Parabola e tettoia del condomino restano sul muro perimetrale perché sono discrete e non ledono il decoro

Il condominio non può ottenere che il proprietario esclusivo rimuova la pensilina e l’antenna satellitare installata sul muro perimetrale se i manufatti sono discreti e non si configura la lesione del decoro architettonico. Va detto poi che le disposizioni ex articolo 1117 Cc non si applicano alle villette bifamiliari a schiera ma soltanto agli edifici divisi in orizzontale per piani. E il regolamento condominiale ben può essere interpretato in modo elastico e dunque non deve ritenersi necessaria l’autorizzazione dell’assemblea per ogni minimo intervento eseguito dal singolo sulle pareti esterne alla villetta di proprietà esclusiva. È quanto emerge dalla sentenza 20248/16, pubblicata il 7 ottobre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Dimensioni e colore

Diventa definitiva la decisione della Corte d’appello: “né la pensilina né la parabola alterano le linee architettoniche e la fisionomia estetica del complesso immobiliare“. Decisive le foto agli atti: “la tettoia è piccola, sobria e di colore neutro e s’inserisce in modo armonico nell’ambiente. E l’antenna satellitare, che pure ha dimensioni modeste, risulta piazzata sulla facciata posteriore della villetta, come d’altronde hanno già fatto altri condomini“. La valutazione in proposito compiuta dai giudici del merito è un tipico accertamento in fatto che risulta insindacabile in sede di legittimità se motivato in modo adeguato.

Funzioni inassimilabili

Inutile poi invocare la condominialità dei muri maestri ex articolo 1117 Cc ripresa dal regolamento perché i muri perimetrali sono invece di proprietà esclusiva e non sono quindi assimilabili ai primi: hanno soltanto la funzione di delimitare le varie porzioni e di sorreggere la copertura, anch’essa di proprietà esclusiva (o in comune fra le due villette affiancate). Il regolamento, in definitiva, vieta solo innovazioni e modificazioni senza il placet dell’assemblea e per contestare quest’interpretazione il condominio avrebbe dovuto prospettare la violazione delle norme di interpretazione del contratto ex articoli 1362 Cc e seguenti. Non l’ha fatto e dunque paga le spese di giudizio.

Usucapione di parti comuni condominiali – Sentenza Corte di Cassazione n. 20039 del 6/10/2016

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza della II sezione civile del 6 ottobre 2016, n. 20039, conferma la possibilità per il condomino di usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso, essendo però necessario allegare e dimostrare di avere goduto del bene a titolo esclusivo.
Nel caso all’esame della Corte “alcuni condomini convenivano dinanzi al Tribunale di Salerno un altro condomino, e lamentando che il quest’ultimo, in occasione della ristrutturazione di alcuni suoi immobili, aveva chiuso con opere murarie e con una porta a battenti in ferro un porticato comune a tutti i condomini e, inoltre, si era impossessato di un forno e aveva demolito un pozzo comune e dei lavatoi, chiedendo la condanna alla demolizione delle opere illegittime e al ripristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento danni.
Il condomino convenuto, accusato di quanto sopra, affermava di essere proprietario dei beni in questione e di averli comunque acquisiti per usucapione“.
Il Tribunale di primo grado, accogliendo la domanda, dichiarava illegittime le opere di chiusura del porticato eseguite dal convenuto, condannando quest’ultimo al loro abbattimento e al ripristino dello stato dei luoghi. La Corte di Appello di Salerno ha seguito in sostanza la decisione del giudice di primo grado.
La Corte di Cassazione, nel caso di specie, dichiarava infondato il ricorso per una mancanza intrinseca del processo, a livello soprattutto probatorio, sia in primo che in secondo grado, ma afferma un principio da non sottovalutare. La Corte di Cassazione afferma che, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza, in tema di condominio, il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso. A tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus“, senza opposizione, per il tempo utile ad usucapire (richiamando Cass. 23­7/­2010 n. 17322).
Il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune, pertanto, deve provare di averla sottratta all’uso comune per il periodo utile all’usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà“.

