La domanda di mediazione stoppa la decadenza per impugnare la delibera quando è nota alle parti

Il termine a disposizione del condomino può essere bloccato una volta sola ed è escluso che la mera presentazione dell’istanza faccia scattare la sospensione: il dlgs 28/2010 non richiama l’articolo 2943 Cc

La domanda di mediazione civile blocca il decorso del termine di decadenza per impugnare la delibera adottata dall’assemblea di condominio. Ma lo fa una sola volta e la sospensione scatta dal momento di comunicazione alle parti della domanda e non dal giorno della sua presentazione. È quanto emerge dalla Sentenza 4951/15, pubblicata dalla sezione civile del tribunale di Palermo.

Scadenza perentoria
Inammissibile l’impugnazione. L’articolo 5 del decreto legislativo 28/2010 stabilisce che «dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale», aggiungendo che, «dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo». Dal canto suo l’articolo 1137, comma 2, Cc dispone che «contro le deliberazione contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. L’articolo 5 del decreto legislativo 28/2010 non richiama l’articolo 2943 Cc. Nella specie la comunicazione dell’istanza di mediazione proposta ex adverso era pervenuta in data 26 giugno, vale a dire dopo ventotto giorni da quando parte attrice aveva ricevuto il verbale relativo alle delibere impugnate: quest’ultima avrebbe dovuto iscrivere la causa a ruolo entro i due giorni rimanenti per promuovere l’azione giudiziaria, quindi entro il 19 settembre, e non un mese dopo la scadenza perentoria. Spese di lite compensate per la novità della materia.

Il condomino che si oppone all’ingiunzione non può eccepire la nullità della delibera sulle spese

Il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante efficacia della decisione sul riparto, la cui validità può essere accertata solo in un’altra causa: la legge favorisce i provvedimenti anti-morosi

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il condomino destinatario del provvedimento monitorio ottenuto dall’amministratore non può ottenere che si accerti se è nulla o meno la delibera in forza della quale gli si impone di pagare le spese all’ente di gestione. E ciò perché in quella sede il giudice deve accertare soltanto se la decisione dell’assemblea che ripartisce le spese risulta ancora efficace, mentre la questione della nullità o annullabilità della delibera risulta riservata a un autonomo giudizio da attivare ex articolo 1137 Cc.  È quanto emerge dalla Sentenza 1458/15, pubblicata giorni fa dalla terza sezione civile del tribunale di Verona.

Scale in rifacimento, il condòmino cade ma il condominio non risarcisce i danni

Scale in rifacimento, il condòmino cade ma il condominio non risarcisce i danni. Sent. (Cassazione 17199/2015)

Se nel condominio ci sono dei lavori in corso e il condomino che abita nello stabile conosce i pericoli, non viene risarcito dal condominio se cade non avendo usato la dovuta prudenza. La Cassazione (sentenza 17199, 27 Agosto 2015) respinge il ricorso di una signora caduta sul pianerottolo mentre rientrava dalla spesa con due buste pesanti, che gli impedivano di avere l’equilibrio richiesto dalla situazione di precarietà del pavimento, dal quale erano state tolte le mattonelle. Per i giudici la ricorrente, affrontava una situazione che le era nota, i cui rischi andavano fronteggiati con una buona dose di prudenza. Nel suo caso la Suprema corte esclude la responsabilità che scatta per il condominio quando il danno è causato da cose in custodia. Per i giudici manca, infatti, il nesso causale con l’evento lavori.

Balconi aggettanti proprietà esclusiva. Cassazione 1156/2015

Soprattutto perché, per la loro struttura, si compongono di una pluralità di elementi (piano di calpestio, soletta, frontalino, sottobalcone, intradossi, eccetera) e assolvono una duplice funzione: costituiscono, infatti, una proiezione esterna dell’appartamento, perché tramite essi il condomino può affacciarsi ed esplicare il suo diritto di veduta, e in questi casi ci si trova di fronte ai balconi «aggettanti» che per loro struttura sono sporgenti dalla facciate e quindi godono di un loro autonomia, perché possono sussistere indipendentemente dall’esistenza di altre tipologie di balconi. E la funzione di essere parte integrante e strutturale della facciata, in quanto rappresentano un elemento decorativo ed estetico dello stabile.

Il tema dei balconi «aggettanti» è stato affrontato dalla Cassazione (sentenza 1156/2015) a seguito di una causa approdata va Giudice di Pace di Avellino, dove viene citato il proprietario per ottenere l’eliminazione delle infiltrazioni derivanti dal balcone di sua proprietà nonché il risarcimento per i danni subiti. Il Giudice accoglie il ricorso e condanna il convenuto. Il soccombente ricorre al Tribunale di Avellino che rigetta le impugnazioni. Avverso detta pronuncia, il ricorrente deduceva il proprio difetto di legittimazione passiva, assumendo che le infiltrazioni lamentate sarebbero dipese dalla cattiva manutenzione di parti del balcone da considerarsi parti comuni.

Dall’analisi della perizia svolta dal Ctu, era emerso che la causa delle infiltrazioni era ascrivibile al «cattivo stato di manutenzione di finitura dell’estradosso delle solette del balcone (…) e dai correntini risultati ammalorati e sconnessi nella pavimentazione divelta e sconnessa in più punti». I Giudici rammentano, che nel caso di specie, trattasi di una particolare tipologia di balcone cosiddetti aggettanti, che costituendo un prolungamento della corrispondente unità immobiliare, sono di proprietà esclusiva del proprietario di questa, dovendosi considerare comuni solo gli elementi decorativi delle parte frontale ed inferiore del manufatto, qualora si inseriscano nella facciata di prospetto dell’edificio (Cassazione, sentenza 6624/2012).

I balconi aggettanti, quindi, costituendo un prolungamento dell’unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario. Ne consegue l’esclusione dalla comproprietà condominiale e la loro appartenenza in via esclusiva ai proprietari delle relative unità abitative. Poiché viene esclusa la presunzione di condominialità, le opere di manutenzione dei balconi medesimi competono ai corrispondenti proprietari. Tuttavia, ogni qual volta si interviene su di essi, per effettuare lavori di manutenzione, occorre preliminarmente discernere la rispettiva valenza strutturale da quella estetica ornamentale – ove sussistente – al fine di individuare esattamente i criteri di riparto della spesa anche tra condòmini.

I balconi «aggettanti» sono in proprietà esclusiva

La tabella millesimale non si modifica solo perché viene usata una nuova ripartizione (Cass. Sent. n. 13296 del 23.06.2015)

I condomini comproprietari di due o più appartamenti che richiedono all’amministratore una nuova modalità di ripartizione delle spese condominiali non per questo intendono richiedere anche una modifica delle tabelle millesimali, anche se l’assemblea ha accettato ed applicato la nuova ripartizione per diversi anni.

Per la revisione delle tabelle millesimali è necessaria una reale consapevolezza dell’assemblea che con un comportamento tacito ma univoco, voglia modificare i valori delle originarie tabelle millesimali, anche se limitatamente ad alcune unità immobiliari.

Sono questi gli interessanti principi contenuti nella motivazione della sentenza n. 13296 del 23 giugno 2015

La vicenda

I comproprietari di due appartamenti di dimensioni diverse e differente caratura millesimale (mm. 9,25 e mm 20,00), su i quali gravava l’usufrutto della madre, richiedevano all’amministratore di suddividere le spese condominiali in parti uguali, ignorando così la tabella millesimale.

Questa richiesta veniva accolta e tacitamente recepita e rispettata dal condominio per diversi anni.

Tuttavia, al momento del decesso dell’usufruttuaria, i figli chiedevano all’amministratore il ripristino dell’originaria distribuzione tabellare.

Secondo l’amministratore del condominio, però, era intervenuta una modifica consensuale della ripartizione millesimale accettata da tutti i condomini: in altre parole gli appartamenti si dovevano considerare ormai di pari quota millesimale.

Di conseguenza in una successiva assemblea lo stesso continuava ad applicare questo criterio, considerando irrilevante la richiesta dei comproprietari che impugnavano le delibere adottate dall’assemblea senza il rispetto dell’originaria tabella.

Le decisioni di merito

Il tribunale di Napoli dava ragione al condominio.

Tale decisione veniva confermata dalla corte di appello della stessa città.

I giudici di secondo grado notavano che a seguito della richiesta rivolta all’amministratore, le delibere e le spese condominiali erano rispettivamente adottate e ripartite per un decennio, considerando le due unità immobiliari con identiche quote di partecipazione al condominio.

Di conseguenza, gli altri condomini avevano aderito o accettato la differente suddivisione con conseguente nascita di un nuovo accordo che aveva modificato le tabelle originarie.

Del resto – gli stessi giudici – rilevavano che la ripartizione in misura paritaria era giustificata dall’intervenuto aumento della originaria superficie di uno dei due appartamenti, nonché dall’opposizione degli acquirenti dell’altra abitazione.

In ogni caso la distinzione fra ripartizione delle spese e modifica delle tabelle millesimali si doveva considerare una distinzione irrilevante.

La posizione della Suprema Corte

La Suprema Corte non ha condiviso il ragionamento contenuto nella sentenza della corte d’appello.

In particolare sottolinea come non sia stato presa in considerazione l’esatta portata della richiesta dei comproprietari che non avevano affatto voluto una modifica delle tabelle ma soltanto una diversa e temporanea modalità di pagamento delle spese condominiali.

Quanto sopra risultava evidente dal fatto che la predetta richiesta è stata rivolta al solo amministratore che è deputato alla riscossione degli oneri condominiali ma non è certo legittimato ad accettare modifiche delle tabelle millesimali, rientranti evidentemente nelle attribuzioni dell’assemblea.

In ogni caso, secondo i giudici supremi, bisognava accertare se l’approvazione delle delibere e la ripartizione dei contributi secondo le indicazioni dei millesimi corrispondessero ad un’effettiva, seppure tacita, volontà degli altri condomini di procedere, anche se limitatamente ai due appartamenti in questione, alla revisione delle tabelle millesimali allegate al regolamento condominiale.

Per compiere questa valutazione sarebbe stato necessario tenere conto, da un lato del contenuto della richiesta rivolta al solo amministratore e del rapporto di parentela esistente fra i comproprietari delle unità immobiliari, dall’altro della totale irrilevanza della nuova modalità di ripartizione delle spese rispetto alla restante parte della collettività condominiale.

In altre parole non si è considerato come la semplice indicazione nei verbali di assemblea dei valori millesimali dei due appartamenti, difforme da quanto previsto nelle tabelle millesimali, per un totale rimasto invariato, non avesse alcun riflesso sui criteri di ripartizione delle spese degli altri condomini.

Soltanto i condòmini possono impugnare delle delibere invalide (Cass. Sez. III, Sent. 28.06.2015, n. 13204)

In caso di delibera annullabile, l’impugnazione spetta ai soli condomini e non anche, per esempio, ai conduttori di un alloggio condominiale, pur essendo interessati dagli effetti della delibera stessa.

In tema di deliberazioni condominiali, debbono qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, nonché quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale.

A ribadirlo è la stessa Corte di cassazione (Sezione III, Sent. 28 giugno 2015, n. 13204) in una recente sentenza che ha in tal modo contribuito a rafforzare l’orientamento espresso ormai un decennio orsono dalle Sezioni Unite (cfr., Cass. civ., S.U. n. 4808/2005). Queste ultime, si ricorda, intervenute per dirimere un conflitto di giurisprudenza, hanno tracciato il confine che separa le delibere nulle da quelle annullabili. In particolare, muovendo dalla distinzione tra vizi gravi, riconducibili alla “sostanza” degli atti e da annoverare quindi nella categoria della nullità, e vizi meno gravi, riconducibili invece a difetti procedimentali o di forma, da ascrivere nella categoria della annullabilità, la Corte ha espressamente qualificato come nulle: le delibere prive degli elementi essenziali; le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume); le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea; le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini; le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto.

Al contrario, debbono qualificarsi annullabili: le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea; le delibere adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale; le delibere affette da vizi formali; le delibere assunte in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea; le delibere genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione; le delibere prese in violazione delle norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all’oggetto.

L’occasione per la riaffermazione del principio è stata offerta alla Cassazione nell’ambito di una controversia relativa al rilascio di un immobile – già adibito ad abitazione del portiere – e concesso in locazione dal Condominio. In particolare, la Corte, ritenendolo infondato, ha rigettato il primo motivo di ricorso proposto dal conduttore il quale lamentava il mancato accoglimento da parte della corte d’appello dell’eccezione di difetto di costituzione del Condominio, osservando che il legale di quest’ultimo risultava essersi costituito in forza di delibera assembleare adottata senza l’osservanza delle maggioranze prescritte dalla legge. Decisiva, a giudizio della Cassazione, in merito alla dedotta questione della contestata validità della delibera, è la considerazione che debbono appunto qualificarsi – non già nulle, tantomeno inesistenti – ma annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, nonché quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale. In tale ipotesi, l’eventuale difetto di quorum costitutivo e deliberativo, conclude la Cassazione, avrebbe dovuto essere fatto valere dai condomini assenti o dissenzienti – e non certo dall’odierna ricorrente, quale terza estranea al Condominio – con l’azione prevista dall’art. 1137 cod. civ. nel termine legale di trenta giorni, risultando, in mancanza, la delibera valida ed efficace nei confronti di tutti i rappresentanti al Condominio.

Il regolamento può delimitare il concetto di «decoro architettonico» Cass.12582 17/06/2015

Con la sentenza numero 12582, depositata in data 17 giugno 2015, la Corte di cassazione stabilisce un importante principio in tema di diritto condominiale in merito alla tutela del decoro architettonico dello stabile.
I fatti che hanno portato alla citata decisione sono i seguenti: due condòmini citavano in giudizio un terzo per avere iniziato dei lavori di ristrutturazione dello stabile, con conseguente modificazione architettonica del palazzo.
Detti lavori di ristrutturazione erano stati autorizzati dal condominio con delibera assembleare.
Di contro, il regolamento condominiale esplicitamente vietava qualsiasi modificazione architettonica dell’edificio.
Occorre precisare che le opere in questione costituivano unicamente una modifica architettonica, ma non recavano alcun pregiudizio all’integrità strutturale del palazzo.
In ragione di detto divieto stabilito dal regolamento condominiale, quindi, i condòmini chiedevano l’eliminazione dei lavori o, in subordine, un risarcimento pecuniario per il danno subìto.
Con la sentenza sopra citata la Cassazione dava ragione ai condòmini procedenti e condannava il terzo che aveva iniziato i lavori di ristrutturazione ad eliminare dette opere.
La Corte di Cassazione nella citata sentenza afferma una serie di importanti principi che chiarificano alcune note problematiche relative alla vita condominiale.
In prima battuta la Corte ribadisce il principio in ragione del quale il regolamento condominiale, in quanto accordo accettato da tutti i condòmini al momento dell’acquisto della casa, è un vero e proprio contratto la cui violazione può comportare la necessità di risarcire il danno.
Tal risarcimento, inoltre, può consistere come in questo caso in una eliminazione delle opere illegittimamente effettuate.
Inoltre la Cassazione ha affermato che tra il regolamento condominiale e la delibera condominiale è il primo che deve prevalere.
Stante il fatto che il regolamento è una vera e propria “costituzione” del condominio, questo pone regole e princìpi che devono essere osservati nelle successive delibere assembleari.
Nel caso di delibera assembleare contraria a regolamento condominiale, quindi, questa potrà essere contestata dai condomini dissenzienti per il contrasto con i principi dello stabile.
E’ importante notare che in questo caso, trattandosi di una nullità della delibera assembleare, il Giudice potrà rilevare d’ufficio l’invalidità, non rilevando la mancata impugnazione della delibera nei termini previsti dall’art. 1137 del Codice Civile.
In conclusione la Cassazione ha stabilito che il condominio ha il diritto di stabilire limiti e regole posti a protezione del decoro architettonico del palazzo.
Queste limitazioni saranno valide purché riguardino esclusivamente le parti comuni e siano realizzate al fine di tutelare i diritti dei condòmini.
In modo del tutto legittimo, quindi, il regolamento condominiale può derogare alle norme di legge (in particolare all’articolo 1120 del Codice Civile) e dare una definizione più rigorosa di decoro architettonico, “estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti al momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva”.
Di conseguenza, fino ad una eventuale modifica del regolamento condominiale, le regole inserite nello stesso a protezione del decoro architettonico del palazzo non potranno essere violate neanche mediante delibera condominiale.

Modalità di pagamento degli oneri condominiali e revoca dell’amministratore

È possibile revocare un amministratore di condominio che rifiuti il pagamento delle rate in contanti da parte dei condomini. Lo ha stabilito dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in applicazione del Decreto del 26 maggio 2015, nella sentenza del 28 maggio 2015.

Il caso. Un condòmino ha citato in giudizio il proprio amministratore chiedendone la revoca per aver rifiutato il pagamento delle quote con danaro contante.

Il Giudice campano ha ritenuto e dichiarato che il rifiuto frapposto dall’amministratore al condòmino ricorrente non integra, sul merito, una condotta irregolare, suscettibile di essere penalizzata con la revoca dall’incarico.
L’accettazione della moneta legale va, in effetti, coordinata con l’evoluzione normativa che, al fine di prevenire e reprimere il riciclaggio di valori ed evasioni discali, ha imposto l’impiego di forme che ne permettano la tracciabilità.
L’articolo 49 del D.Lgvo 231 del 2007, come successivamente modificato anche dal D.Lgvo 169/2012, vieta l’effettuazione di versamenti in danaro contante quando il valore della operazione, oggetto di trasferimento, sia complessivamente pari o superiore all’importo di euro 1.000,00.
Dall’altra parte, nell’ambito del condominio degli edifici, è lo stesso articolo 1129, comma VI codice civile che impone all’amministratore, indipendentemente dal valore della dazione, di fare transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o dai terzi su uno specifico conto corrente bancario o postale intestato alla stessa compagine.
Ora, se astrattamente l’amministratore non è in grado di rifiutare il pagamento delle rate condominiali con danaro contanti, se di valore inferiore al limite legale (per come visto sopra), ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 1206, 1207, 1208 e 1277 codice civile – poiché altrimenti commetterebbe una irregolarità nell’esercizio del mandato (il quale – ebbene rammentarlo – contempla anche l’onere di recuperare i crediti) -, dall’altra parte, questi potrebbe derogare tale principio laddove sia in grado di richiamare un accordo preliminare, in punto, con i propri mandanti.

La sentenza. Nella fattispecie, è stato rilevato che costituiva prassi condominiale procedere alla raccolta delle rate mensili tra i compartecipi mediante impiego della “moneta elettronica”, stante quanto riportato in seno ad una delibera assembleare (datata 24.04.2015 – e quindi, adottata nel corso della pendenza dello stesso procedimento di giurisdizione volontaria).
Sulla scorta di quanto sopra precisato, il Tribunale campano ha respinto il ricorso del condòmino.L’azione di revoca giudiziaria esperita dal ricorrente è risultata, dunque, inammissibile e/o infondata: e ciò, non solo perché difettava della prova sulla recisione del rapporto di fiducia intercorrente con l’amministratore; ma, anche e soprattutto, perché in celava, in realtà (per come snaturate), delle contestazioni afferenti le modalità di gestione del condominio avallata dalla maggioranza assembleare, che, in quanto tale, avrebbe dovuto porsi in altra separata sede.

Verbale valido solo se indica i condomini che votano pro e contro con le relative quote millesimali

Non è valida la delibera condominiale quando il verbale si limita a riportare che «l’assemblea, a maggioranza, ha deciso»: risulta invece necessario indicare i nomi dei proprietari esclusivi favorevoli e contrari alla decisione con le rispettive quote millesimali. È invece escluso lo stop, nonostante la mancata indicazione del totale dei partecipanti all’assemblea, se durante la riunione non si è proceduto ad accertarne il numero, laddove il riscontro risulta comunque possibile. È quanto emerge dalla sentenza 6552/15, pubblicata il 31 marzo dalla seconda sezione civile della Cassazione, secondo cui nel redigere il di verbale di assemblea, bisogna controllare la sussistenza dei quorum prescritti dall’articolo 1136 C.c per le decisioni e, dunque, deve ritenersi necessario indicare nel verbale i condomini intervenuti di persona o per delega indicando i nomi di assenzienti e dissenzienti: se ci sono omissioni in proposito la delibera è annullabile.

Compensi non dichiarati dall’amministratore

Secondo la Cassazione Sez. Tributaria, Sentenza n° 9359 dell’8 maggio 2015, l’applicazione degli studi di settore rappresenta un «sistema di presunzioni semplici» che fanno scattare l’accertamento se il contribuente non giustifica i compensi.

Come difendersi dagli studi di settore.

L’amministrazione finanziaria, per rilevare i parametri fondamentali di reddito dei professionisti, lavoratori autonomi e aziende ha introdotto un sistema di accertamento induttivo realizzato mediante la raccolta sistematica dei dati che caratterizzano l’attività e il contesto economico in cui opera l’impresa/il professionista, al fine di determinare preventivamente la capacità di produrre reddito.

Considerato inizialmente uno strumento di accertamento praticamente infallibile, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 26635 del 2009, ha ridimensionato il campo di applicazione degli studi settore dando la possibilità al contribuente di presentarsi al contraddittorio con l’amministrazione fornendo le prove del suo reddito effettivamente prodotto rispetto a quello previsto dagli studi di settore ottenendo l’annullamento dell’accertamento. Quindi, gli studi di settore rappresentano delle “presunzioni semplici” in quanto costituiscono un sistema “standard” di determinazione del reddito e dunque, per essere provate, vanno sempre corroborate da altri elementi. In particolare, per l’accertamento diventa essenziale in presenza del contraddittorio con la parte.

Il caso. Con sentenza n° 9359 dell’8 maggio 2015, la sezione Tributaria della Corte di Cassazione, ha precisato che la procedura di accertamento mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, caratterizzata dal contraddittorio obbligatorio con il contribuente, costituisce un sistema di presunzioni semplici. Per tali ragioni ha valutato valido l’accertamento basato sugli studi di settore, effettuato a carico dell’amministratore di condominio, sul quale grava il sospetto di compensi in nero da parte dei proprietari dei fabbricati gestiti. Gli standard delle Entrate sono infatti un «sistema di presunzioni semplici» che fanno scattare l’accertamento quando il contribuente non si giustifica nell’ambito del contraddittorio.

Precedenti. Ricordiamo che precedentemente la stessa Corte aveva stabilito, con ordinanza 5 marzo 2013, n. 5473, sempre in tema di accertamento induttivo, che il reddito imponibile dell’amministratore di condominio può essere calcolato dal Fisco sulla base del numero dei condomìni. Nel caso di specie il contribuente non aveva portato in giudizio idonea documentazione atta a dimostrare che il reddito accertato non fosse reale, ma non ha nemmeno indicato i diversi esiti a cui si sarebbe potuto giungere in base a tale documentazione.