Regolamento condominiale che esonera alcuni condomini dal pagamento delle spese

Secondo la Corte di Cassazione – VI sez. civ. – sentenza n. 993 del 14-01-2022 è legittima la clausola del regolamento che, indipendentemente dalla titolarità o meno di una parte comune, esonera alcuni condomini dal pagamento delle spese condominiali di detta parte condominiale.

La vicenda

Un condominio richiedeva ed otteneva un decreto ingiuntivo nei confronti dei proprietari di un garage facente parte del caseggiato per spese relative alla manutenzione straordinaria di un impianto idraulico, delle scale e dell’androne dell’edificio, spese regolarmente approvate con apposita delibera. Gli opponenti sostenevano che, essendo proprietari di un garage ubicato nell’edificio condominiale, non erano tenuti a concorrere nella spesa per le scale e per l’androne, poiché il regolamento contrattuale e la conseguente Tabella II (scale ed androne) esonerava da tali esborsi i proprietari delle botteghe con accesso diretto dalla strada, ai quali dovevano equipararsi anche i titolari dei box. In ogni caso, con domanda riconvenzionale, richiedevano agli altri condomini il pagamento della quota del canone di locazione dell’alloggio adibito a portineria.  Il giudice di Pace dava torto ai titolari del garage. La Corte di Appello, invece, riteneva la predetta delibera assembleare affetta da nullità insanabile e rilevabile d’ufficio nel giudizio di opposizione; di conseguenza accoglieva l’opposizione e revocava il decreto ingiuntivo. In particolare secondo i giudici di secondo grado la delibera era invalida perchè non aveva distinto le spese per l’impianto idraulico (che dovevano indistintamente gravare su tutti i condomini), da quelle per l’abbellimento di scale ed androne che – come prevedeva il regolamento e ai sensi di apposita conseguente tabella – non potevano gravare anche sui proprietari dei garage: infatti l’esonero previsto da detta tabella non si riferiva alle sole spese di pulizia e dell’energia elettrica. In ogni caso la Corte accoglieva pure la domanda riconvenzionale proposta dai titolari del box, in quanto si riconosceva la comproprietà in capo a tutti i condomini dell’alloggio portineria, quindi, il diritto comune e per quote al canone di locazione.

Il condominio ricorreva in cassazione sottolineando la natura condominiale di scale ed androne ed il conseguente obbligo di tutti i condomini (compresi quelli proprietari dei box e dei locali con accesso diretto dalla strada) a concorrere alle spese inerenti a tali beni comuni. Del resto il condominio faceva presente anche la circostanza secondo cui, anche i condomini opponenti, avevano sempre avuto accesso (proprio attraverso l’androne e le scale) ad un terrazzino ove risultavano collocate vasche per la raccolta delle acque.

La questione

È legittima la clausola del regolamento che esonera alcuni condomini dal pagamento delle spese condominiali relative ad androne e scale?

La soluzione

La Cassazione ha dato ragione ai titolari di box. I giudici supremi infatti hanno ricordano come la contitolarità delle parti comuni non comporti necessariamente l’obbligo di concorrere nelle spese, essendo legittime (a date condizioni) eventuali deroghe, in favore di singoli condomini, ai criteri fissati dall’art. 1123 c.c.; in altre parole secondo la Cassazione il fatto che le scale o l’androne appartengano anche ai titolari dei garage non rende inapplicabile o illegittima la previsione del regolamento adottato all’unanimità, nel punto in cui esclude dal concorso nelle spese per l’androne e le scale i proprietari dei garage aventi un accesso autonomo.

Le riflessioni conclusive

La sentenza conferma che i criteri di ripartizione delle spese condominiali, stabiliti dall’art. 1123 c.c., possono essere oggetto di pattuizioni derogative posto che l’adozione di discipline convenzionali, che differenzino gli obblighi di concorrere alle spese di gestione del condominio, non è preclusa dalla natura degli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. fino ad arrivare a prevedere, addirittura, l’esenzione totale o parziale per alcuni condomini dall’obbligo di partecipazione alle spese. Ne consegue che il riparto delle spese inerenti ai beni comuni, è suscettibile di deroga con atto negoziale, e quindi, anche con il regolamento condominiale che abbia natura contrattuale. Deve, pertanto, ritenersi legittima non solo una convenzione che ripartisca tali spese tra i condomini in misura diversa da quella legale, ma anche quella che preveda l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese di una parte o impianto comune. In quest’ultima ipotesi si ha il superamento nei riguardi della suddetta categoria di condomini della presunzione di comproprietà su quella parte del fabbricato. Secondo alcune sentenze di merito però la diversa convenzione deve essere assistita da una causa che la giustifichi (vale a dire che giustifichi il diverso criterio di ripartizione delle spese). Secondo questa tesi, infatti, la derogabilità non può sottrarsi al controllo ed al giudizio di validità propri di qualsiasi atto convenzionale (Trib. Roma 16 febbraio 2021, n. 2786).

Condominio e comunione: disciplina differente tra rispettive delibere

La Corte di Cassazione, con la sentenza 26 gennaio 2022, n. 2299 (testo in calce), ha indicato chiaramente le differenze di disciplina intercorrenti tra le delibere condominiali e quelle assunte dall’assemblea dei comunisti.

Tali differenze scaturiscono dalla diversità tra condominio e comproprietà. A titolo di esempio, nel caso del condominio di edifici, v’è la coesistenza, nel medesimo bene, di enti in signoria esclusiva (i singoli appartamenti) e di beni comuni (scale, androni et cetera; mentre, nella comunione di diritti reali su immobili, il bene è in comproprietà pro indiviso tra tutti i titolari del diritto di proprietà secondo le rispettive quote.

Nel primo caso, i beni comuni sono indivisibili (art. 1119 c.c.) mentre, nel secondo, è ammissibile la divisione del bene comune (art. 1111 c.c.).

Nel condominio, la convocazione, lo svolgimento e la deliberazione sono regolate da norme specifiche e si applica la doppia maggioranza (per teste e per millesimi); nel caso della comproprietà, le delibere sono assunte secondo la maggioranza calcolata solo in base alle quote di comproprietà (art. 1105 c.c.) e la convocazione e lo svolgimento dell’assemblea dei comunisti sono regolate dal principio della libertà di forme.

Tutto ciò premesso, l’istituto dell’eccesso di potere assembleare – previsto in ambito societario (art. 2373 c.c.) – è applicabile solo in relazione alle deliberazioni dell’assemblea del condominio, mentre non opera per le delibere assunte dai comproprietari, stante «l’ontologica diversità delle situazioni afferenti alla comunione del diritto reale di proprietà su un bene immobile ed il condominio negli edifici».

Non è necessario costituire il fondo spese se le opere (urgenti) di manutenzione straordinaria sono state interamente eseguite e l’amministratore ha già provveduto a pagare il corrispettivo dei lavori

La vicenda

La vicenda nasceva a seguito dei lavori di riparazione del lastrico solare di proprietà esclusiva, finalizzati principalmente al ripristino delle condizioni di tenuta dell’impermeabilizzazione di detta copertura. A seguito di tali lavori volti ad eliminare le infiltrazioni negli appartamenti sottostanti, l’amministratore aveva versato all’appaltatore il corrispettivo (a carico del condominio) delle opere di manutenzione straordinaria necessarie a risolvere i problemi sorti. Successivamente l’assemblea, compresa la necessità di intervenire urgentemente sulla copertura del caseggiato, approvava l’intervento di rifacimento del terrazzo, già eseguito, e la relativa spesa, ratificando, così, l’operato dell’amministratore.

Alcuni condomini, però, impugnavano tale delibera, deducendo, fra l’altro, l’illegittimità della stessa per mancanza del carattere di urgenza; in particolare, gli attori ritenevano che la spesa sostenuta fosse voluttuaria e gravosa, con la conseguenza che era obbligatoria la preventiva autorizzazione dell’assemblea e la preventiva istituzione del fondo speciale previsto dall’articolo 1135 c.c.

Il condominio convenuto, costituitosi in giudizio, contestava la fondatezza dell’impugnazione proposta e ne chiedeva il rigetto.

Inoltre, i condomini evidenziavano che l’intervento era stato approvato dall’assemblea che lo aveva qualificato come manutenzione straordinaria e non come innovazione e tale decisione non era stata assolutamente impugnata dagli attori, con conseguente effetto sanante di ogni possibile vizio.

La questione

È necessario costituire il fondo spese anche se le opere di manutenzione straordinaria sono urgenti, i lavori sono già stati saldati dall’amministratore e l’operato di quest’ultimo è stato ratificato dall’assemblea con successiva delibera?

La soluzione

Il Tribunale di Roma, sentenza del 19/6/2017 ha dato ragione al condominio.

Secondo lo stesso giudice, la costituzione del fondo speciale sarebbe stata inutile. Infatti i lavori erano stati già completamente eseguiti e ratificati dall’assemblea, la spesa era già stata sostenuta ed inserita nel consuntivo ed approvata dall’assemblea e, quindi, non sussisteva nessun rischio di una possibile esposizione debitoria del condominio verso il terzo appaltatore/creditore. Alla luce di quanto sopra il Tribunale ha escluso ogni possibile nullità della delibera per mancata costituzione del fondo speciale.

Le riflessioni conclusive

L’assemblea che delibera opere di manutenzione straordinaria e innovazioni deve costituire obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all’ammontare dei lavori; se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti (art. 1134, comma 1, n. 4).

L’esame della disposizione suddetta denota come la ratio della norma sia quella di circoscrivere l’esposizione dei singoli condomini verso fornitori e appaltatori del condominio in caso di delibere relative ad interventi implicanti significativi impegni economici.