Rimborso delle spese anticipate: amministratore uscente può agire verso i singoli condomini

Un società conveniva in giudizio un Condominio, chiedendo la condanna al pagamento di un credito, dalla stessa maturato a titolo di anticipazione spese, durante i servizi di gestione dalla stessa svolte.
Il convenuto restava contumace. Dalla documentazione prodotta emergeva che la società attrice aveva anticipato numerose spese per conto del Condominio. La circostanza veniva altresì confermata dall’accertamento svolto dal CTU. Per di più, il prospetto contabile era stato consegnato dall’attrice al nuovo amministratore in occasione del cd “passaggio di consegne”, e questi non aveva contestato alcunché, sottoscrivendo il documento per accettazione.
Il Giudice, nell’accogliere la domanda attorea, osserva che il credito per le somme anticipate nell’interesse del Condominio, da parte dell’amministratore, trae origine da un rapporto di “mandato” che intercorre con i condomini (ex multis Corte di Cassazione, Sezione II civile, 4 ottobre 2005 n. 19348). L’amministratore di condominio, per lo stesso Tribunale, configura un “ufficio di diritto privato” orientato alla tutela del complesso degli interessi dei condomini, singolarmente considerati, che è assimilabile, pur con taluni tratti distintivi, al “mandato con rappresentanza”.
Da tale considerazione consegue che nei rapporti tra amministratore ed ognuno dei condomini, trova applicazione l’art. 1720 comma I c.c., in conformità del quale il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico.
Nascendo l’obbligazione restitutoria a carico dei singoli condomini nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione, la situazione non muta neppure quando termina l’incarico, con la conseguenza che “la domanda dell’amministratore cessato dall’incarico, diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale, può essere proposta, oltre che nei confronti del Condominio, anche nei confronti del singolo condomino inadempiente all’obbligo di pagare la propria quota” (Corte di Cassazione, Sezione II civile, 12 febbraio 1997, n. 1286).
Il giudice conclude affermando che l’amministratore cessato dall’incarico risulta legittimato a chiedere il rimborso delle somme, dallo stesso anticipate per la gestione condominiale, sia nei confronti del Condominio legalmente rappresentato dal nuovo amministratore sia, cumulativamente, nei confronti di ogni singolo condomino, la cui obbligazione di rimborsare all’amministratore, mandatario, le anticipazioni da questo operate nell’esecuzione dell’incarico, deve considerarsi sorta nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione e per effetto di essa, e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo amministratore, che amplia la legittimazione processuale passiva senza eliminare quelle originali, sostanziali e processuali.

Parabola e tettoia del condomino restano sul muro perimetrale perché sono discrete e non ledono il decoro

Il condominio non può ottenere che il proprietario esclusivo rimuova la pensilina e l’antenna satellitare installata sul muro perimetrale se i manufatti sono discreti e non si configura la lesione del decoro architettonico. Va detto poi che le disposizioni ex articolo 1117 Cc non si applicano alle villette bifamiliari a schiera ma soltanto agli edifici divisi in orizzontale per piani. E il regolamento condominiale ben può essere interpretato in modo elastico e dunque non deve ritenersi necessaria l’autorizzazione dell’assemblea per ogni minimo intervento eseguito dal singolo sulle pareti esterne alla villetta di proprietà esclusiva. È quanto emerge dalla sentenza 20248/16, pubblicata il 7 ottobre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Dimensioni e colore

Diventa definitiva la decisione della Corte d’appello: né la pensilina né la parabola alterano le linee architettoniche e la fisionomia estetica del complesso immobiliare. Decisive le foto agli atti: “la tettoia è piccola, sobria e di colore neutro e s’inserisce in modo armonico nell’ambiente. E l’antenna satellitare, che pure ha dimensioni modeste, risulta piazzata sulla facciata posteriore della villetta, come d’altronde hanno già fatto altri condomini“. La valutazione in proposito compiuta dai giudici del merito è un tipico accertamento in fatto che risulta insindacabile in sede di legittimità se motivato in modo adeguato.

Funzioni inassimilabili

Inutile poi invocare la condominialità dei muri maestri ex articolo 1117 Cc ripresa dal regolamento perché i muri perimetrali sono invece di proprietà esclusiva e non sono quindi assimilabili ai primi: hanno soltanto la funzione di delimitare le varie porzioni e di sorreggere la copertura, anch’essa di proprietà esclusiva (o in comune fra le due villette affiancate). Il regolamento, in definitiva, vieta solo innovazioni e modificazioni senza il placet dell’assemblea e per contestare quest’interpretazione il condominio avrebbe dovuto prospettare la violazione delle norme di interpretazione del contratto ex articoli 1362 Cc e seguenti. Non l’ha fatto e dunque paga le spese di giudizio.

Il richiamo al regolamento condominiale nel rogito basta a limitare la destinazione d’uso dell’immobile

Chi compra l’appartamento accetta il regolamento condominiale di natura contrattuale richiamato nel rogito anche se esso non risulta trascritto nell’atto di acquisto: basta il semplice riferimento contenuto nel contratto per far ritenere approvate dall’acquirente le relative regole, comprese quelle che pongono limiti alla proprietà esclusiva, come ad esempio l’obbligo di adibire gli immobili dell’edificio soltanto allo svolgimento di libere attività professionali. È quanto emerge dalla sentenza 19212/16, pubblicata il 28 settembre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Senza conflitto

Accolto il ricorso di alcuni avvocati contro la sentenza che ha ritenuto legittimo l’affitto di un appartamento a un centro estetico in barba al regolamento condominiale. E la presenza della beauty farm nell’edificio disturba gli uffici vicini anzitutto per la musica sparata a palla e poi per l’utilizzo «smodato» delle strutture dell’edificio. Sbaglia la Corte d’appello a concludere per l’inapplicabilità della clausola regolamentare sul rilievo che «non si può presumere l’avvenuta trascrizione del regolamento per essere un obbligo posto a carico del notaio rogante, in difetto di prova dell’avvenuta annotazione». In realtà non conta se il regolamento condominiale sia o meno materialmente inserito nell’atto di acquisto: è sufficiente richiamarlo nel rogito per porre limiti alla proprietà esclusiva di ciascun condomino, a patto che i paletti posti siano spiegati in modo chiaro ed esplicito dalle relative clausole. La trascrizione, salvo casi particolari, serve soprattutto per risolvere conflitti tra diritti reciprocamente incompatibili. E il conflitto non si verifica quando una proprietà risulta espressamente acquistata come limitata da diritti altrui: il bene non viene trasferito come libero né l’acquirente può pretendere che lo diventi a posteriori. Parola al giudice del rinvio.

Distacco dall’impianto centralizzato senza il consenso dell’assemblea se non arreca danno ad altri condomini

Un condomino ben può decidere di staccarsi dal riscaldamento centralizzato in assenza di una delibera autorizzativa se ciò non nuoce agli altri proprietari esclusivi. Infatti è da escludere «la necessità di una delibera condominiale in tutti quei casi in cui il distacco dal riscaldamento centralizzato risulti non influire sulla funzionalità o sui costi dell’impianto» anche se «il condomino distaccato è comunque tenuto a contribuire alle spese ordinarie e straordinarie di manutenzione, nonché a quelle di gestione se, e nei limiti in cui, il distacco non porti con sé una diminuzione degli oneri del servizio». Lo ha sancito l’ordinanza 18170 del 16 settembre 2016 della sesta sezione civile della Cassazione.
La Suprema corte ha rigettato il ricorso di un condominio contro la decisione del giudice del rinvio di annullare la delibera con cui l’ente aveva respinto le richieste di una condomina per ottenere il placet per il distacco del centralizzato da due appartamenti di sua proprietà. Il giudice, sulla base della nuova formulazione dell’articolo 1118 Cc introdotta dalla riforma del condominio, dopo aver attentamente esaminato quanto dichiarato in sede di merito circa la ctu eseguita, ha anche escluso l’obbligo della condomina in questione di contribuire alle spese di gestione. Dalla ctu emergeva infatti che il distacco dall’impianto non comportava squilibri termici nell’erogazione del servizio e/o aggravi di spesa e che la contribuzione alle spese straordinarie e ordinarie, quindi alle spese di conservazione dell’impianto dovesse ritenersi adeguata. Il condominio nulla può pretendere.

L’ingiunzione vale e il condomino è obbligato a pagare perché con l’opposizione non si può invalidare la delibera

Il contenuto delle delibere emesse dall’assemblea di un condominio non è sindacabile in sede di opposizione ex articolo 645 Cpc. Non va quindi revocato il decreto ingiuntivo proposto nei confronti di un condomino «poiché l’esistenza di una valida ed efficace delibera è sufficiente per ritenere provati non solo la richiesta per decreto ingiuntivo ma anche il credito contestato nel giudizio di opposizione». È quanto emerge dalla sentenza 11374/16 della quinta sezione civile del tribunale di Roma.
Nel caso di specie un condomino ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo con cui gli è stato intimato di versare al condominio 6.800 euro per l’omesso pagamento di oneri fondati sulla delibera con la quale l’assemblea ha ripartito i preventivi per spese inerenti lavori di consolidamento statico del fabbricato. A suo dire nessun potere ha il difensore del condominio poiché nominato da un amministratore non più in carica. A ciò si aggiunge il fatto che la spesa sarebbe stata ripartita senza far riferimento ai criteri tabellari. Con riferimento al difensore alcuna carenza di poteri può essere rilevata essendo stato nominato quando l’amministratore era nella pienezza delle sue funzioni. Quanto al decreto ingiuntivo, nulla può opporre essendo quelle delibere dalle quali è poi scaturito ancora valide e mai sospese. Sottolinea il collegio che i fatti posti a fondamento degli affermati vizi della delibera non sono «sollevabili in questa sede come motivi di mera opposizione all’avverso credito tenuto conto anche del fatto che risultano aver integrato i motivi di una separata impugnazione ex articolo 1137 Cc così originando altro processo, non riunibile al presente». A ciò aggiunge che «potrà il debitore agire per la ripetizione di indebito qualora dovesse successivamente rimanere caducata la delibera». Per ora non può far altro che pagare.

Lo scarico delle acque nere inserito da alcuni condomini nella grondaia va rimosso.

Va rimosso il tubo di scarico delle acque scure posto su un pluviale esterno che altera l’originaria destinazione del bene comune e che può dar luogo a eventi pregiudizievoli. Lo ha sancito l’ordinanza 17992 del 14 settembre 2016 della sesta sezione civile della Cassazione.
La Suprema corte ha rigettato il ricorso di alcuni condomini condannati in sede di merito, su richiesta di un altro residente, alla rimozione dell’innesto di un tubo di scarico di acque luride su un pluviale esterno, prima destinato al solo scolo delle acque meteoriche. Un’opera, quella così modificata, sicuramente contraria al contenuto dell’articolo 1102 Cc. Non solo vi è stata l’alterazione di un bene comune, limitato, sin dalla realizzazione dello stabile, allo scolo delle sole acque bianche, ma si è creata la possibilità di nuovi eventi pregiudizievoli che potrebbero essere causati dall’intasamento del pluviale e dalla conseguente fuoriuscita dei liquami in esso contenuti. L’uso diverso del discendente porta all’aumento dei fattori di rischio. Quindi, come evidenziato già dalla Corte d’appello, «la valutazione comparativa di maggiore pregiudizievolezza dell’opera realizzata ha trovato fondamento nella possibilità del danno, occasionata dall’alterazione dell’originaria destinazione della conduttura». Il tubo va sicuramente rimosso.

La maggioranza per la nomina dell’amministratore è ancora in discussione

La maggioranza per la nomina dell’amministratore è ancora in discussione. Recentemente è tornata sulla questione una Corte di merito che intende far adottare quella delibera assembleare che “dovendosi occupare annualmente di detto incarico, procede nominando (di nuovo) il soggetto già in carica nell’esercizio precedente“.
La pronuncia è del Tribunale di Palermo (23/29 gennaio 2015) , e si inserisce in un filone giurisprudenziale già percorso da altri conformi precedenti di merito (nonostante il solco interpretativo più profondo sia, come si vedrà, quello contrario, e per di più di legittimità).
Nel concreto, i giudici, investiti della valutazione della validità di una delibera assembleare, hanno precisato che, per l’adozione di una decisione di conferma dell’amministratore di condominio, la normativa di riferimento è rinvenibile, quanto alla regolarità della costituzione e della votazione, nel combinato disposto degli articoli 1135 e 1136 del codice civile, e, per quanto riguarda l’individuazione quantitativa dei quorum deliberativi nel comma 3 del citato articolo 1136.
Come si vede, viene operato uno spostamento dell’individuazione della disciplina dal comma 4 (ovvero, dal richiamato comma 2) al comma 3 di tale ultima norma fondando l’operazione ermeneutica, quanto a motivazione, sul collegamento con l’articolo 1135 del codice“.

E’ ancora necessaria la maggioranza per la nomina dell’amministratore?

Cercando di interpretare le assai sintetiche affermazioni della Corte siciliana (non più ampie di quanto pocanzi riferito), può essere osservato che: a) l’articolo 1135 ricomprende tra le facoltà discrezionali dell’assemblea anche quella relativa alla “alla conferma dell’amministratore e all’eventuale sua retribuzione”; b) l’articolo 1136, quando al comma 4 individua le materie per le quali prevedere la necessità di una maggioranza “qualificata”, cita espressamente “la nomina e la revoca” senza in alcun modo ricomprendere in detto insieme anche, appunto, la “conferma”. Da ciò non può che implicitamente derivare che i quorum maggiori non possono estendersi ad una fattispecie non citata (considerando, peraltro, la specialità della norma)”.

Pertanto, l’argomento utilizzato dalla recente pronuncia è meramente testuale, senza che ciò, tuttavia, gli abbia impedito di trovare un qualche riscontro in altri precedenti conformi provvedimenti.
Infatti, secondo il Tribunale di Roma (15 maggio 2009, n. 10701), “siccome l’articolo 1135 c.c. prevede, tra le attribuzioni dell’assemblea dei condomini, la conferma dell’amministratore in carica, ne deriva che per tale ultima ipotesi appare sufficiente la maggioranza ordinaria di un terzo dei partecipanti al condominio che rappresentino un terzo dei millesimi di proprietà e non la maggioranza qualificata di almeno 500 millesimi prescritta per la nomina“.
Invece, secondo il Tribunale di Bologna (17 settembre 2009), “considerato che la distinzione tra il concetto di conferma e di nomina dell’amministratore non è puramente nominalistica, il primo presupponendo una continuità nel rapporto fiduciario che non si riscontra nel secondo, che si costituisce ex novo; la maggioranza per la conferma dell’amministratore è perciò quella semplice dell’articolo 1136 comma secondo e terzo (vale a dire, quella per convocazione)“.
A queste argomentazioni, infine, va aggiunto che “l’ulteriore considerazione secondo cui se è vero che nel sistema condominiale è pacifica l’operatività del principio della cosiddetta “prorogatio” (in virtù del quale, l’amministratore permane nella pienezza dei suoi poteri anche dopo la scadenza del mandato, a condizione – ovviamente – che non sia sostituito da altro incaricato, cioè, in assenza di decisione assembleare), per la delibera di conferma (che, invero, produce proprio i medesimi effetti giuridici) non può ritenersi sia necessaria una maggioranza “qualificata” (qual è quella rappresentata dai quorum previsti dal comma 2 dell’articolo 1136, come richiamato dal comma 4).
Tale soluzione, peraltro, potrebbe consentire anche il superamento di situazioni di stallo in quei condomìni dove l’insufficiente presenza dei partecipanti alle riunioni impedisce il raggiungimento dei quorum minimi previsti dal codice (anche per la semplice delibera di approvazione di rendiconto finale, che sovente è abbinata a quella di nomina dell’amministratore).
In ogni caso, non può ignorarsi la rilevante quantità di pronunce contrarie (di legittimità e di merito) che fronteggiano tale ultimo orientamento maggiormente liberale e che si pongono come un serio ostacolo all’adozione spensierata dell’ultima ribadita interpretazione che certamente è di più agevole gestione pratica“.

Se l’amministratore non diffida il comproprietario, il decreto ingiuntivo è nullo!

Se l’amministratore non diffida il comproprietario dell’appartamento al quale di riferiscono gli oneri da pagare, il decreto ingiuntivo è nullo. Questo è quanto ha stabilito il Giudice di Pace di Taranto con la sentenza dell’1 marzo 2016.
Ne ha richiesto l’intervento il comproprietario di un’unità immobiliare, che precedentemente era stato raggiunto da un decreto ingiuntivo emesso per quote e competenze condominiali non versate. Questi si è opposto precisando che: “l’atto non era stato preceduto da alcuna intimazione e messa in mora. A mancare, dunque, una formale diffida di pagamento. Circostanza, questa, che, peraltro, rendeva inopportuno il conteggio, in ingiunzione, delle spese e competenze di precetto. Non solo. Inesigibile, secondo la difesa, era anche l’importo preteso a titolo di spese di recupero insoluti, laddove – come ben puntualizza la Cassazione, con pronuncia 15718/2001 – «qualora all’attività stragiudiziale segua quella giudiziale i compensi per la prima sono assorbiti da quelli previsti per la seconda e quindi, di fatto, non possono essere richiesti né tantomeno essere inseriti in un ricorso per decreto ingiuntivo ai fini della determinazione della sorte capitale». Ancora, andava considerato il fatto che l’opponente era comproprietario, insieme ad altri eredi, dell’unità immobiliare in questione, motivo per cui era da ritenersi quanto meno avventata un’azione giudiziale avviata senza un preliminare accertamento dell’interessamento degli altri partecipanti al pagamento delle quote richieste“.

Il decreto ingiuntivo è nullo se il comproprietario non viene diffidato

Il Giudice di Pace, che abbraccia in pieno questa tesi, ha pertanto deciso di accogliere l’opposizione al precetto con annesso decreto Ingiuntivo. “Intanto, spiega, il decreto non può essere confermato perché emesso da soggetto irregolarmente costituito contro l’odierno opponente, vista l’irregolarità della costituzione del condominio avvenuta tramite un avvocato diverso da quello munito del mandato a difendere il condominio stesso. In secondo luogo, non essendo l’opponente proprietario esclusivo del bene cui si riferiscono le spese reclamate, il condominio avrebbe dovuto fornire la prova documentale – non essendo ammessa, in tale evenienza, quella per testi – di aver eseguito la messa in mora nei confronti di tutti gli aventi diritti e comproprietari dell’unità immobiliare. Ciò, prima di chiedere il decreto ingiuntivo e notificare il precetto ad uno solo degli intestatari. Del resto, non si sarebbe neppure trattato di un’incombenza particolarmente complicata, bastando all’amministratore una semplice visura degli atti catastali per acquisire le intestazioni delle varie unità. Adempimento, che gli avrebbe evitato di «produrre atti del tutto annullabili». Per agire coattivamente, allora, era imprescindibile attingere elementi certi dagli atti catastali o di proprietà dei condomini, che è opportuno se non obbligatorio tenere sempre aggiornati tramite l’anagrafe condominiale. Di qui, la revoca, per irregolarità, del decreto ingiuntivo emesso dal condominio senza una previa diffida stragiudiziale“.