Interventi di manutenzione straordinaria e clausola penale

Spesso all’interno di un condominio si deve procedere ad eseguire interventi di manutenzione straordinaria. un esempio su tutti è il rifacimento del tetto: “l’assemblea delibera i lavori, istituendo il relativo fondo spese o stabilendo il versamento a rate, ai Sal (articolo 1135 del Codice civile, come modificato dalla legge 220.2012). E nel contratto di appalto è prevista la clausola penale. Sul tema è intervenuta la recente decisione della Cassazione n. 13902/2016 del 7.7.2016“.
Nel caso di specie, l’impresa appaltatrice aveva già ottenuto l’ingiunzione per il pagamento del saldo; il condominio, invece, si opponeva con varie motivazioni, tra cui spiccava quella riguardo l’eccessiva onerosità della penale, unico motivo portato in Cassazione. La Corte di Appello. dal canto suo,  aveva già preso in considerazione la riduzione della penale già operata dal condominio, facendola anche decorrere dalla data dell’inizio della causa, decidendo pertanto di non effettuare alcuna riduzione a equità. Il condominio, invece,  lamentava “la violazione dei principi della clausola penale (art. 1382 c.c.) e dei tassi di interesse (art. 1815 c.c.): l’importo giornaliero della penale decorrente dall’inizio della causa comportava il superamento della soglia del tasso usuraio“.

Interventi di manutenzione straordinaria: la decisione della Cassazione

Per questi motivi, la  Suprema Corte ha ritenuto fondate le motivazioni, ha delineato una nuova finalità della penale: “la realizzazione dell’equilibrio delle parti del contratto, evitando l’abuso di posizione dell’adempiente, senza tutelare l’inadempiente ma bilanciando il rapporto contrattuale. Fino a ieri la penale era definita negozio autonomo, con oggetto e funzione propria (Cass. 16492/2002 e Cass. 6561/1991). In passato si leggeva che: «il contraente adempiente ha diritto di richiedere il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento o all’inesatto adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto, ai sensi dell’art. 1453, comma 1, del Codice civile in ogni caso e, cioè, sia quando egli chieda anche la risoluzione del contratto, sia quando rivendichi la relativa esecuzione, ed anche quando le conseguenze dell’inadempimento siano ancora eliminabili o attualmente eliminate, per cui la pretesa risarcitoria è accoglibile solo in relazione al pregiudizio realizzato nel tempo dell’inadempimento e fino alla cessazione di questo». (Cass. 5100/2006; Cass. 9926/2005)“.
Quindi, con la decisione n. 13902.2016 dove «il riferimento all’interesse del creditore contenuto nella norma e considerato che la possibilità della riduzione ad una misura equa trova la sua r della Suprema Corte ragion d’essere nell’interesse del debitore inadempiente, consente di identificare quel criterio nell’equo contemperamento degli interessi contrapposti, che assicuri, cioè, il posizionamento del soggetto adempiente sulla curva di indifferenza più vicina a quella su cui si sarebbe co0llocato qualora il contratto fosse stato adempiuto».

Per concludere, ecco l’affermazione, assolutamente degna di nota, del Collegio: «D’altra parte, tenuto conto che dal nuovo e moderno sistema contrattuale, quale viene sempre più emergendo, anche dalla normativa europea, corollario di un liberismo che al contempo è anche solidaristico, emerge una maggiore attenzione per la giustizia contrattuale, cioè per un contratto che non presenti né uno squilibrio strutturale, né e soprattutto uno squilibrio tra prestazioni o di contenuto, appare ragionevole che anche la clausola penale debba essere espressione di un corretto equilibrio degli interessi contrattuali contrapposti».

Condominio: chi brucia plastica commette reato

In condominio, chi brucia plastica commette reato. Lo ha deciso la terza sezione penale della Cassazione che, ribaltando il giudizio espresso in primo grado, con la sentenza n. 24817 del 15 giugno 2016, ha sancito che chi brucia plastica, con conseguente emissioni di fumi maleodoranti e fastidiosi che turbano la tranquillità del vicinato, incorre nel reato di “Getto pericoloso di cose” (art. 674 del codice penale), un reato che, in questo caso, ha carattere sia istantaneo che permanente.

Ne consegue che chi brucia plastica e provoca l’emissione di fumi maleodoranti e fastidiosi, anche una sola volta, integra questa tipologia di reato.

Chi brucia plastica commette reato: il fatto

 

Vivere all’interno di un condominio, si sa, porta spesso a scontrarsi con i comportamenti scorretti e spesso maleducati di altri condomini che, a loro insaputa, possono addirittura compiere azioni che hanno una rilevanza penale. Questo, per esempio, accade quando l’inquilino di un appartamento decide, non curandosi affatto dei fastidi che potrebbe arrecare ai vicini, di bruciare del materiale di plastica, senza sapere, fra le altre cose, che nel momento stesso in cui decide di farlo sta per commettere un reato penale.

Questo tipo di comportamento, infatti, è recentemente giunto all’esame della terza sezione penale della Cassazione, che si è trovata a giudicare un uomo (imputato del reato di “Getto pericoloso delle cose” ex art. 674 c.p.) che aveva bruciato del materiale in plastica provocando l’emissioni di fumi maleodoranti che hanno infastidito, e non poco, gli inquilini di un edificio condominiale che sorge nelle vicinanze del luogo in cui si sono svolti i fatti.

Pertanto, l’uomo, è stato subito sottoposto a procedimento penale per il reato di cui all’art. 674 cp che stabilisce che: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206“.

Chi brucia plastica commette reato: le sentenze

 

 

 

Una volta concluso il procedimento penale, il Giudice ha deciso di non accogliere la richiesta del pubblico ministero, che aveva richiesto l’emissione di un decreto penale di condanna, e di prosciogliere l’imputato poiché il fatto era stato ritenuto non sussistente.

Il Procuratore generale presso il Tribunale di Asti ha pertanto proposto il ricorso per Cassazione avverso la sentenza di proscioglimento per “inosservanza o erronea applicazione della legge penale”.

Il giudice di primo grado, dal canto suo, avrebbe ritenuto insussistente il reato di cui all’art. 674 cp perché da diverse testimonianze era emerso che la condotta adottata dall’inquilino era sporadica ed occasionale.

 

Nonostante ciò, il Procuratore della Repubblica presso la Cassazione ha accolto il ricorso annullando così la sentenze di primo grado, e al contempo ha deciso di effettuare un’attenta ricostruzione dei fatti. Questa ha portato quindi ad un ribaltamento della sentenza di proscioglimento e all’emissione di una sentenza di condanna dell’umo che, secondo il giudice della terza sezione penale della Cassazione, avrebbe potuto essere prosciolto solo se fosse stata provata la sua più totale innocenza.La sentenza della terza sezione penale della Cassazione.

Inoltre, sempre secondo il giudice della Cassazione, “il Gip ha erroneamente assolto l’imputato perché “non sussisterebbe il reato in quanto la condotta non avrebbe avuto carattere permanente ma solo occasionale e ciò sulla base delle dichiarazioni testimoniali dei vicini di casa dell’imputato”.

La sentenza del giudice della Cassazione sancisce, invece, che “le conclusioni che hanno ispirano il giudice in primo grado non sono condivisibili poiché disattendono palesemente un principio già espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il reato di getto di cose pericolose, di cui all’art. 674 c.p., ha di regola carattere istantaneo e solo eventualmente permanente, dato che la permanenza va richiesta solo quanto le illegittime emissioni sono connesse all’esercizio di attività economiche legate al ciclo produttivo“. (Cass. pen. Sez. I, 13.11.1997 n. 2598)

Pertanto, la Cassazione ha deciso di annullare la sentenza di proscioglimento dell’imputato emessa in primo grado e di emetterne una nuova di condanna per aver bruciato plastica in condominio.

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: non spetta alcun risarcimento

Se le grondaie sono intasate dalle foglie del vicino, non spetta alcun risarcimento. Ebbene sì, se dall’albero del vicino cadono foglie e aghi sul tuo tetto, non hai alcun diritto a richiedere il risarcimento per il possibile danno che comporterebbe l’intasamento delle grondaie. Inoltre, non è possibile nemmeno richiedere un contributo fisso per la pulizia annuale.

Questo è quanto ha stabilito, con la sentenza n. 3550 del 20 novembre 2014, il Tribunale di Padova in merito al possibile risarcimento del danno derivante dalla mancata pulizie delle grondaie. +

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: Il caso

Tutto risale a quando l’inquilino di uno stabile ha chiamato in causa il fratello, poiché all’interno della proprietà di quest’ultimo c’era una conifera con foglie aghiformi e piccoli frutti che, ogni volta che si staccavano, a causa del vento finivano sulla grondaia dell’abitazione confinante e, visto che questi non venivano rimossi annualmente, avrebbero potuto, secondo la persona con la grondaia intasata, provocare danni ingenti in futuro.

Per questo motivo, quindi, la persona in questione ha deciso di chiedere al giudice di condannare il fratello ad eliminare il problema e a farsi carico, oltre che della pulizia annuale della propria grondaia, di un risarcimento preventivo in vista di danni futuri. Ma, presentandosi all’udienza, l’accusato ha contestato in pieno le richieste avanzate dal fratello.

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: il giudizio della Corte

Pertanto, essendoci alla base una richiesta di risarcimento preventivo in vista di danni futuri, è opportuno, per il giudice, fare chiarezza sul termine danni futuri, con il quale si “allude alle conseguenze patrimonialmente sfavorevoli non attuali che sono destinate a prodursi con riferimento ad un evento dannoso già verificatosi“.

E’ dunque sbagliato usare il termine danni futuri, poiché “future sono piuttosto le conseguenze sfavorevoli dell’evento dannoso”.

Fatta dunque questa dovuta premessa, il problema, secondo i giudici, “è quello di conciliare la futuritá di tale pregiudizio con il criterio legale in base al quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta dell’illecito: si ponga mente al fatto che il disposto dell’art. 1223 cod.civ. è ritenuto per lo più applicabile anche in tema di illecito extracontrattuale“.

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: a chi tocca pagare?

Precedentemente, con la sentenza n. 10072 del 27 aprile 2010, la Cassazione aveva stabilito che “il danno futuro va risarcito anche qualora sia soltanto rilevantemente probabile“. E in questo modo si capisce che “la certezza che deve sussistere per rendere risarcibile il danno futuro non è la stessa di quella che caratterizza il danno presente, ma soprattutto che per risarcire un danno futuro non basta la mera eventualità di un pregiudizio futuro, mentre è sufficiente la fondata attendibilità che esso si verifichi: questo accade ogni volta che tale pregiudizio appare come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocabilmente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto“.

Nel caso in esame, quindi, secondo il giudice del Tribunale di Padova non vi è alcuna prova del danno futuro, ma solo una mera probabilità che non è sufficiente per condannare il fratello vicino, nella cui proprietà è presente una conifera con foglie aghiformi. Nella fattispecie il giudice si è appellato all’art. 2051 del c.c. sulle responsabilità del custode, e ha stabilito che “il proprietario di un albero non può essere responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per la sola caduta di foglie sul fondo confinante, non ricorrendo né il carattere lesivo dell’evento, trattandosi di fenomeno del tutto naturale e inoffensivo, né la pericolosità della cosa (pianta) in relazione all’evento dedotto e neanche la possibilità di prevenzione dello stesso ad opera del proprietario della pianta, potendo, se mai, essere assoggettata la riferita condotta alla disciplina prevista per i rapporti di vicinato“. (In tal senso Cass. sez. III, 9.8.07, n. 17493).  Pertanto il giudice ha rigettato il ricorso dell’uomo che voleva essere risarcito preventivamente in vista di un danno futuro.

 

L’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori? Spetta al condominio versare gli interessi di mora

L’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori nello stabile? Allora il condominio è tenuto a versare gli interessi di mora. Questo è quanto ha stabilito il Tribunale di Roma con la sentenza n.225 dell’11 gennaio 2016 in tema di responsabilità dell’amministratore di condominio nel contratto di appalto.

Si è giunti a questa sentenza dopo che una ditta di pulizie aveva fatto ricorso al Tribunale chiedendo un decreto ingiuntivo nei confronti del condominio per il pagamento di una somma dovuta dopo che la stessa ditta aveva prestato un servizio di pulizia in uno stabile. Questa somma, ovviamente, comprendeva, oltre a quanto dovuto per il servizio, gli interessi di mora maturati fino a quel periodo.

Il condominio, dal canto suo, si opponeva a tale decreto e richiedeva un compenso per le maggiorazioni rispetto al prezzo d’appalto inizialmente concordato.

Se l’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori, paga il condominio?

Nei poteri attribuiti all’amministratore di condominio dall’articolo 1130 c.c. rientra quello di stipulare contratti necessari per provvedere, nei limiti della spesa approvata dall’Assemblea, tanto all’ordinaria manutenzione quanto alla prestazione dei servizi comuni, contratti, pertanto, vincolanti per tutti i condomini ai sensi dell’articolo 1131 cc.

Anzi, se l’amministratore di un condominio autorizzato dall’assemblea dei condomini senza riserva di approvazione di talune clausole, alla stipula di un contratto di appalto per provvedere alla manutenzione di parti comuni dell’edificio, validamente può pattuire, per il caso di ritardo nel pagamento del corrispettivo all’appaltatore, interessi moratori superiore al tasso legale e il condominio è obbligato l’adempimento del debito derivante da tale clausola né comunque il preteso credito per pagamenti indebiti opposto in compensazione si rivelerebbe di facile e pronta liquidazione“.

L’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori? Il condominio non deve nulla se l’assemblea prima lo approva all’unanimità

Secondo il giudice del Tribunale di Roma, una volta accertati i fatti, è emerso chiaramente che vi era un accordo contrattuale tra le due parti (condominio e ditta di pulizie) che prevedeva il versamento degli interessi di mora alla ditta nel caso in cui ci fosse stato un ritardo nel pagamento da parte dell’amministratore.

Chiarito ciò, “nella vicenda in esame, conformemente a quanto precisato dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice romano ha avuto modo di precisare che l’amministratore condominiale ha il potere, ai sensi degli articoli 1130, 1131, numero 3, e 1135, numero 4, del c.c., di stipulare, vincolando i condomini, i contratti necessari per provvedere alla manutenzione ordinaria dei beni comuni nonché alla loro manutenzione straordinaria, la quale sia stata deliberata dall’assemblea dei condomini – salva l’ipotesi in cui quest’ultima, nel deliberare l’esecuzione di lavori di straordinaria manutenzione, abbia riservato a sé l’approvazione delle singole clausole di quella stipulazione – con eccezione per le opere urgenti, in relazione alle quali può provvedere immediatamente, riferendone alla prima adunanza“.

Ne consegue che, se l’amministratore di un condominio è autorizzato dall’assemblea dei condomini, alla stipula di un contratto d’appalto che prevede il versamento degli interessi di mora in caso di ritardo dei pagamenti alla ditta che esegue i lavori in una parte comune del condominio, il condominio, a sua volta, è obbligato all’adempimento del debito derivante da questa clausola. (In tal senso Cass. 1640/1997 e Cass.3159/1993).

Per questo motivo, il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso del condominio che, pertanto, dovrà versare alla ditta di pulizie l’intera cifra pattuita più gli interessi di mora.

Cosa accade se un Amministratore non ha i requisiti?

Quella dell’amministratore di condominio è una figura molto complessa che ha oggi connotazioni normative del tutto nuove, sconosciute al codice del 1942.
“Un ruolo che allora era indefinito, quanto a forma e caratteristiche, è stato oggi disegnato dalla L. 220/12 e dalla L. 4/2013, che hanno profondamente inciso sulle caratteristiche necessarie per svolgere l’incarico.
L’art. 71 bis disp.att. cod.civ., introdotto dalla legge 220/2012 disciplina i requisiti per lo svolgimento dell’incarico, mentre la L. 4/2013 prevede quelli richiesti per esercitare in forma professionale l’attività”. Ma cosa accade se un Amministratore non ha i requisiti?
Innanzitutto, c’è da dire che entrambe le normative non si coordinano affatto tra di loro a lasciano parecchio perplessi, poiché introducono aspetti simili ma non del tutto e non sempre coincidenti fra di loro.

Se l’amministratore non ha i requisiti la sua nomina è nulla?

Senza dubbio il legislatore di questi anni ha inteso riconoscere all’amministratore una valenza sociale e una rilevanza significativa quale strumento di tutela di interessi diffusi, pretendendo che la figura destinata al compito delicatissimo e complesso di gestire una rilevante componente del patrimonio immobiliare nazionale possieda parametri di affidabilità e professionalità, così come delineati dalle nuove norme che travalicano il mero rapporto privatistico che intercorre con i condomini che conferiscono l’incarico. 
Vi è quindi chi ha letto nella normativa in vigore la caratteristica di norma imperativa, estendendo tale natura non solo alle previsioni con più certa valenza pubblicistica che regolano lo svolgimento della professione ma anche alle disposizioni contenute nell’art. 71 bis disp.att. cod.civ., così che per alcuni interpreti la mancanza dei requisiti dettati dal codice civile comporterebbe nullità della nomina per contrarietà a norme imperative e – per alcuni lettori estremi – anche nullità di tutti gli atti compiuti dall’amministratore che dovesse trovarsi a svolgere l’incarico in assenza di tali requisiti. 
Taluno ha richiamato anche la c.d. nullità di protezione, che deriverebbe dall’art. 36 del c.d. codice del consumo, tesi che avrebbe peraltro possibile applicazione solo ove il l’amministratore abbia dolosamente occultato l’assenza dei requisiti e non ove l’assemblea abbia deliberatamente accettato quella assenza“.
Queste posizioni, che non sono per nulla prive di suggestioni, rischiano però di assumere una connotazione estrema nonché di apparire poco legate al dato testuale; soprattutto il richiamo ad un vizio grave e radicale come la nullità della nomina, introduce delle conseguenze molto gravi dagli esiti imprevedibili: per questo motivo si rende del tutto necessaria  una disamina diversa e più ponderata, soprattutto da chi pretende di porsi dalla parte dell’amministratore, che ha di recente e finalmente “trovato una disciplina che – seppur assai perfettibile – finalmente ne riconosce il ruolo e la professionalità“.
Appare quindi del tutto plausibile “che l’amministratore di condominio debba rispondere a parametri che – travalicando il mero interesse civilistico – assicurino alla collettività che quella figura sia rivestita da un soggetto che garantisce affidabilità professionale, patrimoniale e personale. L’intero impianto della L. 4/2013 modula la figura dell’amministratore professionista su parametri astrattamente riconducibili alle professioni ordinistiche, con controlli a natura pubblicistica su formazione, onorabilità, tutela del consumatore, aggiornamento, ovvero tutti quei requisiti che paiono idonei a soddisfare quegli interessi pubblici e diffusi che il legislatore mostra di voler tutelare. Si può discutere se il metodo scelto sia idoneo allo scopo, ma è indubitabile che la legge sulle professioni non ordinistiche sia volta a garantire erga omnes la qualità del professionista.
Tale normativa viene emanata nel gennaio 2013, a pochi mesi di distanza dalla legge 220/2012 che prescrive a sua volta parametri assai vincolanti anche per lo svolgimento dell’incarico; appare improbabile che il legislatore abbia manifestato così tanta schizofrenia – sovrapponendo normative inconciliabili – così che assimilare i due testi in una unica lettura a carattere pubblicistico potrebbe essere fuorviante: in realtà l’art. 71 bis disp.att. cod.civ. prevede alcuni requisiti di onorabilità e alcuni requisiti culturali per svolgere l’incarico. L’uso del termine “svolgere” e non di quello “assumere” sembra spostare l’attenzione del legislatore civile sul momento di esecuzione della prestazione e non su quello genetico della stessa. 
A ciò si aggiunga che la stessa norma prevede – per il solo venir meno dei requisiti soggettivi di onorabilità – il rimedio espresso della cessazione dall’incarico, mentre nulla prevede ove non sussistano quelli relativi alla formazione.
Se il rimedio della cessazione appare di lineare applicabilità ove i requisiti vengano meno durante lo svolgimento dell’incarico (condanna passata in giudicato, protesto cambiario, etc.) ci si chiede quali conseguenze comporti l’assenza di tali presupposti sin dal momento della nomina, ovvero in quei casi in cui l’assemblea intenda coscientemente nominare amministratore un soggetto che non risponde a tutti i parametri della norma“.

Ecco cosa accade se l’amministratore non ha i requisiti

In tal senso, viene in aiuto un’ autorevolissima dottrina che afferma “che la previsione contrattuale che violi norme imperative (ammesso che all’art. 71 bis disp.att. cod.civ. debba riconoscersi tale natura) non riconduce necessariamente all’applicazione rigida dell’art. 1418 cod.civ. in tema di nullità del contratto, poiché la stessa norma nullità prevede che tale gravissimo vizio colpisca il contratto solo ove espressamente la legge lo preveda. Nello stesso solco interpretativo si pone un rilevante orientamento giurisprudenziale che ascrive alla categoria alla c.d. nullità virtuale tale ipotesi: “in difetto di espressa previsione in tal senso (cd. “nullità virtuale”), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere fonte di responsabilità” Cass. 2394/2015.
Il tema è complesso e richiede un approfondimento che travalica i limiti di queste riflessioni, tuttavia appare assai plausibile – alla luce degli orientamenti appena rammentati – una lettura che si discosti dalla tesi della nullità e si arresti al dato testuale della cessazione dall’incarico, tenuto conto che la stessa norma non ascrive la necessaria presenza di quei requisiti al momento genetico del rapporto ma al suo svolgimento, con il prodursi degli effetti della loro mancanza nel momento dell’adempimento e sul piano dell’efficacia e della responsabilità fra contraenti, categorie che anche sotto il profilo sistematico appaiono più pertinenti alla collocazione e connotazione civilistica della norma di attuazione“.
Ne consegue che, se l’amministratore non ha i requisiti, l’Assemblea può ricorrere al giudice per far dichiarare inefficace la sua nomina, e pertanto far cessare immediatamente la sua attività. ricorrendo all’art. 1105 cod. civ. nel caso in cui non si riuscisse a nominarne subito un altro.
Va ancor più sottolineato che la sola assenza dei requisiti culturali, che il legislatore mostra di considerare di minor rilievo non ancorando alla loro mancanza alcuna sanzione diretta e addirittura considerandoli superflui per il soggetto che amministri uno stabile in cui ha una proprietà, non è munita di sanzione diretta. A tal proposito va sottolineato che per taluni interpreti la mancanza di queli requisiti darebbe luogo a mera revoca ai sensi dell’art. 1129 cod.civ. con facoltà del giudice di apprezzare di volta in volta la gravità della violazione) mentre per una recentissima pronuncia, alla luce del ero dato testuale dell’art. 71 bis disp.att. cod.civ. – l’assenza dei requisiti rimarrebbe addirittura senza sanzione (Trib. Genova 3.6.2016)“.

Il condominio parziale non è legittimato a stare in giudizio

IL condominio parziale non è legittimato a stare in giudizio. Lo ha stabilito la seconda Sezione della Cassazione civile che, con la sentenza n. 12641 del 17 giugno 2016, ha “affermato la carenza di legittimazione sostanziale di un «condominio «parziale» convenuto in giudizio per il crollo di un muro“.

Secondo il danneggiato (titolare di un esercizio commerciale) il muro crollato costituiva un bene comune relativo a uno solo dei tre edifici posti orizzontalmente su più numeri civici, e per questo motivo, a suo avviso, poteva chiamare in giudizio il condominio parziale dell’edificio a cui apparteneva il muro in questione.
Il nesso di condominialità è ravvisabile in svariate tipologie costruttive purché le diverse parti siano dotate di strutture portanti e di impianti essenziali comuni. Inoltre, la condominialità può ricorrere anche ove sia verificabile un insieme di edifici indipendenti, sempre ché restino in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dell’articolo 1117 del Codice civile. Pertanto, si può ipotizzare la sussistenza, nell’ambito dell’edificio condominiale, di parti comuni, quali il tetto o l’area di sedime o i muri maestri o le scale o l’ascensore o il cortile, che risultino destinate al servizio o al godimento di una parte soltanto del fabbricato.
In queste ipotesi è automaticamente configurabile la fattispecie del «condominio parziale» (Cassazione, sentenza 23851/2010). Infatti, il condominio parziale non esige un fatto o atto costitutivo a sé, ma insorge in presenza della condizione materiale o funzionale giuridicamente rilevante“.

Il condominio parziale non è legittimato a stare in giudizio: la decisione della Suprema Corte

Quindi, secondo la Suprema Corte, “anche se il muro crollato avesse rappresentato un bene necessario all’uso comune soltanto di uno degli edifici di un unico condominio orizzontale, la domanda risarcitoria sarebbe stata inammissibile, poiché rivolta nei confronti di uno solo di tali edifici. Infatti, in tale situazione il condominio parziale non ha una propria autonoma legittimazione processuale passiva, tale da poter sostituire il condominio dell’intero edificio (Cassazione, sentenza 2363/2012). Inoltre, la sentenza ha chiarito che la circostanza relativa all’appartenenza del muro crollato, e dal quale era disceso il danno all’esercizio commerciale, a un unico condominio complesso costituito da tre fabbricati adiacenti, in quanto gruppo di edifici che, seppur indipendenti, abbia in comune alcuni dei beni di cui all’articolo 1117 del Codice civile, presuppone una valutazione di merito sottratta al giudizio di legittimità“.

L’Amministratore può essere rimborsato senza giustificativi per spese di stretta gestione condominiale

L’amministratore può essere rimborsato senza giustificativi per spese di stratta gestione condominiale. Per quanto assurda, una cosa del genere è assolutamente legittima, soprattutto se la delibera che approva il rendiconto e il preventivo decide di erogare il rimborso di una somma forfettaria per delle spese che risultano “legate a doppio filo” con la gestione condominiale, come per esempio fotocopie o spedizioni. Inoltre, l’assemblea ha anche il pieno potere di creare un fondo patrimoniale per pagare lavori non indicati nel preventivo e da svolgere in futuro.  Questo è ciò che stabilisce la sentenza 13183/16, pubblicata il 24 giugno dalla seconda sezione civile della Cassazione.

L’amministratore può essere rimborsato senza giustificativi: ecco perché

Per quanto contrario, il condomino deve rassegnarsi a quanto stabilito dai giudici della Suprema corte, secondo i quali “non è di per sé contra legem la delibera adottata dal condominio che approva il rendiconto riconoscendo all’amministratore a titolo di rimborso una somma, per quanto esigua, senza le cosiddette “pezze d’appoggio”. Anzitutto non risulta che il proprietario esclusivo, così attento alle finanze dell’ente di gestione, abbia chiesto che fossero esibiti i documenti giustificativi per poterli esaminare. Né trova ingresso la censura rivolta contro la sentenza impugnata laddove ha escluso che l’amministratore avesse l’obbligo di conservare gli scontrini: si sottrae infatti al sindacato di legittimità la delibera con cui l’assemblea ha ritenuto di liquidare a forfait in ragione della natura e della modesta entità delle spese per cui l’amministratore chiedeva il rimborso“.

Non ha neanche una miglior sorte l’altro motivo di ricorso, ovvero quello avverso alla costituzione di un fondo per la realizzazione di lavori futuri. Infatti, il tentativo di farlo rimuovere viene rigettato, oltre che in primo grado, anche in appello, poiché, anche se il condomino si era limitato a denunciarlo per la mancata inclusione dell’argomento all’ordine del giorno, il giudice aveva ritenuto chefosse sufficiente il solo aver fatto riferimento ai lavori del fabbricato. Pertanto, secondo l’assemblea, essendo lavori di manutenzione necessari, ma rinviabili all’anno successivo, ha la piena facoltà di decidere di costituire un fondo ad hoc. E tutto questo, secondo i giudici della Suprema corte, “rientra nell’ambito delle prerogative gestionali dell’assemblea, cui deve riconoscersi il potere di accantonare denaro in vista di lavori non indicati nel preventivo ma che comunque dovranno essere eseguiti in seguito. Al condomino non resta che pagare le spese di gestione“.

Appropriazione indebita dell’amministratore: scatta solo al passaggio delle consegne

L’appropriazione indebita dell’amministratore di condominio scatta solo al passaggio delle consegne. “Ai fini della prescrizione il momento in cui è integrato il delitto del professionista che opera sul conto è l’omesso trasferimento delle giacenze di cassa che determina l’interversione del possesso, va condannato per appropriazione indebita l’amministratore di condominio che, durante il suo incarico, si appropria di somme di pertinenza dell’ente ma in proposito vale la pena precisare che il possesso del denaro si manifesta e consuma soltanto al passaggio di consegne col nuovo amministratore, quindi quando le giacenze di cassa non vengono trasferite al nuovo responsabile“.

Quando scatta l’appropriazione indebita dell’Amministratore?

Nella fattispecie, “avendo l’amministratore la detenzione nomine alieno delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera attraverso operazioni in conto corrente, solo al momento della cessazione della carica si può profilare il momento consumativo dell’appropriazione indebita poiché in questo momento rispetto alle somme distratte si profila l’interversione nel possesso“.

Questo è quanto stabilito dalla sentenza 27363 del 4 luglio 2016 della seconda sezione penale della Cassazione, tramite la quale La Suprema corte ha deciso di rigettare il ricorso di un ex amministratore di condominio che, fra le altre cose, avrebbe voluto che il proprio reato venisse estinto per prescrizione, almeno per parte delle condotte. Infatti, secondo lui,  l’avvenuta appropriazione di 1.500 euro, non doveva riferirsi al passaggio delle consegne ma al momento dei singoli prelievi. Do avviso diverso era invece la Corte che a sua volta ha ritenuto “perfezionato il delitto non nel momento della sua revoca e nella nomina del successore, momento che avrebbe portato a prescrizione il reato, ma nel momento in cui egli, negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato uti dominus rispetto alla res, quindi al momento del passaggio di consegne“.

La Revoca giudiziale dell’amministratore non scatta automaticamente

Al fine di ottenere una pronuncia giudiziale di revoca dell’amministratore, deve essere a questo addebitato un fatto tale da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di mandato, anche a prescindere dall’inquadramento della condotta nell’elenco esemplificativo fornito dal legislatore della riforma l. 220/2012. Ne consegue che, anche solo in presenza di una delle ipotesi di gravi irregolarità previste dall’art. 1129 c.c., la revoca dell’amministratore non scatta automaticamente, ma può essere disposta dal giudice solo se venga ravvisato in concreto un comportamento contrario ai doveri imposti dalla legge”.

Questo è quanto ha stabilito il Tribunale di Treviso con la sentenza del 21 aprile 2016, in materia di revoca giudiziale dell’amministratore.

Revoca giudiziale dell’amministratore: il caso in esame

Analizziamo i fatti. Quanto espresso dal Tribunale si riferisce al caso in cui una condomina (proprietaria) di uno stabile si era rivolta al giudice competente, richiedendo la revoca giudiziale dell’amministratore di condominio, poiché questi, a suo avviso, aveva commesso delle gravi irregolarità gestionali (art. 1129, comma 12, n.2, c.c.) per non aver dato attuazione alla delibera assembleare.

Nella fattispecie, secondo la condomina, l’amministratore avrebbe dovuto informare il condominio del fatto che le tende installate da alcuni di loro, non erano state autorizzate dall’assemblea e che pertanto, secondo quanto disposto dal regolamento condominiale (che in questo caso vieta l’installazione di tende, tendaggi e addobbi esterni senza previa autorizzazione dell’assemblea nella sua totalità), i condomini che avevano violato il regolamento avrebbero dovuto provvedere alla rimozione delle tende entro e non oltre 60 giorni.

Per questo motivo, la donna avrebbe richiesto al Tribunale di Treviso di dispensare l’amministratore dal suo incarico. Mentre per quanto riguarda quest’ultimo, si è immediatamente costituito in giudizio contestando in toto le ragioni esposte dalla condomina. Nella fattispecie, l’amministratore di condominio sosteneva che le tende di cui parlava la donna, sarebbero state installate circa cinque anni prima, durante il mandato del precedente amministratore il quale, a sua volta, avrebbe ottenuto allora l’apposita autorizzazione dell’intera assemblea.

Revoca giudiziale dell’amministratore: cosa si intende per gravi irregolarità?

Secondo il nuovo art. 1129del c.c., la revoca giudiziale dell’amministratore può avvenire soltanto per gravi irregolarità. Scopriamo, prendendo in esame suddetto articolo, scopriamo insieme in quali casi un amministratore può essere dispensato dal proprio incarico.

In primo luogo può essere revocato, l’ipotesi non contenziosa, per volontà dell’assemblea, in qualsiasi momento e con le maggioranze previste per la sua nomina (quando viene meno l’apprezzamento da parte dei condòmini). Quelle successive risultano invece ipotesi giudiziali, in quanto prevedono l’intervento dell’autorità giudiziaria, tant’è vero che, è previsto il ricorso al Tribunale da parte di ciascun condomino, allorquando l’amministratore non comunica all’assemblea i provvedimenti dell’autorità amministrativa o citazioni che esulano dalle sue attribuzioni (art. 1131 c.c.) ovvero in caso di omessa rendicontazione o gravi irregolarità. In particolare, la norma di cui all’art. 1129 c.c., viene riconosciuta come ad una tipica norma a fattispecie aperta che, appunto, non esaurisce tutte le possibili ipotesi di gravi irregolarità, ed è in tal senso che appare pienamente operante il principio della cd. mala gestio, mutuato appunto dalle norme sul mandato che, come abbiamo avuto modo di verificare, risultano applicabili anche alla figura dell’amministratore di condominio“.

Revoca giudiziale dell’amministratore: la decisione del Tribunale di Treviso

Pertanto, in seguito al dibattimento tra le due parti, il Tribunale di Treviso ha evidenziato che l’amministratore aveva invitato i condomini interessati a rimuovere le tende precedentemente installate: fatto questo che esclude la mancata attuazione della delibera assembleare da parte dell’amministratore. In tal caso, la giurisprudenza di legittimità è chiara, e infatti “l’amministratore non necessita di alcuna previa delibera assembleare per agire in giudizio nei confronti dei condomini responsabili di violazione al regolamento di condominio” (Cass. civ. Sez. II Sent., 26/06/2006, n. 14735 e, analogamente, in Cass. civ. Sez. II, 25/10/2010, n. 21841). Per quanto riguarda invece il caso in esame è stato ritenuto che l’installazione delle suddette tende era stato il “frutto di una ampia discussione in riunione condominiale e che la decisione era stata presa precedentemente con il consenso di tutti i condomini riuniti in assemblea”.

Pertanto, alla luce di quanto emerso, e soprattutto in virtù del fatto che non è stata riscontrata alcuna violazione dell’art. 1130 comma 1, n.1 c.c., il Tribunale di Treviso ha deciso di rigettare il ricorso della condomina.

 

Rimborso delle spese sostenute dal precedente amministratore: quando spetta e come ottenerlo?

L’ex amministratore che ha anticipato delle spese può richiedere soltanto la restituzione della somma approvata dalla delibera condominiale.

Questo è quanto ha stabilito il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che, con la sentenza del 4 aprile 2016, in merito al tema del rimborso delle spese sostenute dal precedente amministratore, ha sancito che: “In tema di condominio, l’amministratore cessato dall’incarico che sostiene di aver anticipato delle spese, non è legittimato a richiedere l’intero credito ma solo quello risultante dal suo estratto conto approvato con la delibera condominiale. Ne consegue che, in assenza di delegazione di pagamento precisa, deve essere revocato il decreto ingiuntivo proposto dall’ex amministratore pur in presenza di una delibera che approva il debito del condominio”.

Rimborso delle spese sostenute dal precedente amministratore: Il caso e la sentenza

Ma entriamo nello specifico, cercando di capire cosa era successo prima che si arrivasse alla sentenza del Tribunale: un ex amministratore di condominio aveva richiesto al giudice il pagamento, in suo favore, di una somma che riteneva di aver anticipato nel corso della sua precedente attività di amministrazione condominiale. Tale somma, inoltre, era comprovata da una delibera che aveva accettato il rendiconto. Dello stesso avviso, però, non era il condominio, che pertanto ha deciso di opporsi a tale richiesta di risarcimento.

Per questo motivo il condominio si è appellato alle leggi sul potere di spesa dell’amministratore che, salvo quanto previsto dagli articoli 1130 e 1135 del c.c., in tema di lavori urgenti egli non quasi alcun potere di spesa, “in quanto spetta all’assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l’opportunità delle spese sostenute dall’amministratore; ne consegue che, in assenza di una deliberazione dell’assemblea, l’amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute, perché, pur essendo il rapporto tra l’amministratore e i condomini inquadrabile nella figura del mandato, il principio dell’articolo 1720 del c.c., secondo cui il mandante è tenuto a rimborsare le spese anticipate dal mandatario, deve essere coordinato con quelli in materia di condominio, secondo i quali il credito dell’amministratore non può considerarsi liquido né esigibile senza un preventivo controllo da parte dell’assemblea. Quindi, Per poter richiedere il rimborso delle anticipazioni sostenute per l’amministrazione di un fabbricato è necessario, in primo luogo, farsi legittimare dall’assemblea nella carica di amministratore; in secondo luogo, sottoporre all’approvazione dei condomini il regolamento e le tabelle millesimali; infine, far approvare dall’assemblea le voci di spesa. (Cass. Sentenza 20 agosto 2014, n. 18084Cass. Sentenza 27 gennaio 2012, n. 1224)“.

Rimborso delle spese sostenute dal precedente amministratore: può essere restituito soltanto quanto approvato dall’assemblea

Ciò è avvenuto perché l’assemblea dei condomini ha il potere di approvare l’operato dell’amministratore che abbia effettuato spese di manutenzione ordinaria o straordinaria sulle parti comuni senza la preventiva approvazione, anche dopo che questi ha cessato il suo mandato; in questo modo, non basta assolutamente che dal rendiconto approvato emerga un disavanzo tale da far risultare il condominio debitore nei confronti dell’ex amministratore, a meno che questi non riesca a provare in maniera inequivocabile che quanto ha anticipato è più di quanto il condominio voglia far credere (Tribunale di Roma del 17 aprile 2014Cassazione Civ. n. 10253/2011).

Infatti, “in materia di deliberazione assembleare condominiale, l’approvazione di un rendiconto, ha valore di riconoscimento di debito solo in relazione alle sole poste passive specificamente indicate (entrate, uscite e saldo finale); quindi, poiché il credito per recupero delle somme, si fonda sull’articolo 1720 c.c., sul contratto di mandato con rappresentanza che intercorre con i condomini, come chiarito dalla citata giurisprudenza, il professionista deve fornire la prova degli esborsi mediante un rendiconto del proprio operato”.

Rimborso delle spese sostenute dall’amministratore precedente: la delibera assembleare non discute

Cerchiamo quindi di capire qual è stato il ragionamento che ha portato il giudice del del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ad emettere questa sentenza

Dalla documentazione ufficiale dei fatti, è risultato che l’assemblea aveva approvato il rendiconto presentato dal precedente amministratore; inoltre, veniva anche provato che il rendiconto (non impugnato) rendeva incontestabile la registrazione tra i debiti del bilancio della voce relativa alle somme indicate a titolo di restituzione delle anticipazioni eseguite dall’ex amministratore. Perché allora, secondo il giudice, l’amministratore non poteva e non doveva pretendere il risarcimento di determinate somme?

Secondo il Tribunale, dalle dichiarazioni prese in esame, non emergeva alcun obbligo di risarcimento risultante dal rendiconto approvato.  Inoltre, sempre secondo il parere del giudice, tale mandato non si evinceva né dal verbale né dalla dichiarazione presentata dal condominio. Inoltre, dagli atti presentati, non emergeva alcuna espromissione (non c’era intervento spontaneo di un debito altrui), né tanto meno alcuna delegazione di pagamento.  Per questi motivi, il giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ha stabilito che: “l’approvazione di un rendiconto di gestione condominiale col quale i condomini riconoscono il credito dell’amministratore rende sicuramente incontestabile la registrazione tra i debiti di bilancio della voce relativa alle somme eventualmente indicate a titolo di restituzione delle anticipazioni eseguite dall’amministratore del condominio ma, in assenza di delegazione di pagamento precisa, non impone il pagamento della somma riconosciuta nei confronti di un determinato soggetto. Quindi l’amministratore uscente, che sostiene di aver anticipato delle spese, non è legittimato a richiedere l’intero credito ma solo quello risultante dal suo estratto conto approvato con la delibera condominiale”.

Pertanto, per quanto riguardo il rimborso delle spese sostenute dall’ex amministratore, spetta soltanto il pagamento delle somme risultanti dall’estratto conto approvato col rendiconto.