblea. Sbaglia la Corte d’appello ad annullare la decisione adottata dall’assemblea sul rilievo che il termine libero di cinque giorni prescritto dall’articolo 66, terzo comma, disp. att. dovrebbe farsi decorrere dalla ricezione della convocazione da parte del condomino e non dalla relativa spedizione. In realtà nel caso della raccomandata non consegnata per l’assenza del destinatario e di una persona abilitata a riceverla è la presunzione di conoscenza ex articolo 1335 Cc a far ritenere rilevante il rilascio dell’avviso di giacenza del plico presso la posta e non il momento in cui la missiva viene consegnata. Nella specie la comunicazione è ritirata soltanto il 18 aprile ma deve ritenersi entrata nella disponibilità del condomino già il 9 del mese grazie all’avviso del postino. Parola al giudice del rinvio.

Prorogatio imperii dell’amministratore – Nomina dichiarata invalida – Potere di rappresentanza fino alla sostituzione – Legittimità – sentenza 1386 del 24-01-2016 massima 1

In tema di condominio negli edifici, la prerogatio imperii dell’amministratore, trova fondamento nella presunzione di conformità alla
volontà dei condomini e nell’interesse del condominio alla continuità dell’amministratore, e, quindi, non solo nelle ipotesi di scadenza del
termine di cui all’art. 1129 cc o di dimissioni, ma anche nei casi di revoca o annullamento per illegittimità della delibera di nomina. Ne
consegue che l’amministratore condominiale, la cui nomina sia stata dichiarata invalida, continua a esercitare legittimamente, fino
all’avvenuta sostituzione, i poteri di rappresentanza, anche processuale, dei comproprietari cui, ratione temporis, deve farsi riferimento.

La quota del condomino per l’ascensore non aumenta solo perché il suo immobile è più frequentato

Annullate. Addio alle delibere con cui il condominio ha tentato di aumentare le spese per l’ascensore a carico agli appartamenti più abitati, o frequentati da esterni, nell’ambito dell’edificio. E ciò perché il criterio, che pure si ispira a una contribuzione per un presunto maggiore utilizzo dell’impianto, risulta arbitrario perché contrario alle disposizioni legislative in materia: bisogna applicare la norma ex articolo 1124 Cc. È quanto emerge dalla sentenza 11776/16, pubblicata dalla quinta sezione civile del tribunale di Roma
(giudice Antonella Zanchetta), con una pronuncia che può essere utile agli studi professionali e alle altre attività lavorative svolte nei condomini con civili abitazioni laddove l’ente di gestione può provare a penalizzarli per il più intenso uso dei servizi comuni dell’edificio.

Diritto compresso

Accolta l’opposizione proposta da una giovane donna cinese: “a essere annullati sono il preventivo e il consuntivo del bilancio adottato da un condominio della Capitale dalle parti dell’Esquilino, la chinatown locale. E lo stop non scatta solo perché il riparto delle spese era previsto «per ciascun piano in relazione al numero delle persone che abitano in ciascun appartamento» ma anche perché aumentare gli oneri condominiali per la manutenzione dell’impianto in relazione «all’affluenza del numero dei soggetti» presso l’appartamento della ragazza compromette il suo diritto di condomina. Non pesa soltanto l’inosservanza dei criteri ex articolo 1124 Cc ma anche il contrasto con lo stesso regolamento condominiale depositato in giudizio: deve valere la regola secondo cui la spesa è ripartita, per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo“.

Senza testimoni

Non trova ingresso la domanda di prova orale del condominio, probabilmente per dimostrare per testi l’andirivieni nell’appartamento “incriminato”. Né può essere accolta l’eccezione di decadenza dell’impugnazione proposta dall’ente di gestione: “in materia, conclude il giudice, occorre ribadire le distinzioni svolte dalla giurisprudenza di legittimità sulle circa le delibere nulle – quelle che hanno un oggetto impossibile, illecito, contrario a norme imperative e tale da comprimere in modo negativo incidendo sul diritto individuale del singolo condomino – da quelle annullabili, per le quali effettivamente esiste il termine decadenziale ex articolo 1137 Cc. Al condominio non resta che pagare le spese di giudizio“.

LAVORI DI APPALTO – VIZI – OBBLIGHI – RISTORO – sentenza 12098 del 14-06-2016 massima 1

Laddove vi sia riscontrata una cattiva esecuzione dei lavori di appalto, va ritenuta responsabile, in forza degli obblighi nascenti dal
contratto di appalto, la stessa ditta esecutrice dei lavori, dunque il direttore dei lavori per conto del committente, a capo di quest’ultima.
L’amministratore, stante l’esecuzione dell’opera non a regola d’arte, deve convocare la ditta appaltatrice e pretendere dalla stessa
l’eliminazione dei vizi.

Non si modificano le tabelle millesimali solo perché il locale è divenuto inservibile come deposito

Il singolo condomino non può ottenere la revisione delle tabelle millesimali soltanto perché il suo seminterrato è divenuto inservibile come magazzino a causa delle infiltrazioni d’acqua. E ciò perché il valore proporzionale di ciascuna porzione dell’edificio è calcolato sulla base delle caratteristiche proprie degli immobili e non anche rispetto alla loro destinazione d’uso. Ancora. Nelle tabelle c’è l’«errore essenziale» che ne consente la revisione soltanto quando l’inesattezza, di fatto o di diritto, riguarda gli elementi necessari per calcolare il valore delle singole porzioni: estensione, altezza, ubicazione ed esposizione. È quanto emerge dalla sentenza 19797/16, pubblicata il 4 ottobre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Ha un bel dire, il proprietario esclusivo del magazzino: “l’umidità proveniente dal sottosuolo ha reso il locale completamente inutilizzabile e, dunque, le tabelle millesimali devono essere rifatte perché non rispecchiano più la vera ripartizione del valore fra le varie proprietà esclusive. È vero, le tabelle possono essere ricalcolate anche nell’interesse di un condomino solo, ma soltanto quando risultano modificate le condizioni di una parte dell’edificio, ad esempio in caso di sopraelevazioni, innovazioni di vasta portata o espropriazioni parziali: tutte circostanze, insomma, che alterano in modo significativo l’originario rapporto fra i valori delle singole porzioni; sono invece esigenze di certezza sui diritti e gli obblighi dei condomini che impongono di ritenere irrilevanti i successivi mutamenti dei criteri di stima per la proprietà immobiliare, anche quando le varie parti dell’edificio risultano rivalutate in modo non omogeneo: non può dunque incidere sull’assetto millesimale una diversa destinazione d’uso del locale, che risulta determinata essenzialmente da valutazioni di carattere soggettivo“.

Non giova infine al singolo condominio dedurre che le tabelle sarebbero affette da errore. L’errore di valutazione dell’immobile non può mai essere ritenuto essenziale: non riguarda infatti la qualità della cosa ex articolo 1429, n. 2, Cc. E lo stesso articolo 68, ultimo comma, disp. att. Cc stabilisce che nella valutazione «non si tiene conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione».