Inammissibile l’istanza di revoca giudiziale per l’amministratore in proroga post scadenza

L’amministratore che cessi dalle sue funzioni dopo un anno dalla nomina oltre un anno di prorogatio, non ha più obblighi gestori, né diritto a compensi, per cui non può esserne richiesta la revoca.

Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza del 19 aprile 2023, pubblicata il 2 maggio 2023, torna ad affrontare la sempre delicata questione della possibilità di procedersi alla revoca giudiziale, nel caso di amministratore in prorogatio. Lo fa, confermando la tesi della inammissibilità dell’istanza di revoca giudiziale ex articolo 1129 Codice civile, nel caso in cui l’amministratore sia in prorogatio.
Il provvedimento in esame illustra in modo chiaro ed ampio, il quadro un cui si colloca la procedura azionata per ottenere la rimozione (revoca) dell’amministratore. L’ordinanza richiama la norma di riferimento, spiegando l’importanza della volontà assembleare, quale vera “dominus” nella decisione da assumere. Il regime di prorogatio, tuttavia, non è privo di conseguenze negative per lo stesso amministratore non ancora rimosso ed ancora, solo formalmente, in carica. Ne consegue, infatti, la perdita del diritto alla percezione del
compenso.

I fatti di causa
Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza in commento, infine, si sofferma sulla natura del procedimento (volontaria giurisdizione), ricordando la possibilità, anche parallela se non addirittura autonoma, che innanzi al Tribunale, in un giudizio cosiddetto a cognizione piena, si chieda l’accertamento dell’inadempimento nell’operato dell’amministratore. Nel caso trattato dal Tribunale campano, un condomino chiedeva la revoca dell’amministratrice, lamentando molteplici inadempienze della stessa la quale, peraltro, si costituiva in
giudizio contestando quanto dedotto dal ricorrente. All’esito dell’udienza di comparizione delle parti, emergeva che l’amministratrice della quale era stata richiesta la revoca, operasse in regime di prorogatio. Richiamando l’orientamento della sezione del medesimo Tribunale, il collegio riteneva che dovesse «escludersi che sia consentito chiedere in via giudiziaria la revoca dell’amministratore giunto alla scadenza del mandato e operante in regime di mera prorogatio imperii».

La norma di riferimento
La norma di riferimento è certamente l’articolo 1129 comma 10 Codice civile, secondo cui «l’incarico di amministratore di condominio ha la durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata. L’assemblea convocata per la revoca o le dimissioni delibera in ordine alla nomina del nuovo amministratore». Orbene, l’espressa indicazione del termine durante il quale l’incarico può essere rinnovato è stata introdotta dalla legge 220/2012 che ha riscritto il testo del previgente articolo 1129 Codice civile, il quale si limitava a stabilire la
durata annuale dell’incarico di amministratore di condominio. Tale previsione del termine di rinnovo, si legge nell’ordinanza, è evidentemente frutto della volontà del legislatore di considerare l’amministratore di condominio, in caso di sua mancata revoca, ancora in carica in regime di prorogatio per un solo anno durante il quale soltanto si ritiene, in virtù di una presunzione semplice, che l’amministratore – la cui nomina non sia stata confermata dall’assemblea – continui a porre in essere atti gestori in forza della volontà dei condòmini e nel loro interesse.

Cessazione incarico il secondo anno
«Decorso il secondo anno, invece, l’amministratore cessa dal suo incarico automaticamente, ossia senza la necessità di un’espressa manifestazione di volontà dell’assemblea, perdendo immediatamente i poteri rappresentativi dei condòmini e quelli gestori in precedenza a lui attribuiti». In tale situazione l’unico potere dovere che residua in capo all’amministratore è dunque quello, previsto dall’articolo 1129 comma 8 Codice civile, di compiere gli atti urgenti necessari ad evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto a compensi ulteriori.

La volontà assembleare
Per effetto di tali disposizioni il legislatore ha dunque valorizzato la volontà assembleare stabilendo che i condòmini, «quanto meno allo scadere di un biennio dalla nomina dell’amministratore, debbano necessariamente valutare se la gestione da lui posta in essere sia stata corretta e adottare una delibera con cui espressamente decidono se confermare o meno l’incarico al soggetto precedentemente nominato o nominare un nuovo amministratore». Solo in tal modo si possono infatti evitare situazioni di protrazione della gestione
condominiale da parte di un amministratore il quale continua ad agire in rappresentanza dei condòmini senza un’investitura assembleare.

Nessun obbligo, nessun compenso
Una volta cessato il rapporto contrattuale non sarà dunque più possibile richiedere, con una procedura di volontaria giurisdizione, la revoca dell’amministratore. Al ricorrere di una tale evenienza l’esigenza di sostituire l’amministratore, qualora il condominio abbia più di otto condòmini, dovrà invece essere soddisfatta attraverso la proposizione di un ricorso per la nomina di un amministratore giudiziario ex articolo 1129 comma 1 Codice civile, sempre che venga dimostrata l’inerzia dell’assemblea dei condòmini che, seppur
convocata a tal fine, non abbia raggiunto il previsto quorum costitutivo o deliberativo. In contrario non varrebbe obiettare che, aderendo a tale interpretazione del quadro normativo, non è più possibile valutare l’operato dell’amministratore cessato dall’incarico ed applicare la sanzione di cui all’articolo 1129 comma 13 Codice civile.

La natura del procedimento di revoca
Il procedimento di volontaria giurisdizione volto alla revoca giudiziale dell’amministratore mira infatti ad ottenere, in caso di accertate inadempienze, la risoluzione anticipata del rapporto di mandato ed è improntato a requisiti di rapidità, informalità ed ufficiosità dal momento che il decreto emesso al suo esito, ai sensi dell’articolo 64 comma 1 disposizioni attuative Codice civile, deve essere adottato omettendo ogni formalità, eccettuata quella di instaurare il contraddittorio con l’interessato, come si evince dalla sintetica formula
normativa «sentito l’amministratore».

Anche la giurisprudenza di legittimità ha del resto affermato che il procedimento in questione:

  • riveste un carattere eccezionale ed urgente nonché sostitutivo della volontà assembleare;
  • è ispirato all’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela del diritto ad una corretta gestione condominiale a
    fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore;
  • è di conseguenza improntato a celerità, informalità ed ufficiosità ma non riveste efficacia decisoria
    lasciando ferma la facoltà del mandatario revocato di chiedere la tutela del diritto provvisoriamente inciso dal
    decreto facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (1237/2018).

Quando l’interesse viene meno
Qualora non vi sia più interesse ad ottenere una pronuncia di carattere urgente, perché l’amministratore di cui è stata chiesta la revoca è già cessato dalla carica oppure perché nelle more del procedimento è stata adottata una delibera di nomina di un nuovo amministratore, la procedura di volontaria giurisdizione non può dunque essere più proposta o coltivata. Sempre possibile la devoluzione al Tribunale per la valutazione dell’inadempimento. «Nulla però osta a che venga attivato un giudizio a cognizione piena diretto a valutare le pregresse inadempienze poste in essere dall’amministratore nell’espletamento dell’incarico, con conseguente operatività della sanzione di cui all’articolo 1129 comma 13 Codice civile, oppure la correttezza della sua condotta ed il pregiudizio conseguito all’erronea attivazione del procedimento di volontaria giurisdizione». Alla luce di quanto emerso e, quindi, in considerazione del regime di prorogatio in cui operava l’amministratrice, il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso, contenendo la richiesta di revoca di un amministratore che, per stessa ammissione del ricorrente, era già cessato dalla carica.

I motivi di opposizione al decreto ingiuntivo su compensi dell’amministratore condominiale

Tribunale di Lecce n. 2812 pubblicata in data 11 ottobre 2022

Compensi dell’amministratore e motivi di opposizione a decreto ingiuntivo: la vicenda

L’avvocato sig, X presenta opposizione all’ingiunzione per cui ha avuto la declaratoria di condanna al pagamento compensi amministratore, asseritamente dovuti, per l’attività di amministrazione di condominio dal marzo 2009 al settembre 2018 e di quota di pochi mancati corrispettivi per consumi idrici.

L’avvocato opponente porta, alla base dell’illegittimità della pretesa creditoria azionata in sede monitoria, la propria carenza di legittimazione passiva, poiché la domanda andava rivolta al condominio mentre i dichiarati debiti dei consumi idrici dovevano essere richiesti solo dall’amministratore subentrato all’opposto; eccepisce l’intervenuta prescrizione annuale ed, in subordine quinquennale del credito, nonché la nullità della nomina del professionista, siccome sprovvista dell’indicazione del compenso, evidenziando altresì che l’opposto non avesse mai tenuto idonea contabilità e che era stato porta sottoposto all’assemblea condominiale un rendiconto; contestava l’omesso deposito nonostante la richiesta di integrazione documentale formulata dall’ufficio, di documentazione idonea a suffragare il credito vantato, in sede monitoria; si duole dell’esosità del compenso specificato come dovuto, avendo l’amministratore, in ipotesi di rinnovo della carica, prospettato un determinato compenso.

Al termine di quanto qui indicato, chiede la revoca del decreto ingiuntivo ed il rigetto della richiesta di pagamento.

L’amministratore opposto dichiara di aver sempre, in costanza dell’incarico, provveduto a convocare le assemblee, cui anche l’opponente aveva partecipato; sottolinea che l’attività svolta fosse documentata nell’istanza presenta al Tribunale, cui doveva scriversi la propria nomina su richiesta di alcuni condomini, tesa a sanare la consistente morosità maturata rispetto ai corrispettivi della fornitura idrica; deduce che il recupero delle somme in danno dell’opponente risultasse, ammissibile ex art. 1131 c.c. nei limiti della quota sul medesimo gravante, attesa l’estinzione dell’obbligazione da parte degli altri condomini; dichiara di aver sempre documentato l’entità delle somme versate alla Società idrica nel corso della propria gestione, in occasione del passaggio di consegne al nuovo amministratore; evidenzia che il decorso della prescrizione è non quinquennale bensì decennale essendo riferita ad un’ipotesi di mandato, reiteratamente interrotto con comunicazioni a mezzo pec; specifica la concludenza della documentazione contabile depositata segnalando che mai, nel corso del decennio interessato dalla propria amministrazione, l’opponente avesse contestato le modalità di espletamento dell’ufficio.

La causa viene dal Giudice portata in decisione, dopo aver emesso provvedimento di rigetto ex art. 648 c.p.c. della domanda di provvisoria esecuzione dell’ingiunzione.

I principi evidenziati dal Tribunale: la determinazione del compenso

in primis viene evidenziato puntualmente dal Giudice che “la determinazione del compenso dell’amministratore nominato dal Tribunale è regolata dall’articolo 1709 del Cc, secondo cui ove le parti non abbiano stabilito la misura, lo stesso è stabilito in base alle tariffe o agli usi o, in mancanza, dal giudice” (cfr. Cass. Civ. n. 11717/21).

Impossibile prescrizione dei crediti

Entrando quindi nel merito della vicenda, il Tribunale osserva in tema di eccezione di prescrizione, che la pretesa in contestazione sia soggetta al termine decennale, siccome inerente prestazioni ricollegabili al contratto di mandato.

Ricorda che la Suprema Corte ha puntualizzato che non sono qualificabili quali obbligazioni periodiche né il credito per somme di denaro anticipate nell’interesse del Condominio né il compenso per l’ attività di amministratore, rimarcando, in ordine a tale ultimo profilo, che la cessazione legale dell’incarico determini la necessità di corrispondere a quest’ultimo la retribuzione, cosicché il relativo obbligo deve essere adempiuto non già periodicamente, ma al compimento della prestazione posta a carico dell’amministratore, ovvero al decorso annuale dell’incarico (Cfr. Cass. Civ. sent. n. 19348/05).

A corroborare questa affermazione, specifica che la notazione e l’avvenuta iscrizione a ruolo nel procedimento monitorio nel 2019 evidenzia l’impossibilità di questa prescrizione, essendo i compensi riferibili alle attività svolte con decorrenza dall’aprile 2009. Pertanto esigibili quanto al primo anno, dall’aprile 2010 per cui la tesi regge al termine decennale della prescrizione.

Invalidità della nomina a amministratore per mancata indicazione specifica del compenso

Coglie, invece, nel segno, seppur parzialmente, la contestazione svolta dall’opponente ex art. 1129 c.c.: a seguito della riforma introdotta con la l.220/12, l’ art. 1129 comma 14, prescrive che l’amministratore, all’atto dell’accettazione della nomina e del suo rinnovo, debba specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l’importo dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta; il profilo di invalidità scaturente dalla mancata predeterminazione del compenso, è quindi una nullità “testuale”, poiché è stabilita dalla legge (cfr. Cass. Civ. sent. n. 12927/22).

Sulla base di questo principio, la stessa richiesta di liquidazione inoltrata al Tribunale nel 2017 attesta la già provata mancanza di predeterminazione contrattuale del compenso e la conseguente nullità del rapporto di mandato, per cui le competenze maturate con riferimento agli anni ricompresi tra il 2013 – anno di entrata in vigore della riforma condominiale – ed il 2018 non risultano esigibili.

In relazione alle annualità comprese tra il 2009 ed il 2012, in assenza di convenzione tra l’amministratore ed il condominio, la consistenza delle spettanze dell’opposto dovrebbe essere determinata dall’Ufficio: osta però a questa operazione specifica, la valutazione del fatto che l’amministratore non abbia provveduto al deposito in giudizio della documentazione attestante la propria complessiva gestione, quali, a titolo esemplificativo, comunicazioni, convocazioni di assemblea, relativi verbali, rendiconti; egli, in particolare, si è limitato a depositare alcune missive, l’elenco di atti consegnato al nuovo amministratore, nonché l’elenco unilateralmente predisposto delle comunicazioni ai condomini allegato all’istanza di liquidazione inoltrata al Tribunale, evidentemente inidonei allo scopo.

La conclusione è che non può dirsi che il mandatario condominiale avesse soddisfatto l’onere probatorio inerente l’entità e concreta natura dell’attività in relazione alla quale ha chiesto la liquidazione.

Peraltro, non aveva depositato copia quietanzata della fattura condominiale dell’acqua di cui al pagamento richiesto all’opponente – fattura soltanto indicata nell’elenco rimesso al nuovo amministratore – e neppure vi era stato il deposito del rendiconto in cui la medesima risultava contemplata, per cui neppure l’esborso effettuato in esecuzione del mandato risulta in via documentale in atti.

Conclusioni

Da tutto ciò consegue la pronuncia di revoca dell’ingiunzione e la relativa domanda deve essere rigettata con conseguente condanna alle spese di giudizio.

Installazione di pannelli in lamiera per delimitare proprietà in condominio

Posso installare pannelli in lamiera per delimitare il confine tra il mio giardino e quello del condomino vicino?

Secondo l’articolo 833 c.c. il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri.

Per parlare di atto emulativo previsto dall’art. 833 c.c. è necessario che l’atto di esercizio del diritto sia privo di utilità per chi lo compie ed abbia lo scopo di nuocere o recare molestia ad altri.

In particolare, perché si possa parlare di “atti emulativi” in senso proprio, la giurisprudenza, sulla base di un’interpretazione letterale della norma, richiede il concorso di due elementi indefettibili: uno di tipo oggettivo, che consiste nella mancanza di utilità per chi compie l’attività, e uno di tipo soggettivo (c.d. animus nocendi), che è rappresentato dalla consapevolezza e volontà di nuocere o arrecare molestie ad altri (Cass. civ., Sez. II, 27/06/2005, n. 13732).

La norma ha la finalità di assicurare che l’esercizio del diritto di proprietà risponda alla funzione riconosciuta al titolare dall’ordinamento, impedendo che i poteri e le facoltà dal medesimo esercitate si traducano in atti privi di alcun interesse per il proprietario ma che, per le modalità con cui sono posti in essere, abbiano l’effetto di recare pregiudizio ad altri.

Si noti che la previsione ex art. 833 c.c. ha carattere residuale di vera e propria norma di chiusura ed è invocabile se dovessero mancare specifiche violazioni di altre disposizioni.

Alla luce di quanto sopra costituisce atto emulativo il comportamento del condomino che erige un muro di confine tra la parte di lastrico solare di sua proprietà esclusiva e la restante parte degli altri condomini, al sol fine di far perdere a questi la vista panoramica.

Non costituisce invece atto emulativo, vietato ai sensi dell’art. 833 c.c., la sostituzione di una siepe con un muro in cemento, volto a precludere ai vicini l'”inspectio” nel proprio fondo, in quanto, rimanendo la funzione del manufatto identica a quella della siepe, tale sostituzione non può dirsi manifestamente priva di utilità.

E se un condomino decide di installare pannelli in lamiera per delimitare il confine tra il mio giardino e quello del condomino vicino si può parlare di atto emulativo?

La risposta è contenuta nella motivazione della sentenza del Tribunale di Roma n. 17680 del 30 novembre 2022.

Atto emulativo e installazione da parte del condomino di pannelli in lamiera per demarcazione del confine del giardino: la vicenda

Due condomini, per separare il proprio giardino da quello del vicino, innalzavano una struttura divisoria con pannelli riflettenti in aderenza alla rete metallica di recinzione.

I vicini si rivolgevano al Tribunale per richiedere la demolizione della nuova struttura divisoria.

Secondo gli attori detta struttura toglieva notevolmente luce ed aria al loro immobile ed era stata realizzata senza autorizzazione alcuna da parte del Condominio.

In particolare ritenevano che l’opera, realizzata sul confine dai convenuti, costituisse tipico atto emulativo ai sensi dell’art. 833 c.c., essendo evidente come il materiale utilizzato (lamiera bianca grecata) fosse inutile e inadatto ad una recinzione e, dunque, avesse il solo scopo di arrecare danno alla proprietà dell’attrice.

In ogni caso gli stessi attori lamentavano la violazione da parte dei convenuti di una norma del regolamento di condominio che vietava espressamente la realizzazione su aree private o condominiali di “costruzioni accessorie di qualsiasi tipo o materiale”.

L’assemblea non si era voluta pronunciare sulla questione; di conseguenza veniva citato in giudizio anche il condominio, considerato corresponsabile per non essersi adoperato a far rispettare il divieto previsto nel regolamento condominiale

La decisione

Il Tribunale ha dato torto agli attori. Lo stesso giudice ha sottolineato che, ad avviso del CTU, la parete divisoria in pannelli isolanti prefabbricati opachi, installata dai convenuti lungo il confine del proprio giardino, ha comportato una limitazione di aria e luce al giardino di proprietà degli attori.

Quest’ultimi, però, hanno agito sostenendo che la realizzazione del manufatto posto sul confine costituiva un tipico atto emulativo integrante la fattispecie prevista dall’articolo 833 c.c.; di conseguenza – come ha osservato il Tribunale, gli stessi attori, in applicazione del principio sancito dall’art. 2697 c.c., avrebbero dovuto provare la mancanza di utilità dei pannelli, nonché l’animus nocendi, identificabile con il dolo, ovvero con l’intenzione di nuocere o arrecare molestia ad altri.

I vicini, però, non hanno provato l’esistenza dei presupposti richiesti dal citato articolo 833 c.c.

Il Tribunale ha quindi escluso l’intento emulativo dei convenuti e, conseguentemente, la domanda degli attori volta ad ottenere la demolizione del manufatto per violazione del disposto di cui all’art. 833 c.c. è stata rigettata. In ogni caso la clausola del regolamento menzionata dagli attori non è risultata opponibile ai convenuti.

Infine il Tribunale ha evidenziato che non vi è legittimazione passiva del condominio in ordine alla pretesa del singolo rivolta ad accertare le violazioni regolamentari perpetrate da altri partecipanti e ad ottenere una conseguente condanna risarcitoria del condominio stesso.

Il riparto dei consumi idrici in condominio

Consumo idrico: fornitura di acqua alla singola unità immobiliare, costi fissi della fornitura comune e spese di lavaggio e/o innaffiamento di parti comuni

Con la sentenza n. 1287 del 16 novembre 2022 il Tribunale di Reggio Calabria ritorna sulla questione del riparto dei consumi idrici in Condominio e distingue a seconda che si tratti di fornitura di acqua alla singola unità immobiliare, costi fissi della fornitura comune e spese di lavaggio e/o innaffiamento di parti comuni, dettando regole di imputazione della spesa diversa a seconda della ratio sottesa alla stessa.

La vicenda trae origine da un’impugnativa di delibera assembleare molto articolata promossa dal condomino Tizio avverso il proprio Condominio.

Tizio lamentava in particolare che fosse stato erroneamente ripartito il consumo idrico in violazione dell’art. 1123 c.c., nonché che fossero state approvate spese illegittime (in particolare, la spesa per compilazione ed invio Mod. 770 e spese legali derivanti da procedure di Mediazione e procedimenti monitori), che fosse stato costituito un fondo di riserva in assenza del quorum necessario, che il rendiconto fosse viziato da indeterminatezza a causa di errori di calcolo dovuti all’imputazione di oneri condominiali a soggetti in realtà non facenti parte del Condominio.

Il Tribunale accoglie solo in minima parte le doglianze di Tizio, proprio in relazione all’errore nel riparto del consumo idrico per come approvato dalla delibera impugnata.

Consumo, costi fissi e parti comuni

Con ampia ed articolata disamina, il Giudicante espone le motivazioni dell’errore in cui sarebbe incorso il Condominio nell’approvare il rendiconto sul punto del consumo idrico.

Spiega il Tribunale che in tema di ripartizione delle spese relative al servizio idrico condominiale, come precisato in più occasioni dalla giurisprudenza, anche di legittimità, salva diversa convenzione (cioè un criterio imposto dal Regolamento modificabile solo dall’unanime volontà dei condomini), la ripartizione delle spese della bolletta dell’acquain mancanza di contatori di sottrazione installati in ogni singola unità immobiliare, deve essere effettuata, ai sensi dell’art. 1123 c.c., 1° comma, in base ai valori millesimali (Cass. 26.05.2022, n.17119; Cass. Civ. sez. II, 01/08/2014, n. 17557; Trib. Milano 16.12.2021, n. 19567; 5.11.2020, n.15467; 6.02.2018, n. 1280; 30.11.2017, n.22394).

Tuttavia, specifica subito il magistrato, non tutti i costi relativi al consumo idrico sono uguali: vi sono infatti spese che sono legate non al prelievo di fornitura idrica afferente ad ogni singola unità (cioè, quanto ho consumato), bensì al semplice fatto che esiste un contratto tra il Condominio ed il fornitore e che la fornitura ha costi slegati dal consumo: questi c.d. costi fissi, cui siamo maggiormente attenti ed abituati quando si discute di oneri di riscaldamento centralizzato, sono in questo campo dati ad esempio dal canone contrattuale.

Vi sono poi consumi collegati alla manutenzione e gestione ordinaria delle parti comuni, come il prelievo di acqua per eseguire le pulizie di androne, scale, etc. o per innaffiare laddove il Condominio possegga zone verdi o giardini, aiuole, etc.

Sia i costi fissi che i consumi legati alle parti comuni sono elementi che non presentano alcun collegamento con il consumo; in difetto di ciò, pertanto, rivive il criterio di cui all’art1123, 1° comma, c.c., per cui essi andranno ripartiti in base ai valori millesimali di ciascuna unità immobiliare.

A questo punto ci si chiede spesso che cosa accada quando un appartamento risulti non abitato o abbia consumi a zero: ebbene, il Tribunale, menzionando proprio questa fattispecie, essendo la medesima presentatasi nel riparto in discussione, osserva come, sebbene i consumi vadano correttamente ripartiti a zero, in quanto l’unità non ha effettuato prelievi di acqua, i costi fissi e per le parti comuni non possono essere parimenti indicati come pari a zero, esattamente come avviene nella gestione del riscaldamento.

Si cita nuovamente la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ricorda che «esentare gli appartamenti non abitati dal concorso nella spesa significa sottrarli non solo al costo del consumo idrico imputabile al lavaggio delle parti comuni o all’annaffiamento del giardino condominiale, ma anche a quella parte della tariffa per la fornitura dell’acqua potabile che è rappresentata dal minimo garantito quale quota fissa per la disponibilità del servizio da parte del gestore, la quale, parametrata sul numero delle unità immobiliari domestiche facenti parte del condominio, è indipendente dal consumo effettivo» (Cass. 1 agosto 2014 n. 17557).

Pertanto, a prescindere dal consumo idrico, che talvolta potrebbe essere anche pari a zero (appartamenti vuoti o non abitati nel corso dell’anno), alcune voci della bolletta idrica vanno comunque imputate a tutti i condomini. Con riferimento ai predetti costi slegati dai consumi, questi debbono essere suddivisi tra i condomini sulla base dei millesimi di proprietà, salvo diversa convenzione, cioè salvo diverso accordo tra tutti i condomini.

Diverso accordo che, per parte della giurisprudenza, può anche essere tacito (Cass. 26.05.2022, n.17119; Cass. 2013, n.13004). Nel caso di specie, non vi era errore nella quota di consumo attribuito al condomino Tizio in rendiconto, poiché, peraltro, il Condominio era dotato di contatori a sottrazione e la quota calcolata corrispondeva a quanto riportato come consumo effettivo dal fornitore per quella unità immobiliare. Ciò che invece viene censurato è che a determinati condòmini fosse stata imputata una quota di consumo idrico ‘complessivo’ pari a zero, senza distinzione tra costi fissi e costi per parti comuni, come visto sopra, cui anche costoro dovevano contribuire in ragione dei rispettivi millesimi. Tutte le altre censure mosse da Tizio al rendiconto vengono rigettate, o perché non provate o perché infondate.

Ordine di sgombero: la delibera è valida?

È valida la decisione dell’assemblea con cui si intima a un condomino di liberare il proprio locale dagli oggetti che lo occupano?

Sin dove possono spingersi le decisioni assunte dall’assemblea dei condòmini? La giurisprudenza di legittimità è praticamente unanime nel ritenere che le deliberazioni non possano intaccare la proprietà privata dei singoli condòmini, pena la radicale nullità della decisione, impugnabile quindi in qualunque tempo.

In questo senso si è espressa la Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 4406 del 24 giugno 2022, stabilendo che è nulla la delibera che ordina lo sgombero dei locali di proprietà esclusiva di uno dei condomini.

La decisione si pone nel solco tracciato dalla precedente giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui “l’assemblea condominiale non può validamente assumere decisioni che riguardino i singoli condomini nell’ambito dei beni di loro proprietà esclusiva, salvo che non si riflettano sull’adeguato uso delle cose comuni” (Cass., ord. n. 6652 del 15 marzo 2017). Approfondiamo la questione.

Ordine di sgombero: il caso

Avverso la decisione di primo grado, che dichiarava nulla la delibera con cui si stabiliva che uno dei condòmini dovesse sgomberare il proprio locale, proponeva appello il condominio.

Secondo la compagine, la deliberazione sarebbe stata mal interpretata in quanto autorizzava a intervenire a tutela delle parti comuni mediante una lettera indirizzata al singolo condomino (con cui lo si invitava a liberare il proprio locale dagli oggetti presenti) e un esposto relativo alla situazione nel suddetto locale indirizzato ai Vigili del Fuoco e all’Asl, per richiedere interventi urgenti di messa in sicurezza dell’immobile.

Secondo l’assemblea, infatti, l’accatastamento di mobili nell’unità immobiliare del condomino avrebbe favorito il rischio di incendi.

A riguardo il condominio evidenziava che l’intimazione allo sgombero del locale deliberata dall’assemblea ed inoltrata dall’amministratore al condomino non poteva essere interpretata come ordinanza amministrativa di sgombero, essendo la stessa finalizzata esclusivamente alla messa in sicurezza del locale.

A ciò si aggiunge la previsione regolamentare secondo cui l’assemblea aveva il potere di deliberare sulle norme alle quali i condòmini devono attenersi a tutela della reciproca tranquillità, del buono stato delle cose comuni e del decoro degli edifici.

Intimazione di sgombero: la decisione

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 4406 del 24 giugno 2022 in commento, ha solo parzialmente accolto l’appello proposto dal condominio.

Innanzitutto, rifacendosi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass., sent. n. 14300 dell’8 luglio 2020), il collegio capitolino conferma la nullità dell’intimazione di sgombero fatta pervenire al condomino.

Il deliberato, infatti, non appare conforme ai principi generali delineati dal legislatore in materia di competenze assembleari, in quanto si risolve nell’imposizione al singolo condomino di spostare definitivamente dal locale di sua proprietà tutti gli oggetti ivi custoditi, sul presupposto, non provato e/o suffragato da accertamenti delle autorità interpellate (Vigili del Fuoco, Asl), circa l’effettiva pericolosità per gli altri condòmini e per le cose comuni del pericolo di incendio derivante dalla presenza dei mobili accatastati in assenza di sistemi di sicurezza.

Esposto alle autorità: la delibera è legittima

Al contrario, la Corte d’Appello di Roma accoglie il gravame per la restante parte del deliberato riguardante l’invio di un esposto relativo alla situazione presente nel locale di proprietà esclusiva del singolo condomino, al fine di richiedere un intervento urgente che consenta al condominio la messa in sicurezza del locale.

Ed invero, tale decisione deve ritenersi senz’altro ricompresa nelle competenze ex lege dell’assemblea e in quelle espressamente previste nel regolamento condominiale, laddove attribuisce all’assemblea di “deliberare su ogni altro argomento riguardante l’amministrazione, la conservazione e il godimento delle cose comuni”.

In conclusione, l’appello deve parzialmente accogliersi e dichiararsi la nullità della delibera impugnata limitatamente all’intimazione di sgombero del locale di proprietà esclusiva, fermo restando la validità del restante deliberato.

Nullità delibera assembleare rilevabile d’ufficio

Infine, è appena il caso di ricordare come la delibera assembleare affetta da nullità può essere invalidata dal giudice anche d’ufficio, e perfino in appello.

In questo senso la Corte di Cassazione (sent. n. 305/2016) e la più recente giurisprudenza di merito (Trib. Roma, sent. n. 3545 del 6 marzo 2022), secondo cui è rilevabile d’ufficio ed anche in appello la nullità della delibera.

A nulla vale, pertanto, nel caso affrontato dalla Corte d’Appello di Roma con la sentenza in commento, che il condominio abbia eccepito la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) perché, in primo grado, il condomino aveva chiesto l’annullamento della delibera anziché la nullità: il giudice può infatti rilevare quest’ultima anche d’ufficio.

Balcone aggettante e responsabilità penale del condomino

La Cassazione affronta il problema della caduta di frammenti di intonaco o muratura che si sono distaccati dal cielino e della conseguente responsabilità penale del singolo condomino, i quali sporgono dalla facciata dell’edificio, ma costituiscono solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono e non svolgono alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell’edificio.

Di conseguenza non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani e ad essi non può applicarsi il disposto dell’articolo 1125 c.c. Alla luce di quanto sopra si può affermare che le opere di manutenzione dei balconi aggettanti competono esclusivamente al proprietario dell’appartamento dal quale protendono. Così nel caso in cui il cattivo stato di manutenzione degli elementi di finitura dell’estradosso delle solette del balcone (da individuarsi nelle mattonelle della pavimentazione) comportino problemi di infiltrazioni all’appartamento sottostante, è onere del proprietario del balcone ripristinare lo stato di salubrità e sanare il danno. Soltanto i rivestimenti e gli elementi della parte frontale e di quella inferiore (cielino o sotto-balcone) si debbono considerare beni comuni a tutti, ma solo quando si inseriscono, nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole. Se il sotto-balcone del balcone aggettante non è decorativo la manutenzione spetta al singolo condomino che fruisce di tale manufatto. Quest’ultimo perciò è anche responsabile dei danni cagionati dalla caduta di frammenti di intonaco o muratura, che si siano staccati dal cielino. Questo fenomeno, se trascurato, può portare il singolo condomino ad essere condannato per il reato di cui all’art. 677 c.p., comma 3 (Omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina). Tale figura di reato, attualmente costruita nei primi due commi come illecito amministrativo a seguito di depenalizzazione D. Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 ex art. 52, mantiene nel comma 3 rilevanza penale nel caso in cui dalla situazione di rovina dell’immobile derivi pericolo per la persona (deve trattarsi di un pericolo concreto). A tale proposito merita di essere segnala la sentenza della Cassazione n. 31592 del 24 agosto 2022. Balcone aggettante e responsabilità penale del condomino: la vicenda La vicenda prendeva l’avvio quando il Tribunale in composizione monocratica, condannava alcuni condomini alla pena di euro 400,00 di ammenda in ordine al reato di cui all’art. 677 c.p., comma 3. Il Tribunale riteneva evidente la responsabilità degli imputati per avere omesso di provvedere ai lavori necessari al ripristino dei balconi negli appartamenti di loro rispettiva proprietà al fine di rimuovere il pericolo alle persone. In ogni caso evidenziavano che i proprietari di immobili rivestono una posizione di garanzia non delegabile totalmente ad altre figure, quali l’amministratore di un condominio, con cui necessariamente condividono l’obbligo di agire anche su cose non di loro esclusiva proprietà, pur in via sussidiaria e in caso di inerzia di quest’ultimo. I condomini ricorrevano in cassazione facendo presente che si erano sempre preoccupati di segnalare la situazione della facciata condominiale all’amministratore e avevano sempre partecipato alle assemblee nelle quali però non si era mai raggiunto il numero legale; di conseguenza non ritenevano di avere una colpa specifica, sottolineando come la responsabilità dovesse ricadere su tutti i condomini o comunque su quelli con abitazioni servite dalla loro scala, essendosi l’intonaco distaccato da una parte condominiale della facciata. La decisione La Cassazione ha pienamente condiviso il ragionamento del Tribunale. Secondo i giudici supremi, in tema di omissione di lavori in costruzioni che minacciano rovina negli edifici condominiali, nel caso di mancata formazione della volontà assembleare e di omesso stanziamento di fondi necessari per porre rimedio al degrado che dà luogo al pericolo, non può ipotizzarsi la responsabilità per il reato di cui all’art. 677 c.p. a carico dell’amministratore del condominio per non aver attuato interventi (su parti private dei balconi aggettanti) che non sono in suo materiale potere, ricadendo in tale situazione su ogni singolo proprietario (del balcone aggettante) l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa. Come ha notato la Cassazione gli imputati sono rimasti inerti anche se erano consapevoli da tempo della necessità di eseguire lavori di manutenzione e della sussistente minaccia di rovina di cui soffrivano parti dei propri balconi. Inevitabile, quindi, affermare la penale responsabilità degli imputati con riferimento al reato in questione, per non essersi gli stessi attivati al fine di evitare l’evento. Del resto, ai fini dell’integrazione del reato in parola, è sufficiente la colpa e non è, quindi, necessario che la condotta omissiva sia motivata da una specifica volontà di sottrarsi ai dovuti adempimenti, essendo al contrario sufficiente a tanto anche un atteggiamento negativo dovuto a colpa.

Condominio parziale: Commento a Cass. II, Ord. n. 13229 del 16 maggio 2019

Condominio parziale: il riparto delle spese di ricostruzione di un solo corpo di fabbrica e di condanna al risarcimento dei danni sono a carico dei soli condomini proprietari di immobili cui il bene comune serve anche se la sentenza è emessa nei confronti del condominio generalmente inteso.

Commento a Cass. II, Ord. n. 13229 del 16 maggio 2019. [Prof. Avv. Rodolfo Cusano – Avv. Amedeo Caracciolo]

Premessa

Al fine di analizzare l’interessante arresto giurisprudenziale cui giunge la II sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13229 del 16 maggio 2019 in tema di condominio parziale, è opportuno prendere le mosse dal dato normativo. Premesso il disposto di cui all’art. 1117 c.c. che elenca, salvo titolo contrario, le parti comuni dell’edificio, la norma-cardine in tema di condominio parziale è l’art. 1123 c.c. 3 comma.

Tale norma, pur intitolata alla “ripartizione delle spese” stabilisce espressamente:

Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.

Quindi, il presupposto per l’attribuzione in proprietà comune a tutti i condomini viene meno se le cose, gli impianti e i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei condomini (cfr. Trib. Salerno sent. 1517/2015; Cass. civ. II, n. 1680/2015).

Le conseguenze di ciò si riverberano anche nella gestione del fabbricato, nella ripartizione delle spese e consistono nel fatto che ogni atto ed ogni attività di amministrazione e/o di utilizzazione devono essere compiuti all’interno del condominio parziale, escludendo dai partecipanti quelli che sono proprietari di immobili che non godono di quel servizio o impianto, non ricevendo dallo stesso alcuna utilità.

A conferma di quanto sopra anche l’art. 1136 c.c. (“costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni”), che al penultimo comma, stabilisce: “l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati”. Mentre, antecedentemente alla Riforma, si faceva riferimento ai “condomini”, oggi attraverso la dicitura degli “aventi diritto” il legislatore ha adeguato l’impianto finendo così per riconoscere anche legittimità delle assemblee del “condominio parziale”.

La previsione di cui all’art. 1117 c.c. ed il suo coordinamento con l’art. 1123, 3 comma c.c.

In primo luogo si deve constatare che la legge si riferisce esplicitamente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto. Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio.

Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui, se ci fermassimo nella nostra analisi, tali beni sarebbero comuni a tutti a prescindere dal loro utilizzo ed anche nel caso vi fosse un utilizzo solo da parte di alcuni.

In realtà è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressamente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal collegamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano».

La Cassazione (sent. n. 7885/1994) determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà se si legge il comma in questione1 non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui ad un primo esame, sembrerebbe che questa norma non disciplini affatto la parzialità della titolarità. Infatti, ben potrebbe intendersi nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta comunque in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di sui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde al quesito sottolineando come il terzo comma dell’art. 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddividono tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente» tanto è vero che: «Posto che l’art. 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’art. 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: « In realtà, l’art. 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. III comma, la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito divieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

Il caso affrontato dalla Cassazione

La fattispecie oggetto di analisi da parte della Suprema Corte attiene al riparto delle spese di risanamento di alcuni pilastri di un complesso immobiliare costituito da tre corpi di fabbrica separati da giunti tecnici. Siamo, quindi, in presenza di tre fabbricati distinti tra di loro per tipologia costruttiva e che a loro volta danno luogo a tre distinti condomini. Invero, il nesso di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive sia estese in verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (cd. “condominio orizzontale”).

Ora, con riferimento al caso in commento, veniva impugnata una delibera assembleare che approvava la ripartizione delle spese – effettuata in base ai millesimi di proprietà generale dell’intero complesso edilizio – per il risanamento di alcuni pilastri posti al di sotto di in solo corpo di fabbrica.

La Cassazione, dopo aver delineato caratteri, presupposti, contenuto e limiti dell’istituto del condominio parziale, conferma la validità, per questo singolo caso concreto, della ripartizione effettuata per tabella generale di proprietà relativa a tutte e tre i fabbricati.

Ed infatti, seguendo gli accertamenti cui si era pervenuti in sede dei giudizi di merito, a dare prova della corretta ripartizione era proprio la circostanza che i pilastri pur risultando strutturalmente portanti per un solo corpo di fabbrica essi sostenevano non solo l’edificio sovrastante ma anche altri elementi comuni a tutti gli altri edifici (nel caso de quo un camminamento su porticato esterno condominiale). Diversamente, ove detti pilastri avessero avuto la funzione di servire solo il relativo corpo di fabbrica, il riparto delle spese per gli interventi di consolidamento avrebbe dovuto essere improntato al differente criterio di cui al terzo comma dell’art. 1123 c.c. 3° comma. Ciò in ossequio al principio di cui all’istituto del condominio parziale.

Oneri condominiali – Prescrizione

La mancata impugnativa del rendiconto comporta il pagamento anche degli oneri condominiali arretrati ivi indicati e già prescritti –  Commento a Cass n.  27849/2021

La fattispecie esaminata dal Supremo Consesso ha notevole importanza nell’ambito delle obbligazioni condominiali, ed ha a riferimento una causa di opposizione a Decreto ingiuntivo per oneri condominiali,  approvati  su rendiconto che riportava anche i crediti relativi ad anni pregressi e  per i quali a dire dell’opponente era già maturata la prescrizione.

L’appello era stato già respinto perché il Tribunale di Genova aveva rilevato: che era pur vero che la delibera di approvazione delle spese era riferita a gestioni precedenti al 2017, ma che essa non era stata impugnata. Secondo detta sentenza (di II grado) in mancanza di impugnativa nessuna contestazione poteva più essere mossa al consuntivo che conteneva l’indicazione delle causali delle spese anche con riferimento alle gestioni pregresse.

Quasi pedissequamente ha avuto a disporre la sentenza in rassegna. Essa ha, quindi, il notevole pregio da un lato di aver dato certezza alla problematica non certo facile, dall’altro di costituire una vera e propria arma in mano agli amministratori che, a scanso di proprie responsabilità, potranno semplicemente riportare ogni anno nel rendiconto anche il dovuto per ogni moroso indicandone la causale.

La sentenza della Suprema Corte ha anche il pregio di  aver precisato le caratteristiche che deve avere questa approvazione: “ Va ribadito che il consuntivo per successivi periodi di gestione che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative ad annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’art. 1137 c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti del singolo partecipante, pur costituendo “un nuovo fatto costitutivo del credito” stesso (cfr. Cass. 4489/2014; Cass. 20006/2020).

In tale caso vige il principio che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, concernente il pagamento dei contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su di esso gravante con la produzione del verbale di assemblea condominiale con cui siano state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. 7569/1994).”

Ciò porta a ritenere, in armonia con quanto indicato nella sentenza, che la delibera di approvazione costituisce il titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo ma anche la condanna del condomino a pagare le somme: laddove l’ambito dell’opposizione è ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza e validità della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. SS.UU. 26629/2009; Cass. 5254/2011; Cass. 4672/2017).

SUGGERIMENTO

Un consiglio molto utile agli amministratori diventa conseguenzialmente quello di riportare in ogni consuntivo l’indicazione di tutte morosità (anche quelle pregresse) con le relative causali e l’imputazione al singolo condomino. Si suggerisce anche di indicare nella relazione illustrativa che: “per detti crediti si fa espressamente richiesta di pagamento e che la presente richiesta è valida anche ai fini interruttivi della prescrizione”.

 L’indirizzo, ormai costante potremmo dire anche per l’applicazione che oggi ne danno i giudici di merito (per tutti vedi il Tribunale di Roma di seguito meglio indicato), è quello che la delibera di approvazione del rendiconto è munita della forza propria degli atti collegiali ai sensi del I comma dell’art. 1137 c.c. (Cass. 4306/2018) per cui da ciò discende l’insorgenza e quindi anche la prova dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni dell’edificio (Cass. 11981/1992).

A dare conferma a tale indirizzo è stato il Tribunale di  Roma con la recente sentenza n. 8724 del 17.6.2020, con cui si è ritenuto che: se è evidente che non può ritenersi viziato un rendiconto che riporti un credito verso un condominio di cui non è già maturata la prescrizione, non può dirsi altrettanto se la prescrizione sia già maturata ed il condomino interessato intenda farla valere: altrimenti il rendiconto riporterebbe, in modo oggettivamente inveritiero, un credito non più esistente”.

Per completezza di disamina dobbiamo anche ricordare che il rendiconto condominiale ” funge contemporaneamente da atto riepilogativo della situazione finanziaria del condominio e da elemento di un vero e proprio “negozio con funzione ricognitiva della situazione preesistente, cioè dell’esecuzione del mandato, e costitutiva di un’attuale obbligazione diretta a definire un regolamento d’interessi” collegato con il preesistente rapporto gestorio. Sotto il primo aspetto, la deliberazione assembleare di approvazione ha un valore ricognitivo e conformativo, mentre, sotto il secondo aspetto, costituisce approvazione del rendiconto, reso dal mandatario amministratore, del proprio operato gestorio (Trib. Roma sez. V, 30/04/2019, n. 9011).

Se a ciò si aggiunge che come già prima abbiamo detto, nulla vieta all’amministratore, entro il termine di prescrizione delle spese condominiali, di convocare l’assemblea per l’approvazione di un nuovo stato di riparto, comprensivo di tutte le quote scadute pregresse dovute dai condomini, tale che anche i saldi degli esercizi precedenti entrano a far parte di un unico rendiconto che qualora riporti anche crediti prescritti, se contestato dal singolo condomino, va impugnato nei termini di cui all’art. 1137 c.c. (Trib. Napoli sez. IV, 03/10/2019, n. 8712), altrimenti esso stesso rendiconto costituisce la prova del dovuto per tutti gli anni ivi indicati.

Una possibilità in meno di sottrarsi al pagamento per i condomini morosi.

Portierato, le attività extra si pagano a parte: condannato un condominio

Per le attività extra fatte svolgere al portiere scatta l’indennità di servizio. Così un condominio è stato condannato a versare 52mila euro al dipendente. Lo ha sancito il Tribunale di Palermo con la sentenza 2648 del 18 luglio scorso.

Il portiere dello stabile aveva chiesto la condanna del condominio al pagamento di 65.557,50 euro, oltre ad accessori come per legge, a titolo di differenze retributive e, in particolare, di ratei ferie, ratei tredicesima mensilità, ex festività e permessi non goduti, straordinario ed indennità supplementari (vani, ascensore, ufficio, citofono, pulizia piani, scale, contributo energia elettrica, caldaia, esazione quote condominiali, ritiro raccomandate, apertura e chiusura portone, reperibilità ed autoclave).

Gli esperti de Il sole 24 Ore, commentando la sentenza, invitano a riflettere sulle tante e diverse tipologie contrattuali che possono essere utilizzate per assumere un portiere, stando al contratto collettivo nazionale siglato dalle associazioni di categoria. Le figure professionali dei lavoratori, in particolare, ai quali si applica il contratto sono addetti alla vigilanza, custodia, pulizia e mansioni accessorie degli stabili adibiti ad uso di abitazione o ad altri usi. Se poi l’attività svolta dal portiere richiede particolari capacità, specializzazioni, licenze, autorizzazioni, il lavoratore ne deve essere in possesso. Secondo il contratto nazionale si possono assumere lavoratori ad esempio con mansioni di operaio specializzato, per la manutenzione degli immobili, degli impianti ed apparecchiature in essi esistenti o che di essi costituiscono pertinenza oppure assistenti bagnanti nelle piscine condominiali o che prestano la loro opera per la pulizia e/o conduzione dei campi da tennis e/o piscine e/o spazi a verde e/o spazi destinati ad attività sportive e ricreative in genere, con relativi impianti.

La classificazione dei lavoratori prevista dal contratto collettivo (articolo 17) prevede anche la figura di portieri con funzioni amministrative: quadri che operano in amministrazioni di adeguate dimensioni, con struttura operativa anche decentrata, e con alle proprie dipendenze impiegati oppure impiegati con responsabilità di direzione esecutiva, che sovraintendono all’intera amministrazione dello stabile o a una funzione organizzativa di rilievo, con carattere di iniziativa e di autonomia operativa nell’ambito delle responsabilità loro delegate.

Ciò posto, la prima questione sottoposta al Tribunale di Palermo riguardava l’esatto inquadramento del portiere a fronte della contestazione mossa dal condominio, rispetto l’entità dei servizi da lui svolta durante la pendenza del rapporto contrattuale. Il corretto inquadramento del portiere dipendeva dallo svolgimento da parte di quest’ultimo del compito di pulizia dello stabile (le categorie di cui all’articolo 15 del contratto); il giudice, pertanto, attraverso l’analisi del compendio probatorio in atti, ha proceduto ad un inquadramento contrattuale nell’ambito della categoria A4, ovvero portieri che prestano la loro opera per la vigilanza, la custodia, la pulizia e le altre mansioni accessorie degli stabili, fruendo di alloggio. Così configurato dal punto di vista contrattuale il rapporto tra portiere e condominio, il giudice palermitano ha riconosciuto la sussistenza del diritto del lavoratore a percepire le indennità di servizio ulteriori a fronte dell’attività materialmente svolta in favore dei condòmini: indennità per numero di vani; indennità per ascensore; indennità per ufficio; indennità citofono; indennità pulizia piani; indennità scale; indennità contributo energia elettrica; indennità caldaia; indennità esazione quote condominiali; indennità ritiro raccomandate; indennità apertura e chiusura portone; reperibilità ed autoclave.

Alla stregua di quanto sopra, il giudice – avvalendosi anche di una consulenza tecnica d’ufficio contabile – ha disposto la condanna del condominio-datore di lavoro ad una somma di oltre cinquantaduemila euro, di cui quarantamila euro circa per differenze retributive ed euro diecimila per saldo Tfr, il tutto oltre ad accessori nella misura legalmente dovuta da ciascun rateo fino al saldo.

Contemperamento d’interessi in condominio: legittima l’installazione dell’ascensore che incide sulla larghezza delle scale

Corte di Cassazione – II sez. civ. -sentenza n. 19087 del 14-06-2022

All’esito della comparazione tra vantaggi e svantaggi che l’opera comporta per i condomini risulta legittima l’installazione dell’ascensore che pur incide sulla larghezza delle scale

La vicenda

Alcune condomine dei piani alti citavano in giudizio i proprietari degli altri quattro appartamenti posti ai piani primo e secondo dello stabile, chiedendo che fosse accertato il loro diritto di installare, a proprie spese, un ascensore all’interno dell’edificio realizzato nell’anno 1960, che ne era sprovvisto. In particolare, come da progetto di fattibilità, le attrici intendevano occupare con il vano ascensore la tromba delle scale e piccola parte degli scalini. I convenuti eccepivano che nell’edificio mancava uno spazio idoneo ad alloggiare l’ascensore all’interno del vano scala, poiché non vi era la tromba delle scale; di conseguenza precisavano che l’installazione dell’ascensore avrebbe gravemente compromesso l’uso delle scale e della cabina al condomino. In ogni caso sostenevano come la riduzione in questione (che si intendeva effettuare mediante taglio parziale dei gradini per consentire l’alloggiamento del vano ascensore) fosse vietata dalla legge. Il Tribunale dichiarava il diritto delle attrici all’installazione dell’ascensore, a loro cura e spese, all’interno dell’edificio. La Corte di Appello confermava la decisione di primo grado. A sostegno dell’adottata pronuncia i giudici rilevavano che la legge n. 13/1989 e il decreto attuativo n. 236/1989 non regolavano il caso esaminato, con la conseguenza che la realizzabilità dell’opera era stata esaminata sotto il profilo della comparazione tra i vantaggi e gli svantaggi che essa avrebbe potuto determinare; che doveva essere confermata la valutazione del giudice di prime cure in ordine alla conformità dell’installazione dell’ascensore alle condizioni prescritte dall’art. 1102 c.c.; che, considerate attentamente le abitudini attuali di vita, il sacrificio minore si sarebbe realizzato incidendo sulla larghezza delle scale, ridotta a cm. 77,00, al netto del corrimano, per tutte le rampe, e a cm. 74,00, sempre al netto del corrimano, per la sola prima rampa, peraltro con la possibilità che l’ingombro del corrimano potesse essere ridotto mediante accorgimenti particolari. I soccombenti ricorrevano in cassazione.

La questione

Tenendo conto dei vantaggi e degli svantaggi che l’opera comporta può essere considerata legittima l’installazione dell’ascensore che riduce la larghezza delle scale a cm. 77,00, al netto del corrimano, per tutte le rampe, e a cm. 74,00, sempre al netto del corrimano, per la sola prima rampa?

 

La soluzione

La Cassazione ha ritenuto legittimo il progetto relativo all’installazione dell’ascensore nelle scale. Secondo i giudici supremi, considerate attentamente le abitudini attuali di vita e le esigenze degli abitanti delle grandi città, nonché le attuali caratteristiche della popolazione italiana (composta in misura di gran lunga prevalente da persone non giovani), tale installazione è legittima anche se comporta la riduzione della larghezza delle scale che costituisce il sacrificio minore. Infatti- ad avviso della Cassazione – l’interesse all’installazione, nonostante il dissenso di alcuni condomini, dell’impianto di ascensore è funzionale al perseguimento di finalità non limitabili alla sola tutela delle persone versanti in condizioni di minorazione fisica, ma individuabili anche nell’esigenza di migliorare la fruibilità dei piani alti dell’edificio da parte dei rispettivi utenti, apportando una innovazione che, senza rendere talune parti comuni dello stabile del tutto o in misura rilevante inservibili all’uso o al godimento degli altri condomini, faciliti l’accesso delle persone a tali unità abitative, in particolare di quelle meno giovani. Come hanno notato i giudici supremi detto contemperamento è stato espressamente effettuato dai giudici di secondo grado, che, all’esito del bilanciamento tra utilità e svantaggi di due esigenze non conciliabili, hanno (con motivazione ineccepibile) dato preferenza all’installazione dell’ascensore.

 

Le riflessioni conclusive

La sentenza prosegue il nuovo orientamento formatosi dopo l’importante sentenza della Corte Costituzionale n. 167 del 10 maggio 1999, decisione che ha contribuito ad un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati ora quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall’intera collettività.

Di conseguenza si è cominciato ad affermare che il principio di solidarietà condominiale, che presuppone la coesistenza di più unità immobiliari in un unico fabbricato, implica il contemperamento, al fine dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali, di vari interessi, tra i quali si deve includere anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche (o comunque delle persone che hanno difficoltà ad affrontare le rampe), trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all’intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione (Cass., sez. II, 28/03/2017, n. 7938). Alla luce di quanto sopra è risultata legittima la riduzione delle scale alla larghezza di 80 centimetri pur comportando un lieve aumento delle difficoltà di transito o di trasporto con barella (Trib. Roma 27 maggio 2016); ma è apparsa non contestabile pure l’installazione dell’impianto in questione anche quando la larghezza della scala rimasta a disposizione per il transito è risultata pari a 0,72 m (Cass., sez. II, 05/08/2015, n. 16468)