Il Tribunale di Latina con sentenza n° 359 del 6 febbraio 2019 ha ritenuto che l’assemblea non possa deliberare di non costituire il fondo speciale prima della stipula del contratto d’appalto.

Più recentemente il Tribunale di Modena con sentenza n° 763 del 16 maggio 2019 ha dichiarato la nullità della delibera con la quale venivano disposti lavori straordinari senza la contestuale previsione di un fondo speciale di importo pari all’ammontare dei lavori.

L’obbligatorietà del fondo speciale induce a ritenere che, senza la sua costituzione, non si possa dare il via ai lavori, anche se va tenuto conto che la norma che lo prevede non è inderogabile (né sono previste sanzioni in caso di sua violazione).

L’articolo 1135 c.c. consente ai condomini di stabilire in delibera che il contratto da stipulare con l’appaltatore dei lavori di manutenzione straordinaria o delle opere di innovazione preveda un pagamento collegato agli stati di avanzamento, nel qual caso il fondo speciale può essere costituito in relazione ai pagamenti dovuti di volta in volta.

Come sostengono alcuni autori però, il fondo graduale, venendo allestito soltanto dopo l’approvazione dei singoli stati d’avanzamento, suppone la già avvenuta esecuzione delle opere contabilizzate e, quindi, a differenza del fondo integrale, pure l’immediata esigibilità del credito dell’appaltatore per la parte di prezzo corrispondente a quello specifico stato di avanzamento.

In ogni caso tale fondo non deve essere costituito se le opere sono urgenti, i lavori sono stati già completamente eseguiti e saldati, la spesa è stata approvata dall’assemblea che ha ratificato così l’operato dell’amministratore: in tal caso si può escludere il rischio di una possibile esposizione debitoria del condominio verso il terzo appaltatore/creditore.

Votazione segreta in condominio: quando è illegittima?

Come noto, ogni condomino ha diritto a un voto, indipendentemente dai millesimi di proprietà e dal numero di unità immobiliari di sua proprietà [1]. Naturalmente, il diverso peso della quota si farà sentire quando si tratterà di calcolare la maggioranza in base ai millesimi.

Per quanto attiene alle modalità di espressione, il voto in condominio deve essere palese e ciò – come si dirà a breve – principalmente allo scopo di individuare i condomini che hanno interesse a impugnare le delibere.

Il tribunale di Milano nella sentenza del 9 novembre 1992 [2] ha ritenuto illegittima la deliberazione dell’assemblea di condominio adottata a scrutinio segreto. Il voto segreto contrasta innanzitutto con la trasparenza che deve riguardare le decisioni dell’organo collegiale del condominio, al fine di consentire la verifica della valida formazione della volontà.

Il voto segreto, inoltre, non consente di accertare l’esistenza di eventuali conflitti di interessi tra il condominio e il singolo condomino.

D’altro canto, e non in ultimo, il diritto di impugnare le deliberazioni annullabili è di regola riconosciuto ai soli condomini assenti o dissenzienti i quali sono individuabili solo nel caso in cui la votazione sia palese. Non può impugnare la votazione dell’assemblea chi ha votato “a favore”. Sicché, se il voto fosse segreto, non si potrebbe comprendere chi ha diritto a contestare la votazione e chi invece è precluso da tale possibilità.

Detto orientamento è stato confermato anche da una serie di sentenze della Cassazione [3]. Cass. sent. n. 10329/1998.

Secondo la Suprema Corte, è annullabile la deliberazione dell’assemblea di condominio il cui verbale non indichi analiticamente i nomi dei partecipanti e il valore della proprietà di ciascuno espressa in millesimi, nonché il nome e il valore della quota proporzionale dei condomini assenti e dissenzienti.

Queste indicazioni sono assolutamente necessarie per verificare la validità della deliberazione e l’eventuale conflitto di interessi tra il singolo condomino e il condominio, nonché per individuare i soggetti legittimati a impugnare.

Compensi extra per l’amministratore di condominio

La natura negoziale dell’accordo, in tema di compenso “extra” in favore dell’amministratore, impone che per il relativo riconoscimento occorra dimostrare in giudizio, e nelle forme ad esso consone, l’effettiva attività posta in essere. La legittimità di un tale riconoscimento economico discende dal fatto che l’amministratore svolge un’attività piuttosto gravosa, parallela a quella “ordinaria”, non badando solamente alla tenuta della mera contabilità. Invero, questi è tenuto a predisporre, ove non si rivolga a monte ad un legale o ad un tecnico, alla stesura del contratto di appalto e/o alla verifica che le clausole ivi contenute non dispongano condizioni sfavorevoli al Condominio-committente, ovvero siano consone e non travalichino il mandato conferitogli in sede assembleare.

Peraltro, prima dell’inizio delle opere – possibilmente anche con l’ausilio di un tecnico – l’amministratore è tenuto a denunciarne l’esecuzione alle autorità competenti, a seconda della natura e dell’entità delle medesime. Lo stesso, al contempo, deve procedere al recupero dei fondi occorrenti per dare inizio ai lavori ed evitare che il condominio possa incorrere in esposizioni debitorie.

Nondimeno, l’amministratore è tenuto – come in genere previsto in sede assembleare – a curare la pratica per il conseguimento dei vantaggi fiscali eventualmente discendenti dalle detrazioni IRPEF, previste normativamente. Al termine dei lavori, è poi lo stesso amministratore ad accettare l’opera (e a firmare il certificato di esecuzione a regola dell’arte dei lavori, ove predisposto da parte del relativo tecnico), ovvero a denunciare la presenza di vizi secondo la tempistica prevista dal contratto ovvero dalle norme settoriali.

Tribunale Perugia, 27/06/2019, n.1035

Credito dell’amministratore per il recupero delle somme anticipate

Poiché il credito dell’amministratore per il recupero delle somme anticipate nell’interesse del condominio si fonda, ex articolo 1720 c.c., sul contratto di mandato con rappresentanza che intercorre con i condomini, è l’amministratore che deve offrire la prova degli esborsi effettuati, mentre i condomini, che sono tenuti, quali mandanti, a rimborsargli le anticipazioni da lui effettuate, con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte, e a pagargli il compenso oltre al risarcimento dell’eventuale danno, devono dimostrare di aver adempiuto all’obbligo di tenere indenne l’amministratore di ogni diminuzione patrimoniale in proposito subita.

Cassazione civile sez. II, 26/02/2019, n.5611

La legittimazione dell’amministratore

Il previo mandato non è sempre necessario: la legittimazione dell’amministratore di condominio nella diesa delle parti comuni, per il rispetto del regolamento condominiale e per la riscossione dei crediti

Nomina del legale: l’amministratore può sceglierlo in autonomia?

La questione se l’amministratore necessiti della previa autorizzazione dell’assemblea ai fini della nomina del legale o se, al contrario, possa procedervi autonomamente è argomento dibattuto. Sul punto, la Cassazione ha dato indicazione precisa. Che succede se l’amministratore nomina, come difensore del condominio, un avvocato suo amico o, comunque, lo fa senza consultare l’assemblea prima di conferirgli il mandato? Nulla: in base all’attuale legge e giurisprudenza consolidata, tra le funzioni tipiche dell’amministratore rientrano anche quelle di conferire la delega al legale per difendere il condominio, ad esempio resistendo all’impugnazione fatta da un condomino a una delibera assembleare (v. Cass. sent. n. 8309/2015).

Allo stesso modo, senza prima informare l’assemblea l’amministratore potrebbe incaricare l’avvocato di fare appello contro una sentenza sfavorevole al condominio, in considerazione anche dei tempi stretti entro cui va notificato l’atto di impugnazione. Una decisione del genere, infatti, stando alla su citata sentenza, non comporta né preventiva autorizzazione né tantomeno successiva ratifica da parte dei condomini, poiché l’esecuzione e la difesa delle deliberazioni assembleari rientrano fra le attribuzioni proprie dell’amministratore e nell’esercizio delle sue funzioni: lo stesso principio aveva espresso la Suprema Corte nel 2014 (Cass. sent. n. 1451 del 23.01.2014).

Nella propria sfera di competenze (ordinarie o incrementate dall’assemblea), l’amministratore è munito di poteri di rappresentanza processuale ad agire e resistere senza necessità di autorizzazione.

Non di meno la differenza tra le materie che rientrano nelle attribuzioni dell’amministratore e quelle che ne esorbitano è essenziale in tema di legittimazione passiva: passivamente legittimato nelle controversie aventi un oggetto che rientra nelle sue attribuzioni (autonomamente, ad esempio, costituendosi in giudizio per impugnare l’eventuale sentenza sfavorevole), maggiori dubbi solleva l’ipotesi nella quale la controversia abbia un oggetto che travalica le attribuzioni dell’amministratore. In tal caso è previsto un obbligo di previa informativa all’assemblea, in caso contrario può essere revocato ed è tenuto al risarcimento di eventuali danni.

La legittimazione dell’amministratore di condominio

In generale, l’amministratore di condominio è legittimato a intraprendere tutte le azioni giudiziali a tutela dei diritti del condominio e, quindi, indirettamente, anche degli stessi condomini. Rientra quindi nelle sue attribuzioni avviare una causa o difendere il condominio da un’azione intrapresa da altri (siano essi gli stessi condomini o i terzi) senza bisogno di richiedere prima l’autorizzazione dell’assemblea, come poc’anzi precisato.

È pacifico che l’amministratore possa agire autonomamente quando siano oggetto di giudizio questioni che rientrino nelle sue specifiche competenze istituzionali ai sensi degli art. 1130 e 1131 cod. civ. In tutti gli altri casi, egli deve sempre farsi prima autorizzare dall’assemblea o, in mancanza, richiedere da questa una ratifica dell’operato.

Altrettanto piano è il fatto che l’amministratore del condominio sia legittimato, senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare, ad agire in giudizio nei confronti dei singoli condomini e dei terzi al fine di eseguire le deliberazioni dell’assemblea dei condomini, disciplinare l’uso delle cose comuni così da assicurare il godimento a tutti i partecipanti al condominio, riscuotere dai condomini i contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio.

La delibera che autorizza il capo condomino a promuovere o resistere in una causa, nelle altre materie al di fuori degli esempi citati, deve essere assunta con il consenso della maggioranza dei partecipanti all’assemblea che rappresenti almeno la metà dei millesimi dell’edificio.

Riscossione dei crediti condominiali e legittimazione dell’amministratore

L’amministratore può agire senza previa autorizzazione dell’assemblea per riscuotere i crediti nei confronti dei condomini morosi. Pertanto, è legittimato a nominare un avvocato affinché richieda un decreto ingiuntivo e può costituirsi in giudizio nel caso in cui il debitore proponga opposizione al decreto stesso.

L’amministratore ha l’autonomia, una volta ricevuta la notifica di un decreto ingiuntivo da parte di un fornitore, di nominare un avvocato di propria fiducia e incaricarlo di svolgere l’opposizione nelle modalità già descritte. Anche in questo caso, non necessita della previa autorizzazione dell’assemblea a meno che l’ oggetto del decreto non rientri tra le sue attribuzioni di competenza elencate dalla legge. Tra queste si può annoverare il pagamento dei fornitori.

Legittimazione dell’amministratore per il rispetto del regolamento condominiale

L’amministratore è legittimato ad agire in giudizio (sia in forma attiva che passiva), senza la necessità di una delibera preventiva di autorizzazione dell’assemblea per ottenere il rispetto del regolamento condominiale: ciò poiché l’esecuzione e la difesa delle delibere assembleari rientrano tra le attribuzioni proprie dell’amministratore (v. Cass. n. 1451/2014).

Niente case di riposo nei condomini

Il regolamento che vieta di svolgere negli appartamenti destinati ad uso abitativo attività di tipo commerciale, deve essere interpretato nel senso che tra le attività escluse ci sono anche le case di riposo per gli anziani. Trattasi infatti di attività che prevedono prestazioni assistenziali e alberghiere esercitate in forma imprenditoriale in cambio di una prestazione in denaro. L’assemblea può quindi inibirla con delibera, se il regolamento vieta lo svolgimento delle attività delle “industrie, professioni, laboratori, commerci, arti e mestieri.” Questi i chiarimenti forniti dalla Cassazione con la sentenza n. 38639/2021

Tralasciando l’esame delle questioni puramente procedurali e concentrando l’attenzione sul merito della questione, si evidenzia che la Corte di Cassazione ha rigettato le tesi difensive sollevate dai due condomini.

La Cassazione rileva che nel caso di specie il divieto di esercitare determinate attività all’interno del condominio è legittimo in quanto sancito da una “pattuizione contrattuale con cui, la fine di imprimere determinate caratteristiche all’edificio, si impongono limitazioni (il peso di cui all’art. 1027 c.c.) alla libertà di utilizzazione delle porzioni di proprietà esclusiva, attinenti non all’attività personale dei condomini, bensì alla proprietà del singolo immobile (…)”

Per quanto riguarda poi l’interpretazione delle clausole del regolamento che nel caso di specie vietano l’esercizio dell’attività di casa di riposo all’interno del Condominio, la Cassazione, dopo aver richiamato la corretta definizione della Corte di merito chiarisce che “Il dato che le case di riposo per anziani debbano comunque possedere i requisiti edilizi previsti proprio per gli alloggi destinati a civile abitazione non contrasta con la diversa considerazione che le medesime case di riposo si connotano come strutture a ciclo residenziale, le quali prestano servizi socio assistenziali ed erogano prestazioni di carattere alberghiero.”

Non rilevano, ai fini della esclusione delle case di riposo tra le attività commerciali vietate, le classificazioni della Camera di commercio, i pareri dell’Avvocatura dello Stato, le evoluzioni della legislazione in tema di servizi socio-assistenziali e il regime fiscale di esenzione stabilito per le prestazioni socio assistenziali.

Conclusioni che confermano anche la recente decisione del Tribunale di Napoli, che con la sentenza n. 147/2021 (sotto allegata) ha escluso la possibilità, all’interno di un condominio, di destinare gli appartamenti a case di riposo, perché trattasi di attività che prestano servizi anche di tipo alberghiero e assistenziale, non rileva che la destinazione dell’appartamento sia rimasta abitativa.

Decreto ingiuntivo per debiti condominiali: basta una delibera di approvazione del consuntivo

Ogni condòmino che abbia un’esposizione debitoria verso il condominio, si è posto almeno una volta un interrogativo: la delibera che approva il consuntivo da cui emergono tutti i debiti di ciascun partecipante alla cosa comune, può costituire valido titolo per un’azione di recupero crediti? Non è una questione di poco conto: difatti, molti condòmini non attribuiscono la corretta rilevanza giuridica all’approvazione di un bilancio consuntivo; si tende erroneamente a pensare che il consuntivo sia soltanto un rendiconto insuscettibile di confermare la posta di debito di ogni condòmino.

L’iter procedurale

Tale errato convincimento, induce a ritenere che, se il condominio decidesse di agire per il recupero dei crediti maturati verso uno o più condòmini, sarebbe comunque necessario procedere ad individuare e produrre il titolo di credito specifico su cui si fonda la pretesa; si dovrebbe poi recapitare al/ai debitore/i un formale atto stragiudiziale di diffida e messa in mora per interrompere la prescrizione del credito; e solo dopo avere assolto ai passaggi precedenti, si potrebbe legittimamente chiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo. Ebbene, con la recentissima ordinanza numero 27849 del 12 ottobre 2021, la Cassazione, torna su questo tema già oggetto di numerose ed uniformi pronunzie, facendoci comprendere che occorre guardare all’approvazione del consuntivo come ad un atto capace di dare pieno e legittimo fondamento ad un’ingiunzione di pagamento.

Il caso

Un condominio , in persona del suo amministratore, otteneva dal Giudice di pace l’emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti di un condòmino debitore di somme per spese condominiali relative a più anni di gestione. Il decreto ingiuntivo veniva concesso sulla scorta della delibera di assemblea con cui erano stati approvati il consuntivo per l’anno 2017 ed il preventivo per l’anno 2018; da precisare che il consuntivo riportava dettagliatamente tutti i debiti rimasti insoluti negli anni precedenti. Il condòmino ingiunto, si determinava a spiegare opposizione, argomentando circa lil fatto che non fosse tenuto a corrispondere alcunché.

Difatti, secondo l’assunto del condòmino, il consuntivo 2017 poteva giustificare soltanto l’emissione di un decreto ingiuntivo volto al recupero di crediti maturati nel corso di quell’anno di gestione, essendo invece necessario fornire altro valido titolo per il recupero del pregresso. Si pronunziava sull’opposizione il Tribunale di Genova, che rigettava ogni richiesta avanzata dal condòmino moroso, adducendo il pieno valore della delibera di approvazione del consuntivo 2017 quale titolo idoneo all’ottenimento di un legittimo decreto ingiuntivo per i debiti antecedenti. Il condòmino, per nulla d’accordo con i giudici, decideva quindi a ricorrere in Cassazione.

Il valore della delibera di approvazione del consuntivo

La Suprema corte a questo punto, osserva come il consuntivo per successivi periodi di gestione che nel prospetto dei conti individuali per singolo condòmino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’articolo 1137 del Codice civile.

Trattasi della norma che disciplina le sorti cui possono andare incontro tutte le deliberazioni adottate dall’assemblea dei condòmini: se uno dei compartecipanti alla cosa comune dissente rispetto alla delibera, ha 30 giorni di tempo (decorrenti dal momento in cui ha avuto conoscenza dell’atto) per ricorrere all’autorità giudiziaria e chiedere che sia pronunziata la sua nullità o annullabilità. Cosa succede, dunque, se il condòmino moroso non impugna il verbale con cui si approva il consuntivo che conferma la sua posta di debito? Ebbene, «il consuntivo approvato e non contestato, costituisce idoneo titolo del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non costituendo un nuovo fatto costitutivo del credito stesso» (Cassazione, 7741/2017; Cassazione, 3847/2021; Corte d’appello Milano, 1906/2021).

La delibera condominiale di approvazione, legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condòmino a pagare le somme; difatti, in sede di opposizione, occorre soltanto dimostrare la perdurante esistenza e validità della deliberazione assembleare di approvazione della spesa, e di ripartizione del relativo onere (Cassazione, Sezioni unite, 26629/2009). In buona sostanza, «dall’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore, che è munito della forza vincolante propria degli atti collegiali ai sensi del primo comma dell’articolo 1137 del Codice civile, discende l’insorgenza, e quindi anche la prova, dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condòmini è tenuto a contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni dell’edificio».

Conclusioni

Tornando al caso di specie, la Cassazione, in perfetta coerenza con tutti i suoi pronunciamenti in argomento, con la sua ultima ordinanza dichiara validissimo e legittimo l’operato del Tribunale di Genova che, rilevando come la delibera di approvazione del consuntivo 2017 non fosse stata impugnata, benché il condòmino moroso fosse presente all’assemblea, ne ha conseguentemente ricavato la corretta deduzione che nessuna contestazione poteva essere sollevata nel giudizio di opposizione, essendosi la delibera ormai perfettamente consolidata. Attenzione, quindi, a dare la giusta rilevanza all’approvazione di un bilancio consuntivo: è sufficiente tale atto per avviare validamente il recupero coattivo dei crediti vantati dal condominio.

La revoca anticipata senza giusta causa e/o rinuncia all’incarico

Quando l’amministratore può chiedere il risarcimento e quando rischia di vederselo domandato?

La deliberazione di nomina seguita dall’accettazione dell’incarico fa sorgere il contratto di mandato che lega la compagine all’amministratore. L’incarico, per espressa previsione legislativa, ha durata annuale e si rinnova automatica per un altro anno (art. 1129 c.c.).

Di fatto una sorta di contratto 1+1 come il più noto 4+4 per le locazioni. Ciò significa che al termine del periodo di gestione il mandatario decade ex lege dal proprio incarico.

 L’Amministratore di condominio e le basi del Mandato

La giurisprudenza ha chiarito che fino alla assemblea successiva assemblea di conferma o revoca, l’amministratore prosegue il proprio incarico nel regime così detto di prorogatio imperii (cfr. Cass. n. 1445 del 1993). L’indicazione giurisprudenziale è stata tradotta in legge ad opera della così detta riforma (cfr. art. 1129, ottavo comma, c.c.).

Si tratta di una sorta di mandato ad interim necessario a garantire la continuità amministrativa del condominio.

Ciò detto è ben possibile che il rapporto giuridico venga interrotto dal condominio prima del termine naturale.

Al riguardo è chiarissimo l’inciso iniziale dell’undicesimo comma dell’art. 1129 c.c. allorquando ricorda che la revoca del mandatario del condominio “?può essere deliberata in ogni tempo dall’assemblea, con la maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio”.

Per assurdo, quindi, l’amministratore potrebbe essere revocato anche subito dopo la nomina. È sufficiente farne richiesta nei modi e nei termini di cui all’art. 66 disp. att. c.c. e successivamente deliberarne la revoca con le maggioranze previste dalla legge (art. 1136 c.c.).In questo contesto il riferimento alle modalità regolamentari dev’essere inteso come individuazione di specifiche modalità attinenti al procedimento di convocazione ma non ai quorum o alla possibilità stessa di revocare in ogni tempo il mandatario in quanto l’art. 1129 c.c. è tra quelli assolutamente inderogabili ai sensi dell’art. 1138 c.c..

Rebus sic stantibus, ci si è domandati: la revoca assembleare, il cui effetto sostanziale è quello del recesso anticipato dal contratto, è esercitabile ad nutum o, comunque, dev’essere giustificata per evitare una richiesta di risarcimento del danno? S’è detto che tale rapporto contrattuale è disciplinato dagli artt. 1129-1130 c.c. e dalle norme sul mandato Ebbene, il codice civile parla chiaramente:

La revoca del mandato oneroso, conferito per un tempo determinato o per un determinato affare, obbliga il mandante a risarcire i danni, se è fatta prima della scadenza del termine o del compimento dell’affare, salvo che ricorra una giusta causa (art. 1725, primo comma, c.c.).

In sostanza se è vero che l’assemblea può revocare l’amministratore in qualsiasi momento, è altrettanto vero che la mancanza di una giusta causa alla base deliberazione de quo consente all’amministratore revocato di agire per ottenere il risarcimento del danno.

Questa impostazione ha trovato riscontro in seno alla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Era il 2004 quando è stato affermato che “se la revoca interviene prima della scadenza dell’incarico, l’amministratore avrà diritto alla tutela risarcitoria, esclusa solo in presenza di una giusta causa a fondamento della revoca (art. 1725, co. 1°, cod. civ.).

E deve ritenersi che le tre ipotesi di revoca giudiziale previste dall’art. 1129, co. 3°, cod. civ. configurino altrettante ipotesi di giusta causa per la risoluzione ante tempus del rapporto” (così Cass. SS.UU. 29 ottobre 2004 n. 20957).

Sulla stessa lunghezza d’onda s’è espressa, in passato, autorevole dottrina. In sostanza una lettura coordinata di due norme, ossia gli artt. 1129, undicesimo comma, c.c. e 1725, primo comma, c.c., consente di affermare che l’amministratore, che sia retribuito per l’opera svolta, può ottenere il risarcimento del danno per inadempimento.

E’ bene ricordare che “sulla base della tradizione manualistica costituisce principio reiterato che l’art. 1218 c.c. stabilisce a favore del creditore un’inversione dell’onus probandi, sostanzialmente basata su una presunzione di colpa in capo al debitore inadempiente” (Cendon, 2008, 466 e conf. Cass. SS.UU. 30 ottobre 2001 n. 13533).

In sostanza aderendo a questa impostazione che presenta un chiaro favor per l’amministratore revocato, quest’ultimo, nei fatti, avrà il diritto a non essere revocato senza giusta causa o, qualora ciò accadesse, avrebbe la possibilità di ottenere il risarcimento del danno corrispondente quanto meno alla mancata percezione della retribuzione fino alla cessazione naturale dell’incarico.

Per fare ciò gli basterebbe dimostrare d’essere l’amministratore e di essere stato revocato anticipatamente affermando la mancanza di una giusta causa e quantificando il danno.

Spetterebbe al condominio fornire prova della presenza di una giusta causa rintracciabile anche tra quelle elencate dall’art. 1129, terzo comma, c.c.

Se ne converrà che se dimostrare l’omessa presentazione del bilancio per due anni consecutivi non è cosa difficile, farlo con riferimento ai “fondati sospetti di gravi irregolarità” di cui parla la norma testé citata è cosa tutt’altro che agevole.

Delibere assembleari: effetti della mediazione sulla decorrenza del termine per l’impugnazione

Le controversie in materia condominale rientrano tra quelle per le quali l’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 prevede l’obbligo della mediazione preventiva, pena l’improcedibilità delle domande giudiziali. Il condomino che intende impugnare una delibera assembleare, prima di procedere giudizialmente deve rivolgersi ad un organismo autorizzato dal ministero della Giustizia depositando la domanda di mediazione. Una volta depositata la domanda il mediatore fissa il primo incontro tra le parti. La domanda e la data del primo incontro vengono comunicate all’altra parte a cura della parte istante.

Come stabilito dall’art. 1137 cod. civ., contro le delibere assunte dall’assemblea condominiale contrarie alla legge o al regolamento di condominio, l’impugnazione va proposta entro il termine perentorio di trenta giorni che decorre per i dissenzienti e gli astenuti dalla data della delibera e per gli assenti dalla data della sua comunicazione.

Per impedire la decorrenza del termine decadenziale dei trenta giorni previsto per l’impugnazione delle delibere è sufficiente che il condomino depositi la domanda di mediazione presso l’organismo di mediazione oppure è necessario che entro tale termine il condominio deve ricevere l’invito ad aderire alla procedura di mediazione?

Ad oggi sulla questione non vi è univocità di vedute. Infatti, nell’ambito della giurisprudenza si sono formati due orientanti, l’uno l’opposto dell’altro.

La problematica nasce dal disposto dall’art. 5, comma 6, del D.Lgs. 28/2010 secondo il quale “dal momento della comunicazione alle altre parti, (…) la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo”.

Un primo orientamento ritiene che il termine decadenziale dei trenta giorni si considera rispettato con la ricezione da parte del condominio dell’invito ad aderire al procedimento di mediazione (Trib. Torre Annunziata 3 luglio 2019 e Trib. Milano 4 gennaio 2019, Corte di appello di Milano , 27 gennaio 2020, sentenza 253/2020, Tribunale di Roma, sent. n. 3159/2021).

Un secondo orientamento ritiene, invece, che per il rispetto del termine decadenziale dei trenta giorni è sufficiente il deposito da parte del condomino dell’istanza di mediazione presso il competente organismo, essendo irrilevante a tal fine la ricezione da parte del condominio dell’invito ad aderire al procedimento oltre il predetto termine in quanto l’interruzione di una decadenza si produce con l’attività compiuta da parte del soggetto onerato al compimento della stessa e non da parte di soggetti terzi (Tribunale di Firenze 2718/2016, Tribunale di Sondrio 25 gennaio 2019, Tribunale di Brescia, sent. n. 648/2020).

Nel solco di quest’ultimo orientamento si è inserito di recente il Tribunale di Terni con la sentenza 560/2021, pubblicata l’8 luglio 2021, che nell’ambito di un giudizio di impugnazione di una delibera condominiale ha riget_tato l’eccezione preliminare di decadenza per tardività dell’impugnazione formulata dal condominio convenuto.

Secondo il Tribunale umbro, l’art. 5, comma 6, del D.Lgs. 28/2010, va interpretato, nel senso che l’effetto interruttivo della decadenza si produce sin dal momento del deposito della domanda di mediazione presso l’organismo competente e la successiva comunicazione alle altre parti costituisce una mera condizione per il “consolidamento” di tale effetto.

Un’interpretazione della norma coerente non solo con i principi generali espressi dalla Corte di cassazione e dalla Corte co_stituzionale (si pensi al principio della “scissione” degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, espressione della regola generale secondo cui una decadenza non può determinarsi in ragione del decorso del tempo di un’attività demandata a terzi e sottratta all’ingerenza dell’interessato), ma anche con la normativa comunitaria (articolo 8 della direttiva 2008/52 CE), ha osservato il giudicante, impongono di ritenere che l’interruzione del termine decadenziale per proporre l’impugnazione della delibera si ha con il deposito della domanda di mediazione presso il competente organismo.

Con la sent. n. 2273/2019 emessa nell’ambito di un giudizio di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo (legge Pinto), la Corte di cassazione ha affermato che, sulla base del chiaro tenore letterale del sopra citato comma sesto dell’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 “solo la comunicazione della domanda di mediazione, e non anche il merito deposito della stessa, impedisce il prodursi della decadenza”