La legge 220/2012 di riforma del condominio, che prevede di sospendere i servizi di acqua e di riscaldamento, viene applicata in maniera difforme rispetto alle aspettative

Può l’amministratore sospendere i servizi comuni indispensabili se un condomino risulta moroso nei pagamenti? Sì, se la mora nel pagamento dei contributi si protrae per più di sei mesi.
Lo stabilisce l’articolo 63, comma 3, disp. att. cod. civ.,dopo la riforma che è stata introdotta dalla legge 220 dell’11 dicembre 2012, secondo il quale l’amministratore di condominio può sospendere la fruizione dei servizi comuni al condomino che risulta moroso da più di 6 mesi nei pagamenti.

La Sentenza

Questa nuova disposizione è stata considerata, almeno dai primi interpreti, come uno strumento messo a disposizione dell’amministratore per scoraggiare la morosità dei propri condomini attraverso la sospensione dei servizi comuni indispensabili, come ad esempio la fornitura dell’acqua e il riscaldamento.
Ovviamente bisogna sempre tenere conto del fatto che questa sentenza, così come l’ordinanza che viene emessa dal giudice nell’ambito di un procedimento giudiziario, mantiene soltanto uno stretto riferimento al caso specifico oggetto della controversia anche se applica un principio di carattere generale. Ed è proprio per questo motivo che le decisioni apparentemente difformi relative a problematiche con le quali risultano essere fortemente in contrasto, trovano la propria (valida) legittimità. Nella fattispecie, tutto dipende dalle specifiche vicende da cui queste controversie sono nate, e in teoria non hanno costituito, almeno finora, applicazioni contrastanti della stessa norma come invece potrebbe sembrare da una loro lettura superficiale.
Per quanto riguarda invece la sospensione dei servizi ai sensi dell’articolo 63, comma 3, disp. att. cod. civ., va rilevato che al momento le prime applicazioni non si presentano in maniera univoca, come d’altronde si può desumere dall’esame delle decisioni.

Attenti alle sanzioni penali

La problematica della sospensione dei servizi ai sensi dell’articolo 63, comma 3, disp. att. cod. civ., può anche avere delle implicazioni di carattere penale alle quali bisogna prestare la massima attenzione.
Infatti con la sentenza n. 47276 del 5 novembre 2015, la Cassazione penale ha confermato la condanna della Corte di appello che precedentemente aveva dichiarato la responsabilità per il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni sanzionato dall’articolo 392 cod. pen. a carico di colui che, nella sua qualità di gestore di un residence, disattiva la derivazione della corrente elettrica verso l’unità abitativa di un condomino moroso nel pagamento di utenze condominiali”.
Però, secondo la Suprema Corte l’imputato, anche se legalmente non è il rappresentante della società che amministra il condominio, deve lo stesso essere considerato come il gestore di quest’ultimo nel momento in cui questi agisce in maniera costante per conto della suddetta società e si premura direttamente di pagare le spese condominiali e le utenze elettriche.

Condominio: sulle controversie riguardanti il parcheggio nel vialetto dell’edificio decide il tribunale

Al Giudice di Pace spetta la lite sulla modalità del diritto, ma sarà quello togato ad intervenire sulle controversie riguardanti il diritto di parcheggiare al di fuori dei posti auto riservati.

A partire dall’11 febbraio 2016, è compito del tribunale intervenire sulle controversie tra condomini, qualora qualcuno di essi volesse impedire agli altri di parcheggiare nel vialetto dell’edificio, sostenendo che questo sia un bene comune e non proprio. Infatti, riguardando la lite un esercizio tout court del diritto e non una sua semplice modalità, non può spettare al Giudice di Pace.

La Sentenza

Questo è quanto ha stabilito l’ordinanza 2751/16 dell’11 febbraio emessa dalla sezione civile della Cassazione.

Uso improprio: “Sbaglia il tribunale a declinare la sua competenza in favore del magistrato onorario sul rilievo che per «consolidata giurisprudenza» le cause relative alle modalità d’uso dei servizi condominiali, rimesse ex articolo 7 Cpc, alla competenza del giudice di pace, sono quelle riguardanti i limiti qualitativi d’esercizio delle facoltà inerenti alla comunione, come sarebbe nel caso di specie. E l’errore non sta nel riferimento alle pregresse sentenze della Suprema corte, che è corretto, ma nella qualificazione della controversia: i condomini, infatti, litigano perché uno di loro si ostina a parcheggiare nel vialetto del comprensorio residenziale, mentre gli altri sostengono che si tratti di un abuso del bene comune perché il posteggio della vettura avviene al di fuori degli appositi posti auto. L’uso improprio risulta sanzionabile ex articolo 1102 Cc e il condomino che lascia l’auto in sosta nel vialetto invece che nello spazio assegnatogli impedisce un pari uso del vialetto agli altri proprietari esclusivi. La causa, insomma, non riguarda le modalità, quantitative o qualitative, di un diritto ma investe radicalmente il diritto del condomino a posteggiare la macchina. Le parti sono rimessa dinanzi al Tribunale”.

La revoca dell’amministratore non è automatica

L’amministratore di condominio, anche se sollevato dal suo incarico, è tenuto a convocare l’assemblea per la discussione in merito al rendiconto di gestione entro e non oltre centottanta giorni dalla chiusura del suo esercizio. In caso contrario commetterebbe una gravissima irregolarità.

Il Caso

Però, secondo il Tribunale di Mantova, in merito alla sentenza del 22 ottobre 2015, “a questa irregolarità non corrisponde un dovere del giudice, cui viene chiesta la revoca giudiziale di disporla automaticamente”. Questo è quanto ha deciso un giudice lombardo con un decreto del 22 ottobre 2015, secondo il quale “La pronuncia in esame si pone in sostanziale contrasto con quella giurisprudenza si era già dato conto in passato e secondo la quale, invece, basta sforare il termine imposto dalla legge per poter addivenire alla revoca del mandatario”.
La decisione del Tribunale di Mantova si fonda comunque su un’interpretazione letterale dell’articolo 1120 del Codice civile che, secondo il pensiero di questo giudice, non impone alcun automatismo.

La Sentenza

Prima però di entrare nel vivo della questione è comunque utile specifica che “che le gravi irregolarità specificamente menzionate nel Codice civile e di cui può macchiarsi l’amministratore di condominio nel corso della sua gestione rappresentano semplicemente un’elencazione esemplificativa; sul punto gli addetti ai lavori non hanno dubbi. A ben leggere le norme che regolano le ipotesi di revoca giudiziale per gravi irregolarità della gestione, poi, non esiste uno specifico riferimento all’irregolarità consistente nella presentazione del rendiconto dopo centottanta giorni dalla chiusura dell’esercizio, essendo la stessa desumibile da una lettura coordinata degli articoli 1129 e 1130 n. 10 del Codice civile. Ad ogni buon conto nelle prime applicazioni di queste norme si stava affacciando nella aule giudiziarie la tesi che ricollegava allo sforamento del predetto termine l’obbligo per il giudice di decretare la revocare dell’amministratore condominiale ritardatario (si veda il Tribunale di Taranto 21 settembre 2015 e il Tribunale di Udine 25 marzo 2014). Eppure questa tesi non era unanime e non convinceva tutti: l’irregolarità anche se tra quelle tipizzate dal legislatore deve sempre comportare un concreto pregiudizio per condurre alla revoca dell’amministratore, si diceva”.
E questo è infatti quello che da decretato il Tribunale di Mantova il 22 ottobre 2015 quando, per il collegio giudicante, la legge fino ad allora non aveva imposto alcun obbligo di revoca. Nella fattispecie, andando a vedere l’articolo 1129 del Codice civile si specifica che “la revoca dell’amministratore «può» e non «deve» essere disposta dall’Autorità Giudiziaria, nel caso di gravi irregolarità nella gestione, spettando al magistrato adito un potere di valutazione in concreto dell’effettivo pregiudizio arrecato dal comportamento dell’amministratore; pregiudizio che deve essere dimostrato da chi agisce per ottenere la revoca. Insomma facoltà e non obbligo di revoca, con la conseguenza che la presentazione tardiva del rendiconto all’assemblea rispetto ai termini indicati dalla legge non è di per sé elemento sufficiente a ottenere la revoca giudiziale dell’amministratore”.

Mediazione e decreto ingiuntivo al condomino moroso

Quando il Giudice rileva “l’improcedibilità del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di spese condominiali, a causa della mancanza della procedura di mediazione, grava sul condomino che si opponga al decreto ingiuntivo l’onere di instaurare la mediazione, pena l’estinzione del giudizio di opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo”.

Il Caso

Questo è principio che il Tribunale di Milano ha affermato con la sentenza n.13870 del 9 dicembre 2015 nel caso in cui un condominio ha chiesto ed è riuscito ad ottenere un decreto ingiuntivo (immediatamente esecutivo) nei confronti di un condomino che è risultato moroso nei pagamenti e questi, a sua volta, ha presentato successivamente un’opposizione. In questo caso il giudice ha respinto l’istanza di sospensione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo presentata dal condomino, mentre ha ritenuto necessario ricorrere ad un tentativo di mediazione ai sensi dell’articolo 5 del Dlgs 28/2010, essendo la materia condominiale una tra quelle in cui tale procedura è assolutamente obbligatoria.
In poche parole, il giudice, come d’altronde risulta essere previsto dal legislatore, aveva deciso di concedere alle parti un termine per esperire la mediazione. Solo in un secondo momento, dopo che né il condominio né il condomino avevano ottemperato alla richiesta del giudice, questi ha rilevato l’improcedibilità della causa di opposizione del condomino moroso, dichiarando così estinta l’opposizione e confermando quindi il decreto ingiuntivo.

La Sentenza

Tale decisione rappresenta un ulteriore tassello che è andato ad aggiungersi all’”elaborazione giurisprudenziale” di un tema che, soprattutto negli ultimi tempi, ha impegnato tantissimo gli interpreti e gli operatori del diritto. Infatti il Dlgs 28/2010 nonostante disponga la mediazione obbligatoria in materia di condominio, al contempo la esclude “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”. Ciò significa che un condominio è libero di agire con un ricorso per ingiunzione nei confronti del condomino moroso, che però, a sua volta, può farvi opposizione entro e non oltre 40 giorni dalla ricezione della notifica del decreto, chiedendo la sospensione della provvisoria esecutorietà (come prevede la legge) qualora ne sussistessero i requisiti.
Poi, una volta esaurita questa fase, termina una volta e per tutte l’efficacia “dell’esenzione dall’obbligo di esperire la mediazione” che dovrà quindi essere attivata. A questo punto, a chi tocca l’onere di attivazione? Al condominio, convenuto nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, ma in ogni caso “attore sostanziale” della diatriba, o al condomino “attore principale” nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ma “convenuto in senso sostanziale”?
Allineandosi ad una recente pronuncia della Cassazione (la 24629/2015), il Tribunale di Milano ha affermato che “grava sul condomino che si è opposto al decreto ingiuntivo promuovere la mediazione obbligatoria. È infatti il condomino che ha interesse a opporsi al decreto ingiuntivo per vederlo revocato all’esito del giudizio di opposizione, sicché è anche suo interesse che tale giudizio non si estingua. Per evitare tale estinzione, dunque, sarà il condomino a doversi fare parte diligente e promuovere il tentativo di mediazione nel termine assegnato”.

Rimborsi per il condomino? Solo se vi è la prova che si tratta di spese urgenti

Con una sentenza emessa il 30 dicembre 2015, il Tribunale di Caltanissetta ribadisce che, a meno che non si fornisca la prova che quelle effettuate da comproprietario siano spese urgenti, il condominio non è tenuto ad emettere alcun rimborso.

Il caso

Questo è il risultato al quale si è giunti dopo una controversia intercorsa tra la Regione Sicilia e altri comproprietari di un edificio, dopo che l’Ente Pubblico aveva citato in giudizio gli altri condomini chiedendo la condanna al pagamento di 57 mila euro come rimborso per i lavori di risanamento di un edificio, che la stessa Regione Sicilia aveva affidato ad un’impresa.

La sentenza

Ciò che il Tribunale di Caltanissetta ha stabilito è che “la controversia si inquadra nell’articolo 1134 del Codice civile, per il quale non ha diritto al rimborso il singolo condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza l’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea, salvo che si tratti di spesa urgente. Si tratta di una norma che si giustifica – osserva il giudice, citando la sentenza 7181/1997 della Corte supremacon l’esigenza di evitare dannose interferenze nella gestione delle parti comuni. Infatti, «la presenza normale e spesso obbligatoria di un organo amministrativo stabile» limita necessariamente i poteri del singolo condomino; tant’è che, se non ricorre l’urgenza della spesa, il comproprietario – prosegue il giudice nisseno, richiamando Cassazione 9629/1994non può neppure «invocare l’applicazione della normativa in tema di utile gestione o di arricchimento senza causa». Il Tribunale osserva quindi che sussiste l’urgenza quando è necessario evitare che la cosa comune arrechi un danno ragionevolmente imminente a persone o cose; oppure quando occorre restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità. Così – chiarisce il giudice -, se cadono calcinacci da un cornicione, l’amministratore avrà l’obbligo di far rimuovere tutti gli elementi pericolanti, ma non sarà tenuto a chiamare una ditta per eseguire i lavori di ristrutturazione. In ogni caso, incombe sul condomino che chiede il rimborso l’onere di dimostrare di aver sostenuto la spesa in via d’urgenza e senza aver potuto avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condòmini”.
Ma andando a vedere nello specifico il caso preso in esame, già un anno prima che venissero realizzati i lavori in questione, i Vigili del Fuoco avevano provveduto a rimuovere le parti pericolanti, eliminando tutti i pericoli imminenti. Inoltre, sempre secondo il Tribunale, il tempo impiegato per portare a compimento questa procedura (ovvero assegnazione e consegna dei lavori) conferma che la Regione, in questo caso, avrebbe potuto utilizzare anche una minima parte di quel tempo per chiedere all’assemblea dei condomini, o per lo meno all’amministratore di condominio, l’autorizzazione ad intervenire.
Ecco perché la sentenza stabilisce che bisogna negare “in radice la sussistenza del carattere “urgente” delle spese effettuate dalla Regione”. Cosa, quest’ultima, che impone di escludere il diritto al rimborso richiesto.
Inoltre, sempre secondo il giudice del Tribunale di Caltanissetta, anche se al momento della consegna dei lavori l’amministratore di condominio era presente, non ha alcuna valenza come autorizzazione implicita, poiché egli “non ha alcun potere deliberativo in ordine a spese straordinarie non urgenti”.
Per cui, spinto da queste motivazioni, il giudice ha deciso di condannare la Regione Sicilia al pagamento delle spese di lite, per un totale di 8.700 euro.

Superi la tollerabilità dei rumori? Lo decideranno anche gli abitanti dei condomini limitrofi

Anche gli abitanti dei condomini limitrofi possono presentare un esposto in questura per denunciare il superamento della tollerabilità dei rumori. E sì, possono farlo anche se il loro appartamento non si trova nello stesso edificio ma in uno che si trova nelle vicinanze.ù

Il caso

Adesso, il superamento della normale tollerabilità dei rumori che provengono da un appartamento può essere testimoniato anche da altri condomini senza dove necessariamente nominare un Ctu. La deposizione non è invalidata dal fatto che i singoli testi abbiano presentato un esposto in Questura in merito al problema. Infatti, l’unica cosa rilevante è che la loro abitazione si trovi in un posto diverso da quello in cui vive chi lamenta il fastidio.
Questo è quanto ha espresso la dalla seconda sezione civile della Cassazione con la sentenza 2864/16  che ha respinto il ricorso di una donna condannata a risarcire a un’altra condomina i danni cagionati da immissioni rumorose.
La donna, in particolare, ha ritenuto che la decisione dei giudici fosse illecita perché era fondata su testimonianze vertenti su apprezzamenti e valutazioni circa l’intollerabilità dei rumori e non su una consulenza tecnica. Inoltre, entrambe le donne avrebbero dovuto essere, sempre secondo la condannata, dichiarate incapaci di deporre dato che avevano già presentato un esposto in Questura sullo stesso identico argomento, e che avevano mostrato un interesse che avrebbe in qualche modo potuto legittimare la loro stessa partecipazione al giudizio. Inoltre, sempre secondo la donna incriminata , i giudici avrebbero riconosciuto il risarcimento all’altra donna anche se questa non aveva in realtà presentato alcuna prova della lesione subita dai rumori dell’incriminata.

La Sentenza

Nella fattispecie, la Cassazione, nel confermare le pronunce di merito, ha stabilito che “l’entità delle immissioni rumorose e il superamento del limite della normale tollerabilità può essere «oggetto di deposizione testimoniale», spettando poi al giudice valutare l’attendibilità e la congruità delle dichiarazioni rese”. Per quanto riguarda invece la presunta incapacità a testimoniare il collegio di legittimità ha chiarito che “l’interesse che può determinare l’esclusione dalla lista testi sussiste solo nel caso in cui gli appartamenti abitati da chi depone si trovino nella medesima posizione di quello dell’attrice, così come irrilevante deve ritenersi la presentazione dell’esposto in Questura”.
Infine – ha concluso la Cassazione – nessuna censura può essere mossa in relazione alla condanna al risarcimento del danno dal momento che quando viene accertata la non tollerabilità delle immissioni «l’esistenza del danno è in re ipsa» e il vicino ha diritto a ottenere un ristoro fino a quando non vengano eliminate”.

Cosa succede se il contraddittorio da integrare a tutti i condomini dissenzienti che hanno impugnato la delibera finisce in appello?

Ecco alcune delle parti di una causa inscindibile, in cui i proprietari esclusivi hanno deciso di agire per invalidare la decisione sulle opere da realizzare nelle parti comuni, come per esempio la trasformazione in parcheggi di alcuni spazi dell’edificio.

Il caso

Quando, all’interno di un condominio, la controversia instaurata da una pluralità di condomini dissenzienti che intendono invalidare una delibera dell’assemblea riguardante l’esecuzione di opere su parti comuni dell’edifico finisce in appello, basta che vi ricorra anche un solo condomino, spetta al giudice territoriale, ai sensi dell’articolo 331 Cpc, a disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, essendo essi parti di una causa inscindibile.

La sentenza

Infatti “in tema di impugnazioni, il litisconsorzio processuale – che determina una inscindibilità delle cause anche in ipotesi in cui non sussisterebbe il litisconsorzio necessario di natura sostanziale – ricorre allorché la presenza di più parti nel giudizio di primo grado deve necessariamente persistere in sede di impugnazione, al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio”. Lo ha sancito la sentenza 2859 del 12 febbraio 2016 della seconda sezione civile della Cassazione.

Precedenti

Recentemente, per esempio, La Suprema corte ha accolto il ricorso di un condominio per il quale la Corte d’appello di Cagliari aveva annullato una delibera relativa alla trasformazione in parcheggio dello spazio condominiale antistante l’ingresso delle cantine-garage di proprietà esclusiva di due condomini.
Proprio questi condomini hanno citato in giudizio il condominio in questione chiedendo che tale delibera fosse dichiarata nulla perché lesiva del loro diritto di proprietà oltre che adottata a maggioranza e non all’unanimità come invece avrebbe dovuto essere.

Il tribunale di Cagliari aveva però deciso di rigettare la domanda iniziale ritenendo comunque valido l’atto. Però uno dei due condomini dell’edifico ha deciso di rivolgersi alla Corte d’appello che comunque non ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro. Per questo motivo la sentenza va annullata e rinviata ad altra sezione della stessa Corte d’appello che adesso dovrà provvedere ad integrare il contraddittorio come la norma prevede.

L’Amministratore che non presenta il bilancio entro 6 mesi è soggetto a revoca.

Commette grave irregolarità nella gestione del condominio, l’amministratore che presenta il rendiconto della gestione oltre il termine di 180 giorni previsto dall’articolo 1130 n. 10 del Codice civile, anche se l’assemblea approva il bilancio.

Questo documento, inoltre, non può assumere carattere pluriennale ma deve riguardare singole annualità, dovendosi in caso contrario considerare nulla la delibera di approvazione di un unico rendiconto riguardante più annualità di gestione.

Questo, in sintesi, quanto stabilito dal Tribunale di Taranto, il 21 settembre 2015 , con un decreto reso in seguito alla presentazione di un ricorso per revoca giudiziale dell’amministratore condominiale.

Il caso 

L’amministratore di un condominio presentava all’assemblea oltre i termini stabiliti dalla legge, per la loro approvazione, i rendiconti di gestione di due annualità sotto forma di un unico documento cumulativo. In una prima circostanza i condòmini non si esprimevano sulla rendicontazione che, invece, veniva approvata successivamente alla proposizione del ricorso per la revoca dell’amministratore.

Il Tribunale di Taranto, quindi, ha stabilito che la condotta dell’amministratore raffigurasse un caso tipico di grave irregolarità nella gestione cui doveva seguire la revoca giudiziale, così come previsto dall’articolo 1129 del codice civile. Per l’ufficio giudiziario pugliese non ha alcun valore l’approvazione tardiva da parte dell’assemblea. Tale presa di posizione è motivata in base alla circostanza che il ricorso per la revoca può essere presentato da ciascun condòmino, singolarmente considerato, al di là dell’eventuale approvazione assembleare; approvazione che non fa venire meno la gravità della violazione nella tempistica di presentazione del rendiconto di gestione.

La sentenza 

In sostanza, per il tribunale jonico la mera violazione della tempistica inerente la presentazione del rendiconto, vale a dire centottanta giorni dalla data di chiusura dell’esercizio di riferimento (così come previsto dal combinato disposto degli articoli 1129-1130 del Codice civile) è di per se sola circostanza utile a poter decretare la revoca giudiziale dell’incarico (in senso conforme anche il Tribunale di Udine con la sentenza del 25 marzo 2015).

I precedenti

Si tratta di una decisione che pare porsi in parziale contrasto con altra decisione di merito resa nel mese di maggio dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (decreto depositato il 28 maggio 2015). In quell’occasione il collegio giudicante ritenne che l’inosservanza di una delle disposizioni integranti gravi irregolarità – esemplificativamente elencate nell’articolo 1129, dodicesimo comma, del Codice civile – non comportasse l’automatica configurazione di un’ipotesi di revoca, a maggior ragione in presenza di un avallo di quella condotta da parte dell’assemblea. Motivo? Secondo quel tribunale il venir meno del rapporto di fiducia tra amministratore e condòmini dev’essere sempre oggetto di valutazione in concreto, così come concreto dev’essere il pregiudizio derivante dalla violazione d’una ipotesi esemplificativa di grave irregolarità.

Nel decreto reso il 21 settembre 2015, poi, il Tribunale di Taranto si è spinto oltre la mera questione dell’irregolarità per tardiva presentazione del rendiconto, affermando che configura un’ipotesi di nullità (e non di semplice annullabilità) della delibera l’approvazione di un rendiconto pluriennale in quanto contraria alla regola della necessaria annualità. Sul punto, tuttavia, è necessario svolgere alcune considerazioni. Sebbene sia innegabile la dimensione annuale dell’esercizio di gestione di un condominio, è altrettanto innegabile la continuità temporale della gestione economica. Per valutare l’illegittimità di un rendiconto pluriennale, quindi, sarebbe sempre necessario considerare la concreta composizione di questo documento contabile, che è formato da più documenti.

 

L’invalidità della delibera di approvazione dev’essere quindi sempre valutata in relazione alla concreta modalità di rendicontazione adottata dall’amministratore. Presentare un unico rendiconto che, tuttavia, al suo interno contenga ben distinte e separate le prospettazioni contabili degli anni cui si riferisce, è cosa differente dalla presentazione di un unicum indistinguibile.

Amministratore condannato per la caduta di calcinacci dalla facciata

Non contano assemblee deserte e scarse risorse: chi rappresenta l’ente di gestione è in posizione di garanzia per legge e deve intervenire sugli effetti e non sulle cause della rovina per proteggere i terzi

In tema di condominio se la facciata è malmessa e da essa cadono calcinacci che possono determinare un pericolo per l’incolumità di terzi è compito dell’amministratore attivarsi e rimuovere tale situazione di pericolo rivestendo una particolare posizione di garanzia. In caso contrario egli sarà responsabile per l’evento che provocherà danni.  «La responsabilità penale dell’amministratore di condominio va ricondotta nell’ambito della disposizione (articolo 40, comma 2, Cp) per la quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo». Quindi «l’amministratore di condominio in quanto tale assume, dunque, una posizione di garanzia ope legis che discende dal potere attribuitogli dalle norme civilistiche di compiere atti di manutenzione e gestione delle cose comuni e di compiere atti di amministrazione straordinaria anche in assenza di deliberazioni della assemblea. Da ciò quindi consegue la responsabilità per omessa rimozione del pericolo cui si espone l’incolumità di pubblica di chiunque acceda in quei luoghi, e per l’eventuale evento dannoso che è derivato causalmente dalla situazione di pericolo proveniente dalla scarsa o tardiva manutenzione dell’immobile». Lo ha sancito la Cassazione sentenza 46385 del 23 novembre 2015 della quarta sezione penale che ha rigettato il ricorso di un amministratore di condominio ritenuto responsabile dal tribunale di Nola per il reato previsto agli articoli 40 e 590 Cp per non aver impedito, pur avendo l’obbligo giuridico, che calcinacci caduti dalla facciata di un palazzo, cadessero e colpissero un ragazzino provocandogli lesioni. Non serve a scriminarlo l’aver affermato e provato che le assemblee condominiali sono spesso andate deserte e che, essendo i condomini morosi, non vi era un fondo per eseguire i lavori. In casi come questi, spiega il collegio, l’amministratore, per non incorrere in condanne penali deve «intervenire sugli effetti anziché sulla causa della rovina, ovverossia prevenire la specifica situazione di pericolo interdicendo – ove ciò sia possibile – l’accesso o il transito nelle zone pericolanti». Bastava quindi transennare la zona pericolante e non ci sarebbe stata alcuna condanna.

È il condominio e non il proprietario a pagare i lavori al piazzale che pure fa da copertura al garage

Sono a carico del condominio le spese relative al rifacimento del piazzale di uso pubblico, non potendo gravare tale onere in misura preponderante sul proprietario dell’autorimessa, laddove il piazzale funge da copertura al locale sottostante. A stabilirlo è la Corte d’appello di Roma con la sentenza 1732/15, pubblicata dalla quarta sezione civile.
Con la pronuncia, il giudice capitolino respinge l’appello di un supercondominio che, con delibera assembleare, aveva stabilito che le spese di rifacimento del piazzale fossero poste a carico dei proprietari di un’autorimessa sottostante nella misura dei due terzi. Questi ultimi si opponevano alla decisione, ritenendo che l’accollo della spesa spettasse al supercondominio, non potendo addebitarsi loro la responsabilità, posto che la pavimentazione si usurava principalmente a causa del passaggio pubblico. L’appello del supercondominio non è fondato. Con la delibera impugnata, l’assemblea condominiale aveva ripartito la spesa per gli interventi ponendo nella misura dei due terzi la spesa cui dovevano provvedere gli appellati, ma la previsione è sbagliata perché destinata a distribuire gli oneri riguardanti i lastrici solari di uso esclusivo.
Il criterio non può applicarsi al caso in esame perché il piazzale che dà accesso al condominio è posto a livello stradale e, come da regolamento, è destinato al passaggio pubblico, quindi soggetto a un più rapido deterioramento rispetto al lastrico. La Corte romana ricorda che «qualora si debba procedere alla riparazione del cortile o viale d’accesso all’edificio condominiale, che funga anche da copertura per i locali sotterranei di proprietà esclusiva di un singolo condomino, ai fini della ripartizione delle relative spese non si può ricorrere ai criteri previsti dall’articolo 1126 Cc, ma si deve, invece, procedere ad un’applicazione analogica dell’articolo 1125 Cc, il quale accolla per intero le spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa identificantesi con il pavimento del piano superiore a chi con l’uso esclusivo della stessa determina la necessità della inerente manutenzione, in tal senso verificandosi un’applicazione particolare del principio generale dettato dall’articolo 1123, secondo comma, Cc». In questo caso, la manutenzione del piazzale, anche se lo stesso funge da copertura all’autorimessa, non può gravare sugli appellati in misura così preponderante. Pertanto, l’appello va respinto